venerdì 2 settembre 2016

La Grecia è stata solo il prologo.

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Syriza è salita al potere nel gennaio del 2015 con il mandato di opporsi all’imposizione dell’austerità. Syriza, invece, si è piegata alla pressione della troika, accettando misure accentuate di austerità e facendo svanire le speranze dei suoi sostenitori.
In questa intervista a George Souvlis l’economista Elias Ioakimoglou descrive la conseguente crisi che continua a devastare la Grecia un intero anno dopo. Secondo i suoi dati la depressione greca è oggi più profonda e più grave della Grande Depressione statunitense degli anni ’30.
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Il governo di Syriza/Greci Indipendenti (ANEL) si è dimostrato totalmente incapace di invertire l’austerità; al contrario, le politiche neoliberiste sono proseguite e persino intensificate. Il primo ministro Alexis Tsipras aveva ragione quando ha affermato che non c’era alternativa a una continua austerità in Grecia?
Non spettava a Tsipras decidere se c’era o non c’era un’alternativa. Al punto più cruciale dei negoziati c’era stato un referendum, inteso a stabilire se continuare le politiche d’austerità, politiche che avevano accresciuto le disuguaglianze di reddito, smantellato lo stato sociale e enormemente ridotto salari e pensioni, demolendo contemporaneamente le protezioni sociali.
La risposta data dal popolo greco era stata inequivocabile, come la domanda stessa: il 61,5 per cento aveva votato contro l’austerità. Sappiamo oggi, grazie ad analisi statistiche, che molti settori della società greca erano stati uniti in quel voto: lavoratori del settore produttivo, dipendenti pubblici, lavoratori precari, disoccupati, giovani e poveri. Tutte queste categorie sociali avevano votato “no” con un margine tra l’80 e il 90 per cento.

Sull’altro schieramento, categorie sociali a reddito elevato – proprietari di capitale e di ricchezza – avevano votato in misura schiacciante “sì”.
In parole povere quelli che beneficiano delle politiche d’austerità e delle riforme strutturali avevano votato “sì”, mentre quelli che soffrono di più per queste politiche avevano votato “no”. Si tratta di una divisione netta: la settimana prima del referendum era stata uno di quei rari momenti storici in cui la scissione tra le classi sociali diventa chiaramente visibile, anche a occhio nudo.
Il blocco di forze sociali al potere è entrato nel campo di battaglia elettorale per difendere apertamente, senza le consuete banalità ideologiche, i suoi interessi immediati di classe: il “diritto” di vivere del profitto, di vivere del lavoro altrui.
Questo blocco comprendeva dirigenti di grandi imprese e di grandi società finanziarie nonché un numero minore di titolari d’azienda che oggi pagano solo metà dei salari che pagavano nel 2010, grazie alla svalutazione interna e alla riforma del mercato del lavoro. In questo gruppo erano inclusi anche giornalisti dei grandi media, burocrati di alto rango e redditieri.
La presenza di questo potente blocco sociale è stata avvertita con forza, non solo nelle dimostrazioni trasmesse in televisione, ma anche sul luogo di lavoro; i dipendenti erano stati spesso minacciati apertamente dai datori di lavoro che affermavano che i lavoratori avrebbero perso il posto se fosse prevalso il “no”.
Questa esibizione di crudo interesse egoistico e di forza bruta da parte della classe capitalista aveva fatto accelerare la formazione di un blocco sociale unificato contro l’austerità, composto dalla classe lavoratrice, dai precariamente occupati e dai disoccupati; per dirlo in due parole, i giovani e i poveri.
La formazione di questo blocco era iniziata nel 2010 con l’attuazione dei programmi di aggiustamento economico spinti dall’Unione Europea e dal Fondo Monetario Internazionale. Era culminata pochi giorni prima del referendum, con grandi dimostrazioni a sostegno del “no” che avevano avuto luogo senza l’intermediazione di politici di spicco di Syriza, che avevano appoggiato solo debolmente la campagna per il “no”.
Questo blocco anti-austerità aveva votato “no” nonostante tutte le minacce e prevaricazioni, nonostante il rischio di licenziamento di finire nella miseria di un paese cacciato dal contesto presunto stabile e sicuro dell’eurozona.
Compito di Tsipras era seguire questo movimento di masso, non di decidere se c’era un’alternativa. Invece ha condotto il paese alla schiavitù del debito. Aveva promesso di vincere la battaglia contro l’austerità in Europa e tuttavia ha dimostrato di non essere affatto un eroe del suo stesso popolo o della sinistra europea.
Tutte le grandi speranze riposte in Syriza sono svanite in una notte.
La popolazione che aveva appoggiato Tsipras dall’inizio della crisi alla svolta a U del 12 luglio sapeva che dopo la capitolazione Syriza non era lo stesso partito di prima. Tuttavia alcuni hanno votato per Tsipras alle elezioni del dicembre 2015 [sic – ? – n.d.t.], sperando che avrebbe mantenuto almeno alcune delle rinnovate promesse del partito; altri (un milione di elettori in un paese di undici milioni) hanno preferito astenersi dal voto.
Le promesse fatte da Syriza al voto del settembre 2015 non sono state mantenute. In Grecia abbiamo di fronte una situazione volatile: c’è un forte blocco sociale contrario all’austerità che ha acquisito preziose competenze politiche nel corso di sei anni di lotte, tuttavia non c’è alcun partito o organizzazione politica capace di rappresentarlo.
Dal luglio 2016 le classi dominate stanno subendo nuove ondate di attacchi ai loro redditi, proprietà, sicurezza, libertà e diritti sociali. Lo spudorato saccheggio prosegue. Ma questa volta è la stessa Syriza che organizza ed esegue l’attacco.
Applicando la strategia dei suoi ex avversari Syriza è degenerata in un partito socialdemocratico in stile Renzi; come indica Pascal, gli atei che pregano regolarmente finiscono presto per diventare buoni cristiani.
Il risultato è una crisi di riproduzione sociale. La prolungata depressione in Grecia sta facendo crescere una crisi di riproduzione della classe lavoratrice, che a sua volta fa crescere la destabilizzazione politica.
Detto in maggiore dettaglio, le perdite di occupazione dovute all’interrotta accumulazione di capitale in Grecia – sommate all’austerità feroce e alla decostruzione dello stato sociale – hanno innescato una varietà di processi che hanno distrutto la forza lavoro. Ciò ha condotto alla fine a una crisi dell’egemonia della classe dominante, aprendo così una finestra di opportunità per il cambiamento radicale.
Come Marx spiega nel Manifestola classe capitalista è inadatta e governare quando non è in grado di garantire “un’esistenza ai suoi schiavi persino all’interno del suo schiavismo”. Questa sembra sempre più essere la situazione in Grecia. Ma l’esito politico di questa crisi resta incerto.
 
Alcuni hanno sostenuto che la crisi economica greca sia stata un caso eccezionale, determinata dallo stato greco clientelare. Quali consideri le origini strutturali della crisi?
Dal 1995 e fino al termine dei Giochi Olimpici del 2004 la Grecia ha goduto di un decennio di crescita e di prosperità eccezionali.
Più di mezzo milione di greci, prevalentemente donne, ha trovato lavoro nel corso di questi “anni d’oro” dell’economia greca. Gli afflussi di capitali da paesi risparmiatori in Grecia, dove la redditività era più elevata, hanno alimentato la crescita del PIL, gli investimenti e l’occupazione.
Ma in contrasto con questi buoni risultati (e in una certa misura a causa di essi) il deficit commerciale di beni e servizi è aumentato spettacolarmente dal 1999 in poi.
Nell’euforia generale dell’epoca sono stati pochi quelli che hanno manifestato preoccupazione. Dopotutto la teoria alla base dell’architettura dell’Unione Monetaria Europea (EMU) aveva predetto che elevati deficit commerciali si sarebbero semplicemente auto-corretti, in quanto avrebbero inevitabilmente innescato presunti potenti processi di aggiustamento determinati dal mercato.
Ma ciò non è successo. L’esperienza greca dimostra che i mercati da soli non sono in grado di correggere squilibri nell’ambito degli accordi istituzionali dell’EMU; almeno non sempre.
In conseguenza i deficit esterni sono esplosi, generando un grandissimo debito con l’estero. Dunque lo scoppio della crisi greca non andrebbe attribuito allo stato greco clientelare, bensì al progetto dell’eurozona, al modo in cui è stata costruita.
 
L’economia greca dal 2010 si trova in uno stato di recessione permanente. Quali sono le cause principali di questo fenomeno e come varie forze hanno cercato di correggerlo?
La depressione greca non è un caso, né semplicemente la conseguenza di politiche o idee sbagliate. E’ l’esito di una strategia elaborata meticolosamente, cioè la svalutazione interna, una forma radicalizzata di disinflazione competitiva.
La strategia della svalutazione interna è stata applicata ferocemente in Grecia per sette anni consecutivi (2010-16). Secondo i suoi autori questa strategia mira a migliorare la competitività e a trasformare la Grecia in un’economia guidata dall’esportazione in grado di rimborsare il suo debito. Secondo questa visione dalla creazione riuscita di un’economia di esportazione seguiranno naturalmente aumenti del PIL e dell’occupazione.
Per conseguire questi obiettivi la strategia della svalutazione interna si concentra sul rapporto tra costo del lavoro competitività delle aziende: salari inferiori determineranno presumibilmente prezzi più bassi e così maggiori esportazioni. In linea con questa visione l’intervento del governo è stato orientato a rendere i salari più flessibili e a rendere i lavoratori più vulnerabili alla disoccupazione.
Leader politici hanno giustificato questo corso affermando che è nel pubblico interesse.
Ma in Grecia ha avuto luogo una grande ridistribuzione del reddito nel corso dei sette anni della svalutazione interna; tra il 2010 e il 2016 i dipendenti hanno perso approssimativamente il 40 per cento del loro potere di acquisto e il rapporto tra i profitti e i salari ha toccato vette storiche.
Questa ridistribuzione del reddito è stata completata da politiche che hanno trasferito il fardello del debito sulle persone comuni e, dal luglio del 2016, da un processo di accumulazione mediante esproprio con il trasferimento alle banche di proprietà di debitori individuali.
Insieme, queste politiche costituiscono un sistema di spudorato saccheggio, mai visto sinora in tempi di pace.
Merita di essere sottolineato che questa strategia di ridistribuzione del reddito dal lavoro al capitale è fallita persino usando il suo presunto metro: lungi dal rivitalizzare l’economia greca, ha avuto effetti devastanti sul PIL e sull’occupazione.
Mentre l’espressione “svalutazione interna” è generalmente intesa riferirsi a una riduzione dei prezzi interni rispetto ai prezzi dei concorrenti, qui si è dimostrata una metafora di una spettacolare svalutazione del lavoro salariato.
Dunque si potrebbe concludere che l’obiettivo della strategia della svalutazione interna è semplicemente questo: la svalutazione del lavoro salariato, il suo assoggettamento al dispotismo del capitale e la distribuzione del reddito dal lavoro al capitale. Tutti gli altri obiettivi formali della strategia – migliore competitività, aumento delle esportazioni, crescita di PIL e occupazione – sono solo ornamenti ideologici per rendere la strategia politicamente attuabile.
E’ facile spiegare perché il processo di svalutazione interna porta alla depressione. La Grecia è un’economia incentrata sui salari e la caduta in picchiata del potere d’acquisto dei salari riduce drasticamente i consumi, poi il PIL e l’occupazione, poi l’utilizzo della capacità produttiva e gli investimenti, senza avere alcun effetto positivo degno di nota sulle esportazioni (poiché i prezzi all’esportazione non seguono il costo del lavoro, bensì i prezzi della concorrenza).
Così la svalutazione interna ha portato meccanicamente alla depressione economica: massiccia disoccupazione (25 per cento dell’intera forza lavoro, 50 per cento dei giovani sotto i 25 anni), un’enorme perdita di capacità produttiva, privazioni materiali e povertà crescente, obsolescenza delle infrastrutture, smantellamento dei servizi sociali, crescente debito pubblico e impennata del numero dei prestiti in sofferenza.
La depressione greca è ora registrata come più grave e più lunga della Grande Depressione statunitense degli anni ’30.
Ma la depressione non durerà per sempre. Emerge un nuovo regime di accumulazione di capitale, gradualmente e dolorosamente, come risultato della “distruzione creativa”. Le sue caratteristiche principali sono già evidenti.
Innanzitutto un sistema produttivo più limitato composto dalle aziende più efficienti sopravvissute alla crisi. Nel frattempo duecentomila impresi piccole e microscopiche – cioè metà del numero totale delle piccole imprese esistenti prima della crisi – e un numero parecchio altro di società più grandi saranno abbandonate tra le rovine della depressione.
Secondo: una forza lavoro a basso salario, non protetta, privata di diritti e resa docile mediante l’insicurezza, accoppiata con uno stato sociale miserevole, spogliato delle sue essenziali funzioni protettive. Questo ha già condotto a una società in cui due terzi della popolazione sono in uno stato di precarietà, di deprivazione materiale o a rischio di povertà.
Infine la depressione è caratterizzata da una crisi permanente di riproduzione sociale che spinge vasti segmenti della popolazione ai margini, escludendoli dal mondo del lavoro capitalista.
 
E per quanto riguarda l’uscita della Grecia dall’Europa? Potrebbe ancora essere una soluzione a questo punto?
Una Grexit sarebbe accompagnata da una svalutazione della nuova moneta, della nuova dracma. Ciò potrebbe avere effetti contrastanti, secondo le situazioni.
Nel caso di questo tipo di svalutazione della moneta, deve esserci un abbondante potenziale non sfruttato nel sistema produttivo per trasformare l’accresciuta domanda in volumi maggiori di produzione. Altrimenti la svalutazione alimenterà prezzi più alti e forse una svalutazione dei salari reali secondo la capacità dei lavoratori di difendere il loro potere d’acquisto.
Nel 2013 la Grecia avrebbe potuto recuperare il 40 per cento della produzione persa dal 2008, se il governo fosse uscito dall’eurozona e avesse attuato un’intelligente politica di svalutazione della moneta. Ma oggi potrebbe recuperare solo il 15 per cento della produzione persa, poiché il patrimonio di macchinari e di altre attrezzature produttive è stato distrutto in una misura paragonabile alle perdite britanniche nel corso della seconda guerra mondiale.
La Grexit nell’ambito dell’attuale mix politico porterebbe a una nuova tornata di svalutazione del lavoro salariato. Tuttavia, se il governo decidesse le condizioni appropriate, nel contesto di una combinazione eterodossa di politiche, la Grexit potrebbe tuttora far parte di una soluzione di sinistraal problema greco.
 
L’Unione Europea può cambiare dall’interno, come ritiene l’ex ministro delle finanze Yanis Varoufakis?
E’ precisamente questa idea – che l’eurozona sia semplicemente guasta e dunque possa essere aggiustata aggiungendo alcuni quadri normativi – che ha messo Syriza sulla via della sconfitta nei negoziati con la troika.
L’eurozona non è guasta: è strutturata per produrre i risultati cui stiamo assistendo. Ogni squilibrio macroeconomico nell’ambito degli accordi istituzionali dell’EMU determina aggiustamenti a spese del reddito da lavoro, della protezione dell’occupazione e dei servizi sociali, attraverso riforme del mercato del lavoro e smantellamento dello stato sociale.
L’eurozona non è semplicemente un’area monetaria; è un regime di accumulazione del capitale in cui prevalgono determinate tendenze, tra cui le tendenze a rimuovere le protezioni sociali, a ridurre i salari e ad abolire i diritti sociali e politici che sono il nucleo centrale della cittadinanza. Questi effetti sono incorporati nell’architettura e nell’operatività dell’eurozona. E’ stata costruita in questo modo. Dunque non può essere aggiustata.
 
Molti commentatori sostengono che le attuali élite europee, specialmente i tedeschi, non abbiano alcun piano per il futuro dell’Europa e agendo irresponsabilmente stiano compromettendo il progetto dell’Unione Europea. Crede che abbiano in mente un qualche progetto di lungo termine o che si stiano comportando in modo del tutto irrazionale?
Naturalmente un piano per il futuro dell’Europa ce l’hanno. E’ già stato attuato, sperimentato e calibrato in Grecia, che è stata un esperimento e ora diviene un paradigma.
Si considerino le tattiche che Hollande e il governo francese stanno utilizzando per contrastare il movimento in Francia contro il nuovo codice del lavoro, tattiche sperimentate in Grecia nel corso delle grandi e persistenti dimostrazioni del 2011-12.
Ciò nonostante, anche se le classi dominanti hanno un piano per il futuro dell’Unione Europea, non hanno un piano egemonico per far fronte alla crisi del neoliberismo.
Il New Deal di Roosevelt negli anni ’30 e il neoliberismo della Thatcher degli anni ’70 erano piani egemonici (anche se di genere molto diverso); mediante questi regimi ideologici la classe dominante poteva presentare i propri interessi come interessi generali. Questa volta è diverso: la classe dominante non ha un piano egemonico. Piuttosto sta semplicemente seguendo le tendenze spontanee del capitalismo contro le masse dei lavoratori dominati. Come può sopravvivere un regime simile?

Elias Ioakimoglou è consigliere economico dell’Istituto del Lavoro (Confederazione Generale dei Lavoratori della Grecia). Il suo libro più recente è ‘Internal Devaluation and Capital Accumulation’. G Da ZNetitaly – Lo spirito della resistenza è vivo
George Souvlis è dottorando in storia presso l’Istituto Universitario Europeo di Firenze. 
Fonte: https://zcomm.org/znetarticle/greece-was-the-prologue/
Originale: Jacobin Magazine
traduzione di Giuseppe Volpe per http://www.sinistrainrete.info/europa/7895-elias-ioakimoglou-e-george-souvlis-la-grecia-e-stata-il-prologo.html

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