venerdì 1 maggio 2015

"La fabbrica è nostra! Lo dice la Costituzione". Intervento di Paolo Andreozzi.

“La fabbrica è vostra.” Quante volte l’ho sentito dire – resta poi da vedere quante volte ciò corrispondesse alla realtà. E quante volte i lavoratori avranno detto, anche solo per superare i momenti più difficili, “la fabbrica è nostra”.
C’è quel bellissimo vecchio film di Monicelli, I compagni, ambientato nella Torino di fine Ottocento: una fabbrica tessile, condizioni di lavoro durissime, i primi semi di una coscienza operaia organizzata; all’ennesimo incidente e in risposta allo sfruttamento feroce, i lavoratori decidono lo sciopero. Li sostiene e li orienta un intellettuale anarco-socialista, un grande Mastroianni, che nella fase più critica della vertenza parla all’assemblea...
“...Se abbandonerete la battaglia, i padroni vinceranno sempre! E quella fabbrica che vi dà solo miseria e fatica, a loro darà maggiore ricchezza e potenza!”
“Ma la fabbrica è mica nostra...”
“Come non è vostra?!? Chi ci lavora quattordici ore al giorno tutti i giorni per tutta la vita? Chi ci butta sangue e sudore? Voi!!! E allora prendetela, la fabbrica... E' vostra! Tornateci, ma per occuparla! Dovete far capire a tutti che ci tenete più che alla vostra casa! Fate capire ai padroni, alla città e al governo che lì è la vostra vita, e la vostra morte! Avanti!!!”

E un morto poi ci scappa, in effetti: giovanissimo operaio ammazzato dai fucili del regio esercito, chiamati a difesa del privilegio padronale dinanzi all’occupazione.
Da allora ne è passata d’acqua sotto i ponti. Lo Stato italiano oggi non è più (soltanto) la cornice legalista dello sfruttamento di classe, e le autorità non possono più far sparare (impunemente) sul proletariato solo perché prova a resistere allo strapotere del capitale. Ma per ottenere questo c’è voluta tanta di quella costanza e di quella intelligenza, di quella forza organizzata, ci son volute tante di quelle sconfitte e ferite subite, tante morti per incidente – in fabbrica, in miniera, nei campi, nei cantieri – o per malattia contratta sul lavoro o per reazione alla lotta sindacale (vedi Portella della Ginestra) o per ‘terrorismo’ (vedi il metalmeccanico, Fiom e comunista, Guido Rossa), e tante però anche di quelle controffensive coraggiose e vincenti...
Siamo passati, in Italia, attraverso una prima guerra mondiale, la dittatura fascista e la seconda guerra mondiale, con le distruzioni e le sofferenze incalcolabili che ciò ha comportato, per arrivare alla Repubblica e alla Costituzione; e poi ancora, attraverso anni e decenni di battaglie e conquiste sindacali e politiche per arrivare allo Statuto dei Lavoratori, ai moderni istituti normativi di assistenza, previdenza, ammortizzazione, facilitazione e tutela, al dispiego di tutto il welfare state possibile entro la cornice di un modello sociale comunque capitalista e nelle condizioni oggettive della nostra storia economica. Fino alla crisi più grave di sempre, questa presente, che il padronato e i suoi referenti politici e istituzionali certo non si stanno trattenendo dall’utilizzare come una stagione di reazione implacabile e, purtroppo, efficace.
Allora un’azione in contrattacco è oggi necessaria, da parte di “chi per vivere deve lavorare” (espressione che mi piace molto, nell’uso che ne fa Landini quando dice chi sono le persone oggettivamente interessate al nuovo progetto della Coalizione Sociale).
