giovedì 21 giugno 2018

Razzismo, antisemitismo e il ruolo delle “giornate della memoria”.

Dietro il riemergente razzismo di massa ci sono tante cause. 


La prima che mi viene in mente, che cito appena e che non affronterò, è economica. Viene alimentata strumentalmente l’ostilità verso il povero di altra nazionalità che sottrae risorse al già deprivato stato sociale. Una volta sottraeva lavoro, ma non essendoci più nemmeno questo, adesso sottrae l’elemosina. È una rappresentazione del problema che merita di essere affrontata e smontata in altra sede.
Un’altra causa è di natura culturale. E qui mi dilungo un po’, perché voglio affrontare un punto che ha costituito un topos educativo nelle scuole italiane. Non sono serviti a niente anni e anni di “giorno della memoria”. Non hanno sortito quell’effetto sperato del “mai più”. Oggi riviviamo scandalosamente fenomeni fomentatori all’odio razziale, senza che la coscienza pubblica di un popolo se ne avveda.

L’uso spettacolare del giorno della memoria, la sua resa hollywoodiana, il trattamento penalistico della memoria sulla Shoah (si vedano gli studi dello storico Enzo Traverso), hanno annullato il fondamento di ogni comprensione (prima ancora che di ogni memoria) del razzismo, perché ha isolato un popolo e ne ha dimenticati altri. Guarda caso proprio quelli che oggi un ministro può permettersi di dire che vanno schedati.
La spettacolarizzazione e la banalizzazione dell’Olocausto1 hanno avuto serie conseguenze da questo punto di vista. Innanzi tutto nella coscienza comune è scomparsa la consapevolezza che ci fu una soluzione finale anche per zingari, omosessuali, disabili (oltre agli oppositori politici di qualunque tipo). Quel discorso pubblico, cioè, ha fatto dimenticare che alla base dell’antisemitismo c’è il razzismo, quel razzismo che accomuna l’odio verso l’ebreo all’odio verso lo zingaro, verso il negro, verso l’albanese (qualcuno se lo ricorda?), verso il palestinese, ecc. Si è sempre l’ebreo di qualcun altro, diceva, se non ricordo male, Primo Levi.
Invece sembra che l’antisemitismo sia diventato qualcosa di speciale, tanto da non considerare semiti, per esempio, anche i popoli arabi, nonostante con “semitico” si intenda un tipo linguistico che comprende arabo, ebraico, cananaico, accadico, aramaico, amarico e altri ancora. Basta leggere Wikipedia. Come mai?
Chi parlò di antisemitismo per primo lo fece parlando degli unici semiti che aveva davanti, ossia gli ebrei tedeschi. Accadde nell’Ottocento e chi ne parlò fu Wilhelm Marr. Anche qui, si veda Wikipedia. La riduzione di semita a ebreo ha una sua specificità storica (non è solo un errore), che è stata perpetuata però, anche ideologicamente, fino ad oggi, al punto tale che non solo l’antisemitismo è diventato solo l’odio verso gli ebrei (chi parlerebbe mai di antisemitismo, infatti, per indicare l’odio verso l’arabo?), ma è anche una forma speciale di discriminazione che va ricordata, commemorata, sacralizzata, ma non ricondotta sotto l’alveo del razzismo, che lo assocerebbe immediatamente all’odio verso lo zingaro o l’africano o il meridionale. Invece, nella coscienza comune l’antisemitismo è speciale, senza alcuna “proprietà transitiva”.
Se così non fosse, sarebbe possibile parlare di “pacchia” per i migranti senza una sollevazione generale? Si potrebbero schedare gli zingari, tenendoci “purtroppo” i nostri, senza che ciò facesse emergere in tutti l’idea di un reato penale (come invece è previsto per il nagazionismo)? Dove sta la coscienza del razzismo che più di un decennio di “giornate della memoria” avrebbe dovuto radicarsi negli italiani? Ma ve lo immaginate cosa scatenerebbe se si parlasse di Perlasca o Schindler come di trafficanti di ebrei? Come mai non accade lo stesso se si parla di ONG?
In un’intervista allo storico Enzo Traverso si legge questo passaggio, da ricordare:
«La Shoah è entrata nella coscienza storica del mondo occidentale, tanto che si può parlare di ossessione della memoria, quasi una compensazione tardiva rispetto al lungo silenzio che l’aveva avvolta nel dopoguerra. E tuttavia la retorica della memoria rischia di diventare sterile. Il problema non è quello di ricordare ma dell’uso politico che della memoria si fa. Intendo dire che non serve commemorare ogni anno la liberazione di Auschwitz o far leggere Primo Levi nelle scuole se non si cerca di inscrivere nel presente questa memoria, mettendola in rapporto alle nuove forme di razzismo, ai genocidi della fine del `900.
[…]
Credo che la memoria della Shoah sia diventata una sorta di religione civile dell’Occidente democratico. Per essere solide e virtuose, le democrazie devono conservare la memoria dell’Olocausto. È un fatto importante. Ma questa religione civile ha le sue zone d’ombra e non deve sottrarsi alla critica: tra gli statisti che nel gennaio scorso [del 2005 ndr] hanno commemorato ad Auschwitz la liberazione dei campi di sterminio, c’erano anche i responsabili di Guantanamo e di Abu Ghraib».2
Ecco, quell’uso politico ha reso intransitivo il carattere esecrabile dell’olocausto, un carattere che non si trasmette alle altre forme di discriminazione razziale e non si radica nelle coscienze.
Evidentemente continua fino a oggi quella mutazione antropologica (per dirla con Pasolini) o molecolare (per dirla con Gramsci) di quell’Italia imborghesita e oggi impoverita (ma non povera ancora), che ha dimenticato le sue radice antifasciste e democratiche.
Forse l’Italia è un paese che sa condannare l’antisemitismo, ma ciò non ha impedito che ragioni economiche e strumentalizzazioni ideologiche lo abbiano mutato in un paese fondamentalmente razzista, alla faccia delle sue radici cristiane.
1 Ne parlava già nel 200 lo storico statunitense di origine ebraica Norman G. Finkelstein in L’industria dell’Olocausto: Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei.
2 La fabbrica europea dell’Olocausto, http://www.marx21.it/component/content/article/42-articoli-archivio/6589-la-fabbrica-europea-dellolocausto.pdf

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