“Da tempo sono
convinto che la sovrastruttura finanziario-borsistica, con le
caratteristiche che presenta nei paesi capitalisticamente avanzati,
favorisca non già il vigore competitivo, ma un gioco spregiudicato di
tipo predatorio che opera sistematicamente a danno di categorie
innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori, in un quadro istituzionale
che, di fatto, consente e legittima la ricorrente decurtazione o il
pratico spossessamento dei loro peculi.
Occorre agire anche
nei confronti di coloro che intendono dirigere i risparmi verso le
attività finanziarie, mediante un’opera informativa che illustri il
carattere ingannevole o fraudolento delle promesse (alle quali essi si
trovano esposti) di ingenti guadagni e di rapida moltiplicazione dei
loro averi. Se le capacità del pubblico di autoilludersi sono
illimitate, l’assenza o l’inadeguatezza di avvertimenti cautelatori, da
parte dei responsabili della politica economica, costituirebbero un
comportamento inesplicabile, rispetto agli incisivi interventi che essi
effettuano in altri campi dell’attività economica”.
Da Federico Caffè : Di un’economia di mercato compatibile con la socializzazione delle sovrastrutture finanziarie, Giornale degli economisti, sett.-ott. 1971.
cestes.usb.it mario tiberi
Ho voluto richiamare questa lunga
citazione di Caffè, che tocca un argomento di grande attualità in questo
periodo in Italia, per proporvi un esempio della sua lungimiranza
intellettuale. Un esempio analogo, infatti, riguarda l’argomento di cui
parliamo oggi e non è un caso che Luciano Vasapollo, prima studente e
poi cultore di Caffè, mi abbia invitato a parlare del “welfare state”,
poiché ricordava un suo lavoro anch’esso anticipatore: In difesa del ” welfare state”, pubblicato nel 1986.
Erano gli anni in cui si faceva sentire la
svolta neoliberista nella cultura economica, e non solo, che si
esprimeva politicamente nell’accoppiata Reagan-Thatcher e Caffè era
lucidamente consapevole che il ridimensionamento del “welfare state”, in
forme più o meno incisive, avrebbe costituito un obiettivo
caratterizzante tale svolta.
Egli volle dare un suo ulteriore
contributo, più accademico , alla battaglia contro tale svolta, nella
quale era già impegnato con la sua attività pubblicistica. In difesa del “welfare state“
era una raccolta di suoi saggi precedenti, arricchita da
un’introduzione, da me sempre considerata il suo testamento spirituale,
poiché egli si allontanò, mai più rintracciato, nell’aprile del 1987.
Uno dei passaggi più significativi di tale introduzione è il seguente, pressoché testuale:
“La fedeltà ai “punti fermi” di una
concezione economico-sociale progressista si manifesta con l’insistere
su una politica economica che non escluda, tra gli strumenti da essa
utilizzabili, i controlli condizionatori delle scelte individuali; che
consideri irrinunciabili gli obiettivi di egualitarismo e di assistenza
che si riassumono abitualmente nell’espressione dello Stato garante del
benessere; che affidi all’intervento pubblico una funzione fondamentale
nella condotta economica” (ivi, pp.7-8).
Ancora una volta Caffè ripropone il
criterio dell’equità dei sistemi economici, affiancato senza alcuna
subordinazione valoriale al criterio dell’efficienza: posizione
intellettuale che ha contraddistinto il lavoro teorico di gran parte
degli studiosi dell’”economia del benessere”, a cominciare da Pigou,
oltre quello pratico dei sostenitori del “welfare state”.
Ecco delinearsi, dunque, uno dei punti di
contrapposizione culturale al neoliberismo, che riproponeva la visione
ottimistica sulla capacità dei meccanismi di mercato di garantire
l’impiego ottimale delle risorse, cioè l’efficienza dei sistemi
economici.
Non è questa la sede per ricordare quanto
la teoria economica abbia inesorabilmente incrinato tale visione,
elaborando raffinate analisi sui cosiddetti “fallimenti del mercato”; è
opportuno, invece, soffermarsi a ricordare i messaggi essenziali,
proposti e riproposti, dai fautori del neoliberismo, anche sulla
questione dell’equità.
Ricordiamo le ricette fondamentali del
neoliberismo, etichettato anche come “Washington Consensus” per il ruolo
determinante del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e
del Ministero del Tesoro degli Stati Uniti, istituzioni con sede in
quella città: privatizzazioni; libertà dei movimenti di capitale, merci e
servizi (e delle persone?), politica monetaria cauta; bilancio in
pareggio; razionalizzazione dello “stato sociale”; ridimensionamento
della presenza sindacale, ecc. Razionalizzazione, appunto, dello “stato
sociale”, che magari è un eufemismo rispetto a chi parla apertamente di
riduzione, ridimensionamento dello “stato sociale”, cioè di quel
complesso di misure attraverso le quali i sistemi capitalistici hanno
introdotto dei correttivi egualitari all’operato del mercato.