Da quasi settant’anni, dalla sua elaborazione e promulgazione da parte di Padri e Madri Costituenti, la nostra Carta fondamentale recita solennemente:
“L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.” (Art. 41)
“La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati. La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale. La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.” (Art. 42)
“A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.” (Art. 43)
Ora, anche se scritto in termini altissimi in senso giuridico e storico, il testo di questi tre articoli – fateci caso – non è che l’estrinsecazione politica dell’assunto da cui siamo partiti: la fabbrica è vostra, voi che ci lavorate; o quantomeno, la fabbrica è anche vostra. Normale che sia così, visto che la Costituzione è stata redatta con l’apporto essenziale dei partiti all’epoca espressione delle classi lavoratrici, e visto che la Nazione non poteva che fondare le proprie nuove basi proprio sugli ideali di giustizia sociale e progresso civile che avevano dato corpo alla Resistenza e alla Liberazione.
Durante la lotta partigiana e fino alla vittoria sul nazifascismo furono innumerevoli i casi in cui gli operai stessi difendevano fabbriche e cantieri, a prezzo anche della vita, dalla tattica di distruzione totale che le truppe tedesche in ritirata volevano attuare. “La fabbrica è nostra!...”, come in quella canzone di Dario Fo, La GAP, che dice così bene:
In fabbrica fanno retate, torturano gente, non parla nessuno...
e trenta operai deportati li chiudono nei vagoni piombati diretti a Dachau.
E il 23 di aprile i tedeschi vanno a minare la fabbrica,
vogliono farla saltare prima di ritirarsi piuttosto che lasciarla in mano ai liberatori...
Ma gli operai sparano, difendono la fabbrica e salvano le macchine
che sono il loro pane... e molti si fanno ammazzar!
Adesso siamo liberi, nella fabbrica torna il padrone...
arriva un altro ingegnere, stavolta però è partigiano: Brigata Battisti, Partito d'Azion!
La canzone poi finisce amaramente, coi lavoratori che al primo sciopero importante nell’Italia repubblicana si trovano buttati per strada, perché il padrone è sempre il padrone e ha trovato il modo di intendersi anche col nuovo ceto politico di governo. La fabbrica è sua, a tutti gli effetti.
Ma ecco al primo sciopero c'è un gran licenziamento:
è stato l'ingegnere a cacciare via quei rossi che la fabbrica avevan salva’!
Eppure, la Costituzione...
Ma la Costituzione “è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove,” come disse mirabilmente Calamandrei, “perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità.” O, se volete, da tutt’altro punto di vista e in contesto precedente e diversissimo, sul concetto ci orienta Gramsci quando scrive: “Come classe, gli operai italiani che occuparono le fabbriche [tra il 1919 e il 1920, il primo 'Biennio Rosso'] si dimostrarono all'altezza dei loro compiti e delle loro funzioni. Tutti i problemi che le necessità del movimento posero loro da risolvere furono brillantemente risolti. Non poterono risolvere i problemi dei rifornimenti e delle comunicazioni perché non furono occupate le ferrovie e la flotta. Non poterono risolvere i problemi finanziari perché non furono occupati gli istituti di credito e le aziende commerciali. Non poterono risolvere i grandi problemi nazionali e internazionali, perché non conquistarono il potere di Stato.”
Quindi oggi che la secolare guerra di classe dall’alto verso il basso sfrutta più che mai la crisi economica per una ristrutturazione feroce del modello socioeconomico, ma che la conquista del potere di Stato da parte degli operai risulta un anacronismo incomprensibile, tuttavia c’è la Costituzione la quale purché ci si metta dentro responsabilmente l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere le sue promesse, ebbene prende natura viva e non di mera carta.
Il lavoro ha così (o avrebbe) un potente alleato dinanzi al capitale al tempo del neoliberismo.
La proposta. La proposta di una legge applicativa del dettato costituzionale, sull’obbligo per l’impresa a non svolgersi né in contrasto con l'utilità sociale né in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, si muove un po’ sull’esempio di ciò che concepì Pio La Torre esaminando gli eventuali punti di forza di una diversa lotta alle mafie; una battaglia contro la criminalità organizzata da condurre non solo con l’investigazione e le armi sui territori della sua presenza militare, ma soprattutto essiccando le sorgenti economiche del crimine e i reimpieghi dei suoi enormi profitti.
