Di questi tempi, che piovono dal cielo dei governi, pesanti come
chicchi di grandine, quasi solo atteggiamenti e decisioni densi di
insipienza, mi vien da pensare come, nella prima metà del Novecento, vi
sia stata una vera e propria rivoluzione copernicana nella comprensione
dei fatti economici, con studiosi capaci di “vedere al di là del velo
delle mere apparenze”, come accadde quando fu faticosamente superato il
geocentrismo. Allo stesso tempo mi chiedo come negli ultimi
cinquant’anni, invece, possa esservi stato in vaste parti della teoria
economica un regresso cognitivo altrettanto sorprendente. Ed è
interessante pure come tutto ciò, rivoluzione e controrivoluzione, abbia
avuto riflessi importanti sulla cultura espressa dalla sfera politica e
da quella della comunicazione influente.
La
prima rivoluzione mi sembra tanto ovvia quanto ampiamente sottovalutata e
per certi versi non pienamente compresa, quanto meno se si pensa che
chi conosce bene i rivoluzionari della prima ora in macroeconomia –
Robertson, Keynes, Hansen, Lerner- potrebbe fare fatica a vedere la
parentela che questi studiosi hanno con quelli, da Pigou a Coase, che
hanno posto con grande anticipo le premesse per una critica radicale
all’efficienza dei mercati, evidenziando addirittura come il sistema dei
prezzi espresso dal libero agire del mercato sia un pessimo indicatore
di valori relativi, e quindi fonte di distorsioni sistematiche nell’uso
delle risorse.
Molto più arduo per me, e penso per molti, cominciare ad intravvedere
le ragioni dell’emergere e del consolidarsi impasticciato della
controrivoluzione; ragioni, ben inteso, che vadano oltre all’ovvio
intreccio tra il fascino ideologico del mercato e lo strapotere degli
interessi a questo fattualmente legati. Tra questi non mi astengo dal
segnalare la opulenta circolazione di studiosi tra organizzazioni che si
occupano di banche e moneta a livello internazionale e tra tali
organizzazioni e l’accademia.
La scienza inutile
Viene almeno in parte in soccorso il libro edito di recente anche in Italiano di Francesco Saraceno, “La scienza inutile”
(Luiss Un.Pr.) che, mentre nei primi due capitoli delinea i tratti
essenziali della teoria dell’equilibrio generale e della rivoluzione
keynesiana, reintroduce una prospettiva di storia del pensiero nella
considerazione dettagliata e al contempo essenziale della
controrivoluzione neoclassica, dal monetarismo alle aspettative
razionali (e qui siamo ancora a cose che ritroviamo, in forma più
didascalica, nei manuali universitari) per poi passare alla sequenza
spesso autodistruttiva dei modelli che hanno fatto moda per poi
rapidamente divenire obsoleti dopo gli anni Settanta del Novecento: la
nuova macroeconomia classica e le aspettative razionali, la teoria dei
cicli reali, i vari “Consensus”, da quello detto di Washington a quello
di Berlino, fino al trionfo delle tesi austeriste e alla crisi del 2008 e
oltre.
L’Autore è infatti convinto che “comprendere come le principali scuole
di pensiero si siano avvicendate nel dominare il paesaggio
intellettuale, studiando le cause della loro ascesa e declino (e a volte
della loro resurrezione) potrebbe insegnare ai nostri economisti e
soprattutto ai nostri responsabili politici le virtù dell’umiltà e del
pragmatismo”.
Il ritorno a prospettive storiche
Il libro riempie un duplice vuoto. Il primo riguarda la successione dei
modelli della controrivoluzione, sui quali è difficile districarsi
senza una guida nella letteratura esplosa intorno a ciascuno di essi,
con grande commistione di grano e pula. Il secondo è invece costituito
dalla capacità di raccordare il succedersi delle mode modellistiche ad
eventi concreti e dibattiti correlati, cosa che Saraceno fa
giustapponendo allo svolgersi dei suoi capitoli e dei suoi paragrafi una
ricca serie di riquadri relativamente indipendenti dal testo. Questi
“focus” finiscono per disegnare altrettanti sfondi storici, quasi sempre
su eventi e temi scottanti e oggetto di dibattiti. Qualche esempio:
“Trump e Macron: meno tasse per i ricchi e più crescita per tutti?”; “Il
paese più keynesiano? Gli Stati Uniti”, con la prova delle politiche
espansive di quel paese; il dubbio: “Quanto sono razionali gli agenti
razionali?”; ed infine l’improbabile ossimoro “L’austerità espansiva e
la fatina della fiducia!”.
L’ironia, peraltro, affiora solo nei focus, mentre all’interno del
libro riguardato nel suo filo narrativo le singole teorie vengono
presentate il più possibile neutralmente, senza scivolare in sarcasmi, a
volte fin troppo facili. Sono infatti i fatti storici, le
contraddizioni tra modelli, l’inanità evidente delle terapie
raccomandate a fornire gli spunti, del tutto autosufficienti, del
regresso culturale in atto. Così almeno per un pubblico di buon senso.
Si tratta in ogni caso di un regresso che, nel suo snodarsi, sembra
avere paradossalmente una sorta di “macro-disegno”. In breve: per
mostrare che le politiche fiscali non servono, che bisogna lasciar fare
al mercato, reso finalmente flessibile e libero da vincoli, ostacoli ed
inganni, e alle politiche monetarie imperniate su regole costanti, si
procede in una successione:
1)
il monetarismo “spiega” il perché del fallimento stagflazionistico
degli anni Settanta del Novecento e del “salto” della curva di Phillips;
lo fa autorevolmente perché in qualche misura “prevede” il tutto
(ricordo che nella stravagante epistemologia di Milton Friedman, molto
condivisa dagli economisti, una teoria è giusta se prevede,
indipendentemente dall’assurdità delle sue ipotesi fondanti);
2)
monetarismo e keynesismo della sintesi “convergono” nell’attribuire le
responsabilità della disoccupazione a rigidità di prezzi e salari e a
vincoli all’operare del mercato. La nuova macroeconomia classica e le
aspettative razionali completano il quadro sia nel senso di palesare il
carattere effimero delle manovre fiscali basate sulla domanda, sia nel
senso di interpretare i cicli come reazione razionale e di equilibrio ad
ogni forma di “sviamento” operato dalle politiche. Ciò che prepara il
terreno
3)
alla teoria dei cicli reali, che attribuisce a shock dal lato
dell’offerta di merci l’origine dei cicli, ripiegando poi anch’essa su
reazioni ottimali agli shock, con fenomeni di sotto-occupazione e
sotto-produzione, tutti dovuti ad ostacoli in azione, sempre dal lato
dell’offerta, al recupero di piena saturazione delle risorse. Questi
ostacoli devono essere rimossi attraverso “riforme” liberalizzanti il
mercato del lavoro, quello delle merci, quello del movimento dei
capitali, quello del credito.
Che, alla luce della morsa costruita con queste tre mosse, il nuovo
disegno della macroeconomia fosse ritenuto concluso, venne del resto
reso noto con una arroganza disarmante da Lucas, lo studioso che ha
maggiormente valorizzato le aspettative razionali, nel 2001: “Quel
che sostengo nella mia conferenza è che la macroeconomia, nel senso
originario del termine, ha avuto successo: la questione centrale della
prevenzione delle crisi è stata risolta, in tutti i suoi aspetti, e da
vari decenni” (come opportunamente ricorda
Saraceno nell’incipit del suo quarto capitolo). Immaginate cosa
succederebbe se un fisico dicesse qualcosa di equivalente! Ed ecco
perché parlo di regresso cognitivo.
Reazioni alla crisi del 2007-8
Il problema è, in barba alla crisi impossibile per Lucas del 2007-8: vi
sono state vere reazioni costruttive dopo l’esplosione della crisi?
Saraceno dà un principio (dichiaratamente aperto) di risposta
all’interno del suo quinto capitolo. Si è riconosciuto, anche da parte
dell’ortodossia, che forse esiste una relazione di complementarietà tra
le riforme (sempre le stesse) che dovrebbero sostenere la crescita nel
lungo periodo e l’esigenza di non deprimere eccessivamente l’economia,
via bassa domanda, nel breve periodo. Le riforme possono infatti fallire
in un clima depresso, mentre un clima migliore può agevolare la
riuscita delle riforme stesse; a sua volta una migliore tenuta nel breve
periodo può impedire un depauperamento eccessivo del capitale, fisico,
umano e sociale in precedenza costruito, contribuendo così ad una
maggiore vivacità delle economie anche nel lungo periodo. (Ovvero: il
buon senso può a volte folgorare!).
Sembra inoltre che, da parte di molti, ci si cominci a rendere conto
(a) del fatto che esista una correlazione inversa tra iniqua
distribuzione di redditi e ricchezza da un lato e vitalità e vivacità
delle economie dall’altro; “la dimensione della torta e quella delle
singole parti sono legate: non si può puntare all’efficienza trascurando
l’equità”; (b) che vi è un eccesso di risparmio connesso alla scarsa
propensione ad investire in campo reale, non curabile con i bassi tassi
di interessi ma che necessita del sostegno prolungato della domanda; (c)
che vi potrebbero essere sentieri virtuosi connessi ad una ripresa,
meglio regolata che nel passato, di una sequenza di investimenti
pubblici non solo nei campi più tradizionali delle infrastrutture, ma
anche in quelli della tutela e dello sviluppo del capitale umano, delle
politiche per l’ambiente e per l’innovazione.
Qualche riserva
Ho due riserve parziali, esprimendo le quali colgo al volo gli stimoli
che Saraceno stesso lancia a conclusione del suo lavoro (“dove va la
macroeconomia?”). La prima riguarda la sottovalutazione del carattere
rivoluzionario degli economisti del primo mezzo secolo scorso cui ho
fatto cenno in esordio. La seconda riguarda la sottovalutazione del
ruolo negativo che nella storia del regresso culturale hanno avuto gli
economisti affascinati da Keynes.
1)
Sia il filone keynesiano che quello pigouviano hanno aperto una strada
che aveva in comune un grande pregio, quello di argomentare che i
segnali forniti dal mercato con i prezzi (e non solo) erano errati, nel
senso di condurre l’economia su sentieri che trascurano opzioni migliori
o che implicano costi e rischi che la contabilizzazione monetaria delle
transazioni di mercato è incapace di registrare. Nella logica e nel
linguaggio della programmazione ottimale si può dire che il sistema dei
prezzi di mercato diverge sistematicamente dai prezzi ombra, cioè dagli indicatori corretti di valore associati alle scelte ottime per il sistema.
Esemplifico
le implicazioni: le risorse sottoutilizzate non hanno valore (il prezzo
ombra del lavoro o del capitale inutilizzato è pari a zero), le
emissioni inquinanti hanno un alto valore negativo anche se nei mercati
sono gratuite e ciò conduce ad inquinare, il costo reale di opere
pubbliche è nullo se vengono usate risorse non saturate, a dispetto del
fatto che in bilancio compare una registrazione monetaria positiva,
mentre invece tale costo è maggiore di quanto appaia in bilancio quando
la spesa pubblica spiazza risorse già saturate, a causa dei costi di
aggiustamento trascurati, ecc.
2)
I keynesiani hanno pesanti responsabilità. Una parte di essi ha passato
il tempo venerando il maestro e facendo ricami intorno a questioni
marginali (quasi che il maestro non sapesse esprimersi con chiarezza e
quindi avesse un bisogno costante di esegeti); un’altra parte ha passato
il tempo dividendosi su questioni più importanti. Tuttavia quasi
nessuno ha posto IL vero problema. Keynes ha aperto una strada,
riuscendo ad andare al di là del velo delle apparenze; ovviamente il
suo quadro era incompleto, vi erano errori e sottovalutazioni, la storia
avrebbe posto in evidenza altri elementi che andavano al di là di
quanto nel suo quadro era incluso e alcuni di essi avrebbero
probabilmente allargato ulteriormente il suo stesso sguardo se fosse
vissuto più a lungo. Compito arduo di chi lo seguiva era andare avanti,
superare limiti ed errori. Ciò è avvenuto in misura davvero troppo
limitata, procedendo spesso per compartimenti stagno. Ciascuno di noi
ha, sotto sotto, un’idea di questi limiti e se fossimo stati tutti più
disposti al dialogo, come conclude Saraceno, qualcosa di meglio sarebbe
venuto fuori. Personalmente penso a due limiti, l’uso del principio di
equilibrio e il breve-periodismo.
La dinamica è stata prevalentemente vista come fatta di trend e cicli,
allontanamento e “ritorno” all’equilibrio; quasi mai come un processo
senza o fuori dall’equilibrio, più o meno intrinsecamente stabile, ma
sempre aperto a crisi, ovvero a distorsioni che per lungo tempo possono
restare silenti di implicazioni ma poi determinare collassi improvvisi
ed inaspettati, da riguardare più come fenomeni simili a quelli
metereologici o biologici che a sistemi servo-meccanici.
Eventi
quali le tendenze degli ultimi decenni al peggioramento della giustizia
distributiva e l’aumento del peso della ricchezza improduttiva, non
solo finanziaria, vengono certo posti in relazione reciproca, ma
altrettanto certamente non spiegati nella loro genesi; e così l’eccesso
di risparmio, che viene sempre visto come reazione all’eccesso di
indebitamento e non invece, come adombrato ma non sufficientemente
sottolineato da Tobin, un fenomeno patologico la cui azione è coerente
con la natura monetaria delle nostre economie. E questo succede perché
l’esigenza di creare liquidità in un sistema che cresce rende più
difficile, e non (come si pensa in casa ortodossa) più facile,
assicurare che i risparmi monetari siano capaci di aggiustarsi al costo
monetario degli investimenti (dei soli investimenti) che espandono la
capacità produttiva (come chiarito dalla letteratura sulla crescita).
L’eccesso
di risparmio, come purtroppo solo intuito dagli stagnazionisti,
allocandosi nella ricchezza improduttiva, trova guadagni migliori nei
vari casinò sparsi per il mondo e nati all’ombra dei mercati resi
selvaggi dalle cosiddette “riforme”, spiazzando così ulteriormente gli
investimenti produttivi.
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