sabato 30 giugno 2018

Classe dirigente. Barilla, Corallo e Margherita Agnelli: i tesori dei vip d’Italia sono all'estero

L'erede insoddisfatta di casa Fiat ha una società da 1,5 miliardi alle isole Vergini. La dinastia industriale di Parma preferisce Hong Kong. E il re delle slot machine nasconde oltre 42 milioni di euro a Dubai mai sequestrati nonostante l’arresto. Da Panama le nuove carte sui conti segreti dei ricchi.

Barilla, Corallo e Margherita Agnelli: i tesori dei vip d’Italia sono all'estero La lite familiare più ricca della storia d’Italia si era chiusa in Cassazione, nel 2015, con un verdetto chiaro: Margherita Agnelli, l’erede insoddisfatta di casa Fiat, non ha ottenuto un soldo in più di quello che aveva già incassato nel 2004, un anno dopo la morte del padre. Anni di processi però non hanno svelato il dato di fondo: a quanto ammontava l’eredità di Gianni Agnelli e quanto aveva ricevuto esattamente la figlia Margherita? L’unica cifra conosciuta, all’inizio, era un bonifico bancario di 109 milioni. Poi un avvocato svizzero, vistosi accusare di aver preteso una parcella esagerata, ha replicato che Margherita avrebbe ottenuto beni per un valore complessivo di 1.166 milioni. Ora, per la prima volta, è lei stessa a quantificare il suo tesoro ereditario, che supera ogni precedente stima: un miliardo e mezzo.


A rivelare questo e molti altri tesori offshore dei ricchi d’Italia sono i nuovi Panama Papers: 1,2 milioni di documenti ottenuti dal quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung e condivisi con il consorzio giornalistico Icij, di cui fa parte L’Espresso. Le nuove carte fotografano gli effetti della prima, colossale fuga di notizie su oltre 200 mila casseforti offshore create dal 1977 al 2015 dallo studio Mossack Fonseca.

Il 3 aprile 2016, quando oltre 300 giornalisti di tutto il mondo cominciano a pubblicare i nomi dei ricchi e potenti con società e conti nei paradisi fiscali, a Panama City scoppia il panico. Lo studio delle offshore avrebbe dovuto identificare e registrare tutti gli azionisti, invece decine di migliaia di società sono totalmente anonime. Solo a Panama, su 10.551 offshore in attività, 7.913 hanno beneficiari sconosciuti. Alle British Virgin Islands, su 28.427, sono fuorilegge 20.465. Alle Seychelles, su 5.575, solo 118 hanno titolari registrati. I giornalisti della squadra Icij continuano a svelare nomi di oligarchi russi, miliardari arabi, politici europei, stelle dello spettacolo e personalità di tutto il pianeta con tesori segreti nei paradisi fiscali, mentre le autorità di molti Stati premono sul governo di Panama e professionisti di mezzo mondo, infuriati, temono la fuga dei clienti più ricchi. A Panama parte così una caccia disperata ai nomi dei beneficiari. E alle certificazioni sull’origine delle loro ricchezze. Nel tentativo di evitare il disastro poi verificatosi: arresto dei titolari, chiusura dello studio, indagini in decine di stati, compresa l’Italia, dove il fisco indaga su una prima lista di 800 signori delle offshore.

In questo clima, il 22 settembre 2016, un fiduciario svizzero della Fidaudit si sente chiedere chi sia il suo cliente, titolare di una società ricchissima, Blossom Investment Services Corp., fondata alle British Virgin Islands il 4 giugno 2003 e controllata da un’altra offshore, Seashell Holding Corporaton. La filiale di Mossack Fonseca a Ginevra riceve la risposta il 20 ottobre: il beneficiario unico è la signora Margherita Agnelli.

Nel modulo sulle ricchezze, il suo fiduciario svizzero, che è anche amministratore della società-cassaforte, scrive a penna che l’attività della Blossom è «la gestione di conti bancari per investimenti finanziari in Svizzera, Lussemburgo, Singapore e Nassau», del valore di «1,5 miliardi», che provengono dalla «eredità di suo padre Giovani Agnelli» (scritto così, senza una enne).

Margherita Agnelli vive da anni in Svizzera. E i suoi avvocati italiani, interpellati da L’Espresso, precisano che non ha obblighi fiscali verso l’Italia.

Nei nuovi Panama papers compare anche un’altra prestigiosa dinastia industriale italiana. Due anni fa, nei primi documenti, L’Espresso aveva trovato una offshore di Emanuela Barilla: Jamers International, creata nel 2014 nelle Isole Vergini Britanniche e controllata dalla Maya International Foundation di Panama. Le carte più recenti mostrano che quella fondazione, domiciliata nella sede di Mossack Fonseca, era azionista anche di un’altra offshore delle Isole Vergini, chiamata Kimora Industries Ltd, che ha per beneficiari gli altri tre fratelli: Guido Maria, Paolo e Luca. Il primo è l’attuale presidente del gruppo di Parma, gli altri sono consiglieri d’amministrazione.
La Kimora Industries nasce nell’autunno 1999 e fin dall’inizio fa capo ai tre attuali beneficiari.

Tra il 2015 e il 2016 un loro avvocato svizzero riceve l’incarico di aprire e gestire un conto a Hong Kong, alla Standard Chartered Private Bank. Le comunicazioni si interrompono nella primavera 2016, quando esplode lo scandalo dei Panama papers. Un anno dopo i tre fratelli Barilla decidono di liquidare la Kimora, che viene chiusa il 7 aprile 2017. A quel punto i vari consulenti, Mossack Fonseca a Panama e lo studio Kellerhals Carrard in Svizzera, pianificano di spostare altrove i fondi usciti dalla Kimora. Destinazione prescelta: Emirati Arabi.

A riceverli saranno altre due società offshore, Starsight Trading e Samag Resources, sui rispettivi conti alla First Gulf Bank di Dubai. I professionisti svizzeri chiedono ai colleghi di Panama, che devono liquidare la Kimora, di non mandare i soldi direttamente sui conti di Dubai, ma di usare come intermediario la Citibank di New York.

Emanuela Barilla con la sua Jamers, l’unica offshore già rivelata nel 2016, decide di seguire un’altra strada. Il 21 agosto 2017 i gestori della sua offshore cancellano i titoli di proprietà della Maya Foundation e li sostituiscono con un solo certificato che vale 50 mila azioni, intestato a Emanuela Barilla. Che da quel momento è la beneficiaria diretta della Jamers, senza più lo schermo ormai bruciato della fondazione di Panama. Alla fine del 2017 i suoi consulenti avviano le pratiche per creare una nuova società, senza specificare dove, ma a quel punto i documenti si interrompono.

Guido Maria Barilla, anche a nome dei fratelli, ha risposto alle nostre domande con questa importante dichiarazione: «I componenti della famiglia Barilla sono in regola con le obbligazioni tributarie in Italia». Dall’industria di Parma che ha reso famosa nel mondo la pasta italiana è arrivata anche un’altra precisazione: «Il Gruppo Barilla è completamente estraneo ai fatti, dati o circostanze riportati» nei Panama Papers.

Stefano Pessina è un famoso imprenditore, nato in Italia, che è diventato il re della distribuzione di farmaci, come primo azionista della multinazionale Wallgreens Boots Alliance. Il suo nome era già comparso nei Panama Papers del 2016. Ora i nuovi documenti svelano altre sue offshore e, soprattutto, quantificano la sua immensa ricchezza. Quando è scoppiato lo scandalo di Panama, l’ingegner Pessina non ha fatto una piega. È rimasto cliente di Mossack Fonseca e ha risposto tranquillamente, il 4 aprile 2017, alle richieste di fornire tutti i documenti per identificare i beneficiari di tre società delle British Virgin Islands: Ambassador Rose International, Empire Rose Management e Pecove Holding. Attraverso i consulenti, ha trasmesso la copia del suo passaporto e una bolletta di casa, per provare la sua residenza. A quel punto lo studio ha potuto rilasciare il certificato di titolarità delle tre offshore, che oltre a Pessina hanno altri due azionisti: Claude Sol Cohen e Antonella Fiorentino Vedeo.

La trafila si ripete per la società Zenith delle Isole Vergini, controllata solo da Pessina e Cohen, usata per gestire proprietà immobiliari nel Principato di Monaco. Qui la bolletta allegata riguarda la residenza di Pessina a Montecarlo, chiamata con ironia «Villa Farniente». E proprio nel dossier sull’origine dei fondi destinati alla Zenith («parecchi milioni di euro»), nell’ultima pagina, Pessina quantifica la fortuna complessiva accumulata con la sua «carriera nell’industria farmaceutica»: «oltre 10 miliardi di dollari americani».

Stefano Pessina, attraverso un portavoce, ha dichiarato a "L'Espresso" che «le immobiliari menzionate, peraltro già liquidate, erano riferibili all'organizzazione finanziaria predisposta per la gestione di una parte del suo patrimonio immobiliare nel Principato di Monaco». Il portavoce ha aggiunto inoltre che «le suddette società non hanno alcuna rilevanza sul piano fiscale in Italia né altrove poiché Stefano Pessina è cittadino monegasco e ivi residente da decenni».

Di tutt’altra specie sono le ricchezze nascoste alla Mashreq Bank di Dubai da Francesco Corallo, il re delle slot machine oggi inquisito per una maxifrode fiscale da oltre 200 milioni e per la presunta corruzione di Gianfranco Fini, con almeno sei milioni versati ai suoi familiari Elisabetta e Giancarlo Tulliani. L’allarme a Panama scatta solo nel dicembre 2016, dopo l’arresto di Corallo: «Urgente - Alto rischio - Il beneficiario della nostra offshore è stato incarcerato». La cassaforte segreta di Corallo, svelata da l’Espresso nell’aprile 2016, è una società delle Seychelles chiamata Vales Tru Admin Services Limited. Sui conti di Dubai (tre personali, tre della offshore) sono arrivati oltre 42 milioni di euro sottratti allo Stato italiano, secondo le accuse documentate dai finanzieri dello Scico, che hanno convinto i magistrati di Roma a ordinarne il sequestro. Non ancora eseguito, però, dagli Emirati Arabi. Ma anche in Italia l’imputato Corallo continua non avere problemi con le autorità politiche: a difenderlo in tribunale è ancora lo studio dell’avvocato Giulia Bongiorno, oggi ministro della Lega.

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