Cosa fece La Torre? In ultima analisi rese semplicemente applicabile, potenziandolo, un certo articolo del Codice Penale (Art. 240, Confisca – Libro I Dei reati in generale, Titolo VIII Delle misure amministrative di sicurezza, Capo II Delle misure di sicurezza patrimoniali) che così prescrive: “Nel caso di condanna, il giudice può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, e delle cose, che ne sono il prodotto o il profitto.”
Infatti, la legge promulgata con il suo nome (unito a quello di Rognoni, per i decreti da lui emanati in qualità di Ministro di Grazia e Giustizia) intanto introduce il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, ma soprattutto dispone che nei confronti del condannato sia “sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l'impiego.”
In altre parole, grazie a questa legge – e prima non si poteva fare – un giudice può ordinare, anche d’ufficio, il sequestro dei beni appartenenti al soggetto nei confronti del quale è stato iniziato il procedimento di accusa di appartenenza alla mafia: i beni di cui dispone possono essere sequestrati se si ha motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite, o ne costituiscano il reimpiego. Di più: il Tribunale dispone subito la confisca dei beni sequestrati dei quali il proprietario non dimostri la legittima provenienza e, semmai dopo, revoca il sequestro per tutti gli altri beni.
Basta l’accusa, capite? E l’onere della prova, per riavere i suoi beni, spetta all’accusato.
In questa nostra stagione di iper-garantismo ipocrita, frutto avvelenato del berlusconismo, un’impostazione così non passerebbe mai. E invece all’epoca divenne – e lo è tuttora – uno degli strumenti più efficaci nella guerra di legalità contro l’Antistato e nella restituzione alla collettività di risorse produttive e ambientali (l’esperienza di recupero di Libera di don Ciotti è giustamente la più famosa di tutte, ma non è l’unica).
I mafiosi lo capirono subito, tanto che tra la presentazione della proposta di legge in Parlamento, nel marzo 1981, e la sua approvazione nel settembre 1982, fecero fuori La Torre – segretario regionale del PCI – e il suo autista Di Salvo.
Diceva che “occorre spezzare il legame esistente tra il bene posseduto e i gruppi mafiosi, intaccandone il potere economico e marcando il confine tra l’economia legale e quella illegale”.
Bene, questa mia piccola proposta di iniziativa di legge popolare (già: è a una campagna, che penso) parte da un’urgenza analoga: in caso di violazione di quei tre articoli della Carta, occorre spezzare il legame esistente tra il mezzo di produzione posseduto e i gruppi imprenditoriali, intaccandone il potere sistemico e marcando il confine tra l’economia che rispetta la Costituzione e quella che la viola, e occorre restituire il mezzo di produzione a chi ci lavora e ne vive affinché lo riconverta in un fattore di economia che rispetta la Carta Costituzionale.
Credo siano auto-evidenti le ragioni per cui il mio obiettivo è quello di stimolare un ragionamento a 360°, ma soprattutto teso a interessare le sensibilità della Fiom – cioè della forza organizzata e conseguente che si è generosamente incaricata di far circolare il progetto della Coalizione Sociale, certo ancora allo stadio aurorale, in quell’Italia migliore che esprime realtà come Fiom, appunto, e come Libera, appunto, e come Emergency, Libertà e Giustizia, ARCI, Legambiente, Articolo 21, Gruppo Abele...
A rinforzo, tuttavia, oso prender ulteriore spunto da un’intervista del 1998 a Bruno Trentin (pubblicata col titolo Lavorare: perché?) nella quale a una studentessa lui rispondeva:
“Ci son delle volte in cui il muro contro muro va fatto, perché quando sono in gioco delle questioni fondamentali, come il diritto delle persone, c'è il muro contro muro. Lì c'è poco da fare. Non si può cedere, non si può fare compromessi di qualsiasi natura. Se lei mi cita il caso della mobilità, ci sono delle mobilità che sono inaccettabili, perché rientrano puramente e semplicemente nell'interesse dell'impresa di usare e gettare della mano d'opera a poco prezzo. [...] E allora bisogna, innanzi tutto, avere un sindacato capace di proporre, capace di proporre delle alternative. Ci sono sempre delle alternative alle scelte dei padroni o degli imprenditori. Ecco dobbiamo imparare a dire meno ‘no’ e più dei ‘sì’, ma non dei ‘sì’ a quello che dice l'imprenditore, dei ‘sì’ a quello che vogliono i lavoratori.”
Allora il ‘sì’ – o uno dei ‘sì’ – che secondo me è maturo il tempo perché noi possiamo pronunciarlo con una qualche aspettativa di buona riuscita, di interessare l’opinione pubblica e di raggiungere una soglia critica rispetto alla quale le istituzioni non possano restare indifferenti, è l’affermazione del diritto di chi per vivere deve lavorare, costituzionalmente sancito, a lavorare per un’impresa che non sia dis-utile socialmente né tantomeno dannosa per la sicurezza, la libertà e la dignità dell’uomo e della donna. Affermazione la quale deve secondo me passare per una previsione normativa che oggi non c’è; o meglio, che c’è ma è un po' nascosta in ambiti ad oggi scollegati dell’ordinamento giuridico, e che invece una legge apposita provvederebbe a ‘giuntare’ e rendere efficaci (come la Rognoni – La Torre contro le mafie).
Infatti non è che il Codice Penale, già ora così com’è, si occupi soltanto dei reati della criminalità organizzata.
Vediamo quanti reati può commettere la proprietà di un’azienda, che sia amministrata da un singolo oppure da un gruppo di azionisti, da un consiglio di amministrazione, nell’esercizio del proprio diritto d’impresa, pur senza aver nulla a che fare con mafia, camorra eccetera; ossia, vediamo in quanti modi la conduzione di un’azienda privata può contraddire le prescrizioni espresse dalla nostra Costituzione negli stessi articoli in cui si proclama libera e legittima l’impresa privata in Italia.
La sequenza dei reati possibili è abbastanza impressionante – ma per nulla fantasiosa: basta aver presente la cronaca!
Libro II (Dei delitti in particolare), Titolo VI (Dei delitti contro l'incolumità pubblica), Capo II (Dei delitti di comune pericolo mediante frode): si va dall’epidemia all’avvelenamento, adulterazione o contraffazione di acque; dall’avvelenamento, adulterazione o contraffazione di sostanze alimentari o di altre cose in danno della pubblica salute, al commercio di alimenti contraffatti, adulterati o nocivi; dal commercio o la somministrazione di medicinali guasti, alla somministrazione di medicinali comunque in modo pericoloso per la salute pubblica...
Ancora, stesso Libro, stesso Titolo, Capo III (Dei delitti colposi di comune pericolo): andiamo dai delitti colposi di danno a quelli di pericolo; dall’omissione colposa di cautele o difese contro disastri o infortuni sul lavoro, ai delitti colposi contro la salute pubblica...
Stesso Libro, Titolo VIII (Dei delitti contro l'economia pubblica, l'industria e il commercio), Capo I (Dei delitti contro l'economia pubblica): dalla distruzione di materie prime o di prodotti agricoli o industriali, ovvero di mezzi di produzione, alla diffusione di una malattia delle piante o degli animali; dal rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul pubblico mercato o nelle borse di commercio, alle manovre speculative sulle merci; dalla serrata per fini non contrattuali alla coazione alla pubblica autorità mediante appunto serrata; dal boicottaggio all’inosservanza delle norme disciplinanti i rapporti di lavoro...
Ancora, stesso Libro, stesso Titolo, Capo II (Dei delitti contro l'industria e il commercio): dalla turbata libertà dell'industria o del commercio, all’illecita concorrenza con minaccia o violenza; dalle frodi contro le industrie nazionali a quelle nell'esercizio del commercio; dalla vendita di sostanze alimentari non genuine, a quella di prodotti industriali con segni mendaci; dalla fabbricazione e commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale, alla contraffazione di indicazioni geografiche denominazioni di origine dei prodotti agroalimentari...
E concludiamo l’elenco degli orrori con stesso Libro, stesso Titolo, Capo III (Dei delitti contro la libertà individuale), Sezione I (Dei delitti contro la personalità individuale): si va dalla riduzione o mantenimento in schiavitù e servitù, alla tratta di persone; dall’acquisto e alienazione di schiavi, all’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro...
Come si vede, sono tutti reati per cui – nell’ipotesi l’imprenditore o il CdA li commettano o facciano commettere, per massimizzare i profitti – è palese che quella libertà di attività economica privata, garantita dalla Carta a certe condizioni, viene però usata contro l’interesse collettivo e contro i diritti fondamentali delle persone. Cioè, infrangendo proprio quelle condizioni.
Si aggiunga il fatto che non solo la Costituzione Italiana delimita la libertà d’impresa privata (oh, grande saggezza dei Costituenti!), ma prevede pure che la stessa proprietà privata sia limitata nei modi di acquisto e di godimento allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti, che possa essere espropriata per motivi d'interesse generale (nei casi previsti dalla legge e salvo indennizzo), e infine che la legge possa riservare originariamente o trasferire allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti, determinate imprese o categorie di imprese (oh, sublime equità sociale e profondità morale dei Costituenti!). Articoli 41, 42 e 43 – sempre loro.
Tiro le somme.
Se dunque noi lavoratori diciamo “la fabbrica è nostra”, anche se a qualcuno suona quasi un’insubordinazione, invece sembra proprio che non stiamo scavalcando di mezzo naso l’orizzonte già oggi presidiato dall’impianto generale della Costituzione, dei Codici e delle leggi; così come è normale che sia, a pensarci bene, visto che questo nostro impianto – pur conforme ai criteri generalissimi di un modello socioeconomico capitalista – è nato pur sempre in un Paese in cui un sindacato forte e un partito politico dei lavoratori hanno fatto la Storia.
Ciò che ancora manca è però una ‘leggina’ scritta apposta, che trasformi in norma positiva ed esplicita ciò che finora è o solo implicito nel sistema generale oppure espresso soltanto in forma negativa, di divieto. E tale leggina, non mi aspetto certo che l’attuale Parlamento la concepisca nemmeno – ma le Camere potrebbero esser costrette almeno a discutere una proposta di legge di iniziativa popolare (come concede a cittadine e cittadini la Costituzione, all’articolo 71), se fosse accompagnata da una campagna di sensibilizzazione e mobilitazione come si deve.
Infine, viviamo pur sempre in questa età pelosamente garantista; allora, rispetto al rigore della norma contro i beni ‘in odore’ di mafia cui basta l'iscrizione dei proprietari tra gli indagati, per il sequestro, la mia proposta ‘si accontenterà’ di procedere alla confisca e alla riconversione dei mezzi di produzione quando la loro proprietà sia stata non solo messa in stato di accusa per uno dei tanti reati sopra enumerati, ma almeno condannata in 1° grado.
Ecco la bozza, che porgo all'attenzione dei giuristi di razza perché la correggano (ciò di cui ha sicuro bisogno). Sono quattro articoletti, tanti quanti ne riporta l’Italicum famigerato – come dire che non serve tanto testo normativo per cambiare, nel bene o nel male, le cose in profondità.
Proposta di legge di iniziativa popolare per la confisca delle imprese private in contrasto con l’utilità sociale o dannose per la sicurezza, la libertà e la dignità umana
Articolo 1 – La presente legge è in diretta applicazione degli Articoli 41, 42 e 43 della Costituzione Italiana, e conforme alle previsioni di cui al Codice Penale, Libro II, Titoli VI (Capi II e III), VIII (Capi I e II) e XII (Capo III, Sezione I).
Articolo 2 – Qualunque mezzo di produzione o distribuzione di beni o servizi la cui amministrazione in regime privato sia stata giudicata in primo grado colpevole di reati contro la persona o contro l’incolumità pubblica o contro l’economia pubblica, può essere confiscato e riconvertito sotto il profilo produttivo e organizzativo per il vantaggio economico e sociale della collettività e per il rