Il recente accordo sul riscaldamento climatico
è sicuramente un passo avanti, ma ha anche molti limiti. Uno fra tutti
meriterebbe molta più attenzione e comprensione: la divaricazione – o
scisma di realtà – tra la lentezza dei negoziati internazionali e la
grande accelerazione dei processi materiali che degradano il clima.
Governi e grandi imprese sostengono infatti – e si comportano di
conseguenza – che la principale contraddizione dei nostri tempi resta la
disoccupazione, che la crescita economica potrebbe
sanare, se gli investimenti si concentrassero soprattutto nella
riconversione verde di alcuni settori importanti come l’isolamento
termico degli edifici, l’efficienza energetica e l’agroecologia. La
riqualificazione di questi ed altri settori è auspicabile ma non
risolutiva del problema clima.
La causa di fondo del riscaldamento climatico è infatti la
contraddizione tra crescita illimitata e finitezza delle risorse. Per
risolvere questa contraddizione, non basta l’intervento in alcuni
settori che, anzi, potrebbe
far aumentare la domanda e i consumi,
e quindi la Co2. Serve piuttosto una economia diversa, più lenta e più
dolce, che abbia le sue radici nel locale, orientata dalla logica
qualitativa del prendersi cura di sé e della biosfera, non dalla logica
quantitativa della produttività.
Solo un’economia più lenta e più dolce potrebbe ridurre il
riscaldamento climatico, riqualificando e riducendo a monte i consumi.
Ma risolverebbe anche il problema della disoccupazione, che
nell’economia attuale è creato dalla logica della
produttività.
Produrre in modo pulito, verde e sano, in condizioni di lavoro sicure,
richiede infatti più lavoro e più posti di lavoro ricchi di senso:
nell’agricoltura agrobiologica, ad esempio, dal 30 al 40 per cento in
più rispetto a quella industriale.