Il filo conduttore che collegava
efficienza ed equità nell’impostazione neoliberista era l’idea dello
“sgocciolamento”, secondo il quale l’attività economica è centrata
soprattutto sull’operare spontaneo delle forze di mercato; esso può
determinare un rilevante aumento del reddito prodotto, la cui fetta
maggiore andrà certamente a chi ha più potere sul mercato ma qualcosa si
riverserà, “sgocciolerà”, appunto, anche a favore delle fasce più
povere.
Il meccanismo non va inceppato, ricercando
una maggiore equità con interventi redistributivi, che possono
pregiudicare l’obiettivo dell’efficienza.
La crescita,
per le fasce più povere, offre, invero, l’opportunità di stare meglio,
magari di uscire dall’indigenza; ma ciò non comporta necessariamente una
maggiore equità interpersonale del sistema.
Un esempio
evidente, offerto dall’esperienza, è la Cina, che ha lasciato largo
spazio all’operare del mercato, realizzando alti tassi di crescita del
reddito, che hanno consentito di fare uscire milioni di persone da
condizioni di povertà ma, allo stesso tempo, hanno accentuato le
diseguaglianze nella popolazione.
Allo stesso tempo, esiste ormai
un’evidenza convincente su come le diseguaglianze siano cresciute negli
ultimi anni, in quasi tutti i Paesi avanzati.
Ritengo utile, a questo punto, ricordare
alcune vicende storiche, che sono in qualche modo associate al “welfare
state”, perché possono aiutare la comprensione di quanto dirò nella
parte finale del mio intervento.
Al riguardo merita una citazione Otto von Bismarck,
il quale, come Cancelliere di Prussia, fra il 1883 ed il 1889, fece
approvare alcune misure sociali con le quali intese alleviare le
condizioni dei lavoratori sottoposti alla pressione delle imprese in una
fase di intensa espansione economica:
1) legge sull’assicurazione contro le malattie (1883)
2) legge sull’assicurazione contro gli infortuni (1884)
3) legge sull’assicurazione per l’invalidità e vecchiaia (1890).
Altrettanto importante, anzi forse più
importante, è stata l’esperienza del Presidente democratico degli
Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, giunto al potere nel 1933, che
attuò la sua ben politica interventista del “New Deal”, della quale mi
piace di sottolineare, sul piano politico, la grande apertura rispetto
al mondo del lavoro, organizzazioni sindacali comprese.
Restando nell’ambito più specifico del
“welfare state”, sono numerosi i provvedimenti inclusivi, seppure
insufficienti a costruire una solida esperienza di “welfare state” negli
Stati Uniti:
1) sostegno e promozione dell’occupazione
2) indennizzo della disoccupazione
3) assicurazione contro i rischi di invalidità, vecchiaia e superstiti
4) misure per i disabili
5) assegni familiari
Storicamente più significativa è
l’esperienza della Svezia, che ha influenzato l’insieme dei Paesi
scandinavi. Protagonista politico è stato, soprattutto negli anni
trenta, il Partito svedese dei lavoratori, che ha voluto dare una forte
identità universalistica al “welfare state” di quel Paese, manifestatasi
sin dal 1915 con le pensioni popolari. Prima della crisi degli anni
trenta c’erano stati precedenti tentativi di intesa interclassista,
sollecitata a volte dagli stessi datori di lavoro.
Non si possono negare i contenuti
positivi, anche per il mondo del lavoro svedese, emersi nel corso del
tempo; il punto certamente controverso di quel percorso può ritrovarsi
nella formula sintetica con cui esso è stato descritto: “capitalismo
nella produzione e socialismo nella distribuzione”.
Si tratta forse dell’esempio più
importante del cosiddetto “compromesso socialdemocratico”; in effetti la
rivendicazione di gestione programmata del Partito dei lavoratori non
si è tradotta in un superamento di quella formula, anzi non sono mancati
periodi nei quali l’indubbia onerosità dell’impostazione
universalistica ha provocato momenti di arretramento delle prestazioni
previste dal “welfare state”.
Questa breve panoramica storica intende
dare il rilievo, che ritengo doveroso, al ruolo svolto anche dalla Gran
Bretagna, non solo per le realizzazioni concrete in tema di “welfare
state”, ma per l’impatto culturale esercitato dagli intellettuali di
quel Paese, non solo in Europa.
Mi piace ricordare, tra tutti, William H. Beveridge, coautore di due Report
legati al suo nome, che rappresentano contributi importanti espressi
dal mondo progressista anglosassone, anche quando a scrivere, come era
il caso di Beveridge, fosse un uomo di formazione liberale, influenzato
dallo straordinario lavoro di John Maynard Keynes.
I due Report intendevano essere
una risposta esplicita al “male di vivere” perché “la miseria genera
odio”, come si poteva leggere sul frontespizio del secondo Report; il “male”, anzi i “mali giganteschi” sono specificati: bisogno, inattività, malattie, ignoranza, miseria.
Le indicazioni erano ambiziose perché
erano rivolte anche al di là dei confini della Gran Bretagna; si
parlava, infatti, di “piena occupazione in una società libera” .
Ritroviamo in esse i pilastri essenziali della sicurezza sociale:
1) un sistema generalizzato di sanità e riabilitazione
2) assegni familiari
3) mantenimento dell’occupazione.
A proposito dell’occupazione è netta l’ispirazione keynesiana , quando si legge nel Report che
“il primo e necessario contributo che ogni grande paese industriale
dovrebbe dare è adottare per se stesso una politica di pieno impiego e
di attività stabile”. E non mancano suggerimenti fecondi rispetto al
fallimento macroeconomico del mercato in merito all’occupazione, perché
non si esplicita soltanto la funzione essenziale del livello della
domanda ai fini del pieno impiego, ma emerge la consapevolezza di quanto
i governi possano fare per tale obiettivo, anche dal lato
dell’offerta, con le esemplificazioni proposte della “localizzazione
controllata dell’industria” e “della mobilità organizzata del lavoro”.
Una misura dell’impatto avuto dal Report, almeno in Gran Bretagna, si trova in un passaggio del White paper on employment policy,
pubblicato per iniziativa del primo governo di coalizione negli ultimi
anni della seconda guerra mondiale : ”il governo accetta come uno dei
suoi obiettivi e doveri primari il mantenimento di un alto e stabile
livello di occupazione dopo la guerra”!
Senza indugiare ulteriormente nella
esposizione delle robuste radici culturali e politiche riguardanti il
“welfare state” , possiamo con buone ragioni considerarlo come efficace
risorsa di promozione sociale e cittadinanza, ma anche come strumento
anticiclico e di sviluppo rispetto all’intrinseca instabilità del
capitalismo.
Pur nella consapevolezza che, come lucidamente troviamo scritto nel Rapporto sullo stato sociale 2015, curato da Felice Roberto Pizzuti, “le politiche di consolidamento dei bilanci pubblici hanno indebolito i sistemi di welfare
proprio nel momento di loro maggiore utilità; in particolare, le
privatizzazioni collegando le prestazioni sociali alle prestazioni dei
mercati, ne hanno cambiato gli effetti in senso prociclico; la lotta
alle diseguaglianze è scomparsa dall’agenda delle istituzioni
comunitarie”.
Si ripropone con forte evidenza, a mio
avviso, il compito del sindacato, e più in generale del movimento
operaio, inteso a modificare “la distribuzione del reddito, della
ricchezza, del potere nell’economia e nella società”; quindi, a
combattere le diseguaglianze insite nel meccanismo dello
“sgocciolamento”.
Dunque democrazia politica, democrazia
sociale e democrazia economica sono strettamente connesse tra di loro;
un intreccio, meritevole di un approfondimento che va al di là delle
mie capacità e del contesto in cui si colloca questo incontro. Desidero
soltanto spezzare una lancia, in questa occasione come in altre in cui
mi sono trovato recentemente, per ribadire con forza la mia convinzione
che il tema specifico della democrazia economica vada rilanciato al più
presto dallo schieramento progressista del nostro Paese, e non solo.
Non cogliere l’importanza di tale terreno di iniziativa culturale e
politica ci espone ancora una volta al rischio di dover inseguire quanto
i ceti dominanti ci propongono con le varie formule di “responsabilità
sociale dell’impresa” o di partecipazioni subordinate alla proprietà
azionaria o agli utili delle imprese.
Sul terreno specifico del
“welfare state” si può affrontare la battaglia, rispetto al mercato,
anche sul terreno dell’efficienza (istruzione, sanità, pensioni, lavoro
di cittadinanza…), oltre che su quello dell’equità. Entrando nel
merito, con grande lucidità, di fronte ad ogni misura che viene
suggerita per modificare gli assetti del “welfare state”.
Riprendo, di seguito, alcuni esempi tratti dal manuale Politica economica e strategie aziendali di
Nicola Acocella per un richiamo alla loro valutazione attenta perché,
in qualche caso, la difesa rigorosa del “welfare state” non è in
contrasto con l’accettazione di ritocchi migliorativi di alcuni suoi
pezzi:
1) sostituzione dei contributi sociali con imposte sul reddito o sul valore aggiunto
2 )adozione di sistemi di workfare, ossia di erogazione di trasferimenti condizionata dalla esistenza o dalla accettazione di una condizione di lavoro
3) riduzione della durata del sussidio di
disoccupazione e la sua trasformazione in sussidio all’occupazione dopo
un certo periodo di tempo
4) accertamento dell’effettivo stato degli aspiranti all’intervento (means-testing)
5) per limitare l’erogazione ai casi di effettivo bisogno
6) earmarking, ovvero la destinazione specifica a certe voci di spesa di fondi ottenuti con alcune imposte o contributi
7) opting out, ovvero la
possibilità di rinuncia a qualche beneficio dello stato sociale,
ottenendo la restituzione di parte dell’imposizione.
Prima di chiudere questo intervento
desidero anche dare uno spazio marginale alla mia caratteristica, forse
ingenua ma convinta, di cogliere qua e là i segnali positivi rispetto
alla fondamentale esigenza di organizzare le alleanze necessarie, almeno
sul terreno culturale.
Mi piace allora cominciare dalla citazione
più antica di John Stuart Mill che scriveva, nel 1873: “Se si dovesse
scegliere tra il comunismo con tutti i suoi rischi e lo stato della
società con tutte le sue sofferenze ed ingiustizie; se l’istituzione
della proprietà privata necessariamente portasse con sé la conseguenza
di una ripartizione del prodotto del lavoro , qual é quella che vediamo
oggigiorno – le porzioni maggiori a coloro che non hanno mai lavorato,
quelle di poco più piccole a coloro il cui lavoro è soltanto nominale , e
così di seguito in una scala decrescente nella quale la remunerazione
diminuisce a mano a mano che il lavoro diventa più duro e più
spiacevole, sinché il più faticoso e estenuante lavoro manuale non può
sicuramente contare di guadagnare nemmeno quanto è necessario alla vita;
se questo o il comunismo fosse l’alternativa, tutte le difficoltà
grandi e piccole, del comunismo non sarebbero che granelli di polvere
nella bilancia”.
Più sintetica ma non meno efficace è la
diagnosi propostaci da Keynes nel 1936: “ I difetti evidenti della
società economica nella quale viviamo sono il suo fallimento
nell’assicurare la piena occupazione e la sua arbitraria e iniqua
distribuzione della ricchezza e dei redditi” .
La radicalità intellettuale, contenuta nel Beveridge Report del
1944, va anche al di là del suo ispiratore Keynes: “…la piena
occupazione è di fatto raggiungibile lasciando in generale la
conduzione dell’industria all’impresa privata, e le proposte fatte nel
rapporto sono basate su questo punto di vista. Ma se, contrariamente a
tale punto di vista, dovesse essere dimostrato con l’esperienza o con le
argomentazioni che l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di
produzione fosse necessaria per la piena occupazione, tale abolizione
dovrebbe essere intrapresa”.
Di grande interesse riguardo al nesso efficienza-equità, è, inoltre, la seguente affermazione contenuta in un importante Report della World Bank, che abbiamo poco fa ricordato essere stata uno dei baluardi del “Washington Consensus”: “... un’estesa condivisione delle opportunità economiche e politiche è anche strumentale rispetto alla
crescita e allo sviluppo economico. Ciò è per ragioni economiche,
perché una maggiore equità può condurre ad un più ampio ed efficiente
utilizzo delle risorse di una nazione” (2005).
A completamento di questa breve raccolta di citazioni “confortanti” non possono mancare un paio di frasi tratte dall’enciclica Laudato sì di Papa Francesco:
“La Chiesa difende sì il legittimo diritto
alla proprietà privata, ma insegna anche con non minor chiarezza che su
ogni proprietà privata grava sempre un’ipoteca sociale, perché i beni
servano alla destinazione generale che Dio ha loro dato (ripresa da
Giovanni Paolo II).
“Con il loro comportamento (alcuni)
affermano che l’obiettivo della massimizzazione dei profitti è
sufficiente. Il mercato da solo però non garantisce lo sviluppo umano
integrale e l’inclusione sociale”.
Riportando queste citazioni ho
consapevolmente seguito l’insegnamento di Caffè, il quale cercava
spesso conforto, durante nel suo percorso di “riformista solitario”, in
quanto scaturisse dovunque dal pensiero umano; usando le sue parole “
dobbiamo mantenere la fiducia sulla possibilità di costruire una civiltà
possibile, perseguendo lo sforzo di attenuazione delle molteplici forme
di emarginazione sociale degli esseri umani”. E allora: “L’enfasi è da
porre più sugli immensi vuoti da colmare che sui limitati eccessi da
eliminare nell’operato dello “stato sociale” per cercare di realizzare
quel tanto di socialismo che appare realizzabile nel contesto del
capitalismo conflittuale con il quale è tuttora necessario convivere” .
Mario Tiberi
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