venerdì 22 giugno 2018

Una crisi di civiltà.

I segnali erano già arrivati, latenti eppure visibili. Dentro l’ultima crisi, quella palesatasi nel 2007/2008, alcuni osservatori avevano letto in essa la crisi della civilizzazione capitalistica, ossia di un modello economico diventato egemone dopo il 1989 a livello globale, ma che non riusciva più ad alimentare il suo carattere progressivo. Al contrario, soprattutto nei paesi occidentali – quelli a “capitalismo avanzato” – quel modello ha cominciato a mostrare pubblicamente un’inversione regressiva bloccando, ad esempio, quello che è stato definito “l’ascensore sociale”.


Quando le condizioni e le aspettative generali di vita delle nuove generazioni sono peggiori di quella precedente, si rende visibile come il progresso non solo si sia arrestato, ma abbia innestato la marcia indietro.
A subire le conseguenze della regressione sono stati in primo luogo i lavoratori e le loro famiglie, in tutto l’occidente, facendo riaffacciare in Europa e negli Usa lo spettro della povertà di massa e dei working poors, quelli che precipitano nella povertà pur avendo un lavoro, perché le retribuzioni sono diventate troppe basse. Eppure ci si era gingillati con tesi consolatorie.
Da un lato, la teoria dello “sgocciolamento”. Quella narrazione secondo cui se si accentua la polarizzazione sociale e si fanno arricchire i ricchi, prima o poi questa sovrabbondanza per pochi avrebbe lasciato sgocciolare un po’ ricchezza anche verso gli strati più bassi (la furbata sanguinosa della Flat Tax è un frutto di questa logica).

Dall’altro ci si è gingillati sulla tesi-speranza per cui il modello liberale che ha caratterizzato l’occidente potrebbe benissimo convivere con l’abbassamento pianificato delle condizioni di vita e delle aspettative generali della popolazione (quindi dei diritti sociali collettivi), ma non avrebbe mai messo in discussione la sfera dei diritti civili individuali.
Intorno a queste due tesi è stato costruita, non solo una narrazione, ma un vero e proprio modello di civiltà: capitalistica, occidentale, molto spesso eurocentrica. Una narrazione da cui hanno aspirato a pieni polmoni anche la sinistra liberal-liberista (che ha seppellito quella socialdemocratica) e purtroppo settori della stessa “sinistra radicale” (seppellendo quella “di classe”).
Sono tesi, quasi una religione, come la “mano invisibile dei mercati”, che i fatti si sono incaricati di smentire, dolorosamente.
Lo stiamo verificando qui, nel cuore e nella periferia dell’Europa, ma anche negli Stati Uniti, ossia negli epicentri della “civiltà capitalistica”, che per decenni era stata contrapposta prima al socialismo reale ed ora al “dispotismo asiatico” incarnato da Russia e Cina, nel quadro di una nuova competizione globale.
Quando nella società e nella psicologia delle masse vediamo gli effetti delle sparate di Salvini e dei suoi simili ungheresi, austriaci, bavaresi (una coincidenza geopolitica che mette i brividi, quasi come la Cavalcata delle Valchirie su Woody Allen), o quelle di Trump negli Usa, si comprende bene come sia già venuta meno ogni pretesa di “civiltà superiore dell’occidente” rispetto al resto del mondo, sia esso quello dolente e povero dei migranti dall’Africa o dall’America Latina, sia quello dei paesi Brics che stanno contendendo Pil e mercati all’ex blocco euro-statunitense, oggi diviso e in competizione al suo interno.
L’unico fattore escluso da ogni priorità – quando si prospettano o scelgono le soluzioni ai problemi posti da una crisi globale, non solo economica ma anche ambientale, alimentare, energetica – è diventato il fattore umano.
Nelle voci che inneggiano agli affondamenti e al blocco degli sbarchi nel Mediterraneo, o al muro al confine con il Messico, non rivelano soltanto l’accresciuta frustrazione sociale e la generale insicurezza sul futuro, ma mostrano anche il tentativo delle classi dirigenti – ormai diventate solo “classi dominanti”, senza più egemonia – di rimanere in sella seminando guerra e capri espiatori.
Era già accaduto negli anni Trenta, e per metterci una pezza c’è voluta una guerra mondiale devastante, la metabolizzazione dell’orrore e della banalità del male, fino al rifiuto totale di tutto questo che ha generato Costituzioni come quella italiana.
Per esorcizzare questo sanguinoso passato, sull’Europa hanno costruito l’Unione Europea e negli Usa l’alternanza immobile tra liberal e conservatori. Ma il carattere di classe di queste soluzioni ha riprodotto – come da manuale – i meccanismi perversi del dominio: prima contro il lavoro e i lavoratori, poi nella competizione tra simili (con il ritorno ai dazi, alla guerra commerciale, al protezionismo), infine con la liquidazione dei valori umani elevati, nella retorica occidentale, a fondamento della civiltà che conosciamo rispetto agli altri, ai “barbari”. La vita di un “negro” vale di nuovo meno, o addirittura nulla. Come quella di uno zingaro, un musulmano, di un clochard, di un soggetto umano escluso o escludibile dalla logica competitiva.
E’ evidente come entrambe le soluzioni – in Europa come negli Usa – siano fallite, aprendo la crisi di civiltà.
Che fare, dunque? Nel quasi profetico scenario di Marx, si indica una prima ipotesi, “la lotta di classe si conclude con la vittoria di una classe sull’altra”. Il che implica il tentativo di rovesciare il “fattore umano” contro questa civiltà morente e proprio per questo più feroce.
L’alternativa, del resto, non lascerebbe scampo, sarebbe: “la rovina comune delle classi in lotta”.

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