La città riapre ripresentando i problemi di sempre. Si va sott’acqua quando piove, le scuole si rompono prima di aprirsi, si muore attanagliati dal traffico. Ancora nulla da parte della Sindaca su come si vuole trasformare Roma. Un gioco del silenzio che i pasdaran delle olimpiadi e anche dello stadio di Pallotta riempiono con urla e post.
dinamopress Rossella Marchini e Antonello Sotgia
Roma. Piove. La “nuova” stazione di Conca d’Oro, la grande escrescenza rossa, uscita come una bolla improvvisa nel tessuto del Tufello a contenere nella sua pancia la metropolitana, è attraversata, per tutta la sua altezza in verticale, dall’acqua sputata dal cielo che la “nuova” piazza aerea non riesce a trattenere. Non se la passa bene neppure la città orizzontale.
Sono sempre più numerosi gli alberi che, arrendendosi al vento, si schiantano al suolo. Le strade si trasformano in torrenti tanto da rendere complicato attraversarle. Non sono solo però mali di stagione. Anche se a dirlo non è il calendario è iniziato il nuovo anno. È questo il periodo in cui si prendono a riferimento gli indicatori che segnano la faticosa quotidianità dei più. Quando i confronti sulla “tenuta” dei cassonetti della mondezza si iniziano a fare con la città a ranghi completi. Con il rientro di chi è potuto partire. Con la ripresa del lavoro per chi ce l’ha.
A indicare che si ricomincia davvero è la riapertura delle scuole. Alcune già in tilt, per la comparsa di crepe o instabilità dei controsoffitti, hanno chiuso. Con ulteriori disagi per lavoratori, studenti e famiglie costretti a trasferimenti forzati legati ai (lunghi) tempi dei lavori di ripristino. Le frequenze delle corse dei mezzi del trasporto pubblico sono state ridotte e il loro uso, a dispetto di chi è costretto a servirsene, assume ogni giorno veramente appieno il significato di “viaggio”. Si vive nel traffico. Accade lo stesso a chi si serve, perché magari non ha altra alternativa, della propria auto. Ognuno di noi rende omaggio, nel proprio muoversi in città, all’inevitabile walzer di lamiere e gas, offrendo significativi segmenti di sacrificio di tempo sottraendoli al proprio vivere quotidiano. Da sempre ci siamo accorti che “i nostri sogni non coincidono con la città”. Perché questo avvenga lottiamo. Anche attraverso il voto elettorale.
Anche se non sono passati completamente i fatidici 100 giorni di rodaggio, la nuova amministrazione di Virginia Raggi aveva fatto nascere qualche speranza. Qualcosa sarebbe cambiato. Non di certo ci aspettavamo soluzioni impossibili in così breve tempo. Non siamo impazienti. Ora siamo spaventati. Anche molto. Costante e prolungato è infatti il silenzio che si nasconde dietro le urla mediatiche che rincorrono nomine e ipotesi di nome, di “tagliandi” da fare, di decisioni da assumere. Nel frattempo iniziano a sommarsi le cose ancora non fatte. Tra queste proprio il comunicare, farci conoscere attraverso quali atti di governo attuare la trasformazione della città. Trasformare non vuol dire semplicemente amministrare. È anche questo, ovviamente, in una situazione, come quella romana, che è stata a lungo attraversata dalla disinvolta gestione del funzionamento della macchina di alcuni suoi uffici.
Non è un gioco a rimpiattino tra chi si rimprovera vicendevolmente di soggiacere ai “poteri forti” ogni qualvolta esce fuori un’iniziativa, una localizzazione di un intervento. C’è la necessità di esprimersi innanzitutto sul mandare avanti, o meno, programmi intrapresi da tempo. È questo il caso della candidatura olimpica e dello stadio di Pallotta. Non sono carte arrivate oggi sul tavolo del Comune. Possono coincidere con la necessità di costruire una diversa idea di città? Perché è questo che la città ha fatto negli ultimi anni. Ha espresso come voleva abitare. Nonostante l’ostilità delle passate amministrazioni e della gestione commissariale. Sono state proprio le tante realtà sociali radicate nel territorio che lo hanno fatto discutendo ed elaborando proposte. Intorno al tema dei beni comuni, del consumo di suolo, del recupero di intere parti di città, sulla gestione dei servizi pubblici, sul disegno dei quartieri, sull’accoglienza dei migranti.
Di questo nulla. La Sindaca ancora non ne parla. Torna il “finale di partita” delle elezioni. Olimpiadi si. Olimpiadi no. La facciata A di un disco che gira all’infinito. La facciata B lo stadio della Roma? Si farà? A chi il decidere? al Comune? alla Regione? Siamo proprio sicuri che sono questi gli assilli e le domande di chi abita la città? Intanto, per restare alle sole notizie sullo stato del verde, un dispotico proprietario a San Lorenzo ha chiuso, grazie ad un cavillo giuridico e l’indifferenza della giunta Marino, un parco tirato su dai cittadini. Quello di Centocelle, praticamente sequestrato, si sta inaridendo. Ville e giardini storici sopravvivono al netto di ogni manutenzione. Molte sono ancora le partite urbanistiche in atto e nessuna risposta viene fornita a chi chiede di poter partecipare alla definizione di scelte che riguardano la propria vita. Chi ha partecipato a definire la lista dei progetti con cui la città partecipa al bando nazionale delle periferie? Perché Corviale è stato tenuto fuori?
Eppure il primo segnale che l’amministrazione aveva mandato sembrava “centrato” comprimendo, per la ex Fiera di Roma, quelle aree che la giunta Marino aveva tranquillamente fatto eccedere a dismisura, con la scusa che così si sarebbe salvata economicamente la Fiera (e il suo consiglio d’amministrazione). Il consiglio comunale con quel voto ha fatto una scelta precisa. Ricondurre le decisioni urbanistiche al funzionamento complessivo della città. Dare ascolto e ragione ad associazioni e comitati di quel quadrante. A chi si era battuto contro quell’operazione, indicando che il nuovo andava “pesato” a partire da quello che c’era. Da chi lì abitava già con tanta fatica. Che insediare nuove cubature era possibile. Farlo senza guardare esclusivamente spinti dal bisogno di sanare bilanci e pagare i debiti di fondi fin troppo disinvoltamente elargiti da Unicredit. Che si poteva iniziare con il chiudere uno di quei bancomat aperti non dalle banche, ma per le banche. Quelli alimentati dalle varianti urbanistiche e accordi di programma che elargiscono gli incessanti interessi per i debiti che il modello Roma si è portato con sé.
Dopo il silenzio. Quando c’era da prendere parola su stadio e Olimpiadi. Un silenzio rotto dalle indiscrezioni dei giornali sul luogo della prossima conferenza stampa con cui la sindaca si esprimerà sul tema della candidatura olimpica romana. La vela incancrenita a Tor Vergata? La piscina “zoppa” di san Paolo? Nessuna riflessione sul rapporto tra grande opera e città, su quello che gli eventi internazionali lasciano una volta finito. Sui debiti e sulle macerie di altre edizioni. Nessuna presa di parola sulla asfissiante reiterazione della narrazione olimpica di Roma 60. Una favola che ha appesantito il debito di Roma, ma, tanto per dire, ha fatto lievitare oltre il doppio il capitale sociale dell’Immobiliare che quei giochi ha accompagnato con finanza e cemento. Passato da 15 a oltre 30 miliardi di lire dall’anno della scelta di Roma alla fine dei lavori. È come se questa giunta non avesse neppure letto il dossier presentato dal comitato olimpico. Non è certo così. Ma il silenzio fa nascere strane suggestioni per richieste sanzionatorie a un no che sarebbe dovuto essere stato espresso da tempo.
Non è una questione di dove mettere a dormire gli atleti, accettare nobili (sic) ritiri in corso d’opera da indigesti presidenti, inzeppare di carabinieri i cantieri, affiancare con nuovi membri indipendenti il comitato organizzatore (ancora una raccolta di curricula?), rivedere il dossier, prendere tempo. Si tratta di convincersi che il corpo di una città sostanzialmente fallita, ha bisogno, per iniziare a rimettersi in piedi innanzitutto di trovar fiducia in se stesso. Per poi partire dalla convinzione che a farlo potranno essere le sue parti sociali, quelle che vivendo il disagio, trovano le forme di resistenza e trasformazione. Nella solidarietà, nell’invenzione, nella relazione costante, nel sogno di riuscirci. Le attrezzature olimpiche e il conseguente grande circo mediatico e fondiario che si trascinano appresso, non sono funzionali a questo, rischiano di dare il colpo di grazia.
E lo stadio. A che punto siamo? Cosa dobbiamo aspettare per capire se è quella “genialata” con cui fu salutato dall’assessore all’urbanistica di Marino o piuttosto lo “scempio” con cui è stato battezzato dall’assessore di Raggi? Sappiamo solo, e non è poco, che non è solo uno stadio. È un’enorme cubatura privata a sostenere economicamente un’iniziativa privata. Vogliamo sapere se e cosa c’entra con la città. Leggiamo di eleganti rimpalli tra regione e comune, iter burocratici complessi ed oscuri, conferenze di servizi che lavoreranno sei mesi. Soprattutto non sappiamo se sia ancora possibile che il Comune possa dire no ad un mega insediamento di 900 mila metri cubi che, tra tante altre cose che poco c’entrano con lo sport, conterrà lo stadio di proprietà dell’uomo d’affari americano.
La trasparenza vorrebbe che qualcuno spiegasse pubblicamente alla città cosa si può e cosa si vuole fare. È troppo tardi per pensare di spostarlo in un'altra area? Unicredit, che proprio a Pallotta ha girato le quote di proprietà dell'A.S. Roma e tiene nella propria pancia sofferente la super esposizione del gruppo proprietario del terreno e candidato alla costruzione, potrebbe sopravvivere ad un cambio di location? Esistono margini per arginare l’esorbitante cubatura aggiuntiva? Siamo al punto di non ritorno? Come siamo arrivati fin qui?
Se con Alemanno sindaco si è giunti all’individuazione dell’area è con Marino e il suo assessore, quello della “genialata”, che si arriva alla presentazione del progetto. Proprio in quei giorni viene approvata la Legge di Stabilità, all’interno della quale vengono inseriti due commi definiti “la Legge degli Stadi” per il finanziamento e le procedure per l’ammodernamento e la costruzione di impianti sportivi. Da allora l’iter non si è mai fermato. Presentazioni del progetto (soprattutto del plastico e dei rendering in verità) a raffica. Sindaco e assessore volano a New York in pellegrinaggio da Pallotta. Appena rientrati, siamo al settembre del 2014, la Giunta ha approvato la delibera di pubblico interesse dell’opera. È questa la condizione indispensabile a ottenere la necessaria variante urbanistica. Nel dicembre 2014, il Consiglio Comunale riconosce l’interesse pubblico del progetto presentato. Nel luglio del 2015 c’è un passaggio alla Regione per il confronto sul piano di realizzazione (fattibilità) dell’opera. Si precisa che la dichiarazione di pubblica utilità può decadere in qualsiasi momento qualora il proponente non rispondesse compiutamente a quanto richiesto da enti e amministrazioni. Nel maggio di quest’anno arriva il progetto definitivo che viene trasmesso alla regione.
Qui inizia il giallo. Per l’assessore regionale non si può procedere perché manca proprio la dichiarazione di conformità di quanto progettato con quanto autorizzato e richiesto. Per l’assessore Berdini la conferma di interesse dovrà essere espressa in forma collegiale nel corso della conferenza dei servizi. I fatti sembrano dargli ragione. Il prossimo 3 novembre è fissata la prima seduta della conferenza dei servizi. Berdini ha aggiunto che “sarà l’occasione di confronto limpido e trasparente fra le parti”. Il luogo dove si dovrà decidere tra “genialata “e “scempio”.
Un confronto che non può tenere ai margini la città o essere raccontato da qualche radio o giornale che raccoglie ciò che arriva dagli spifferi della porta della conferenza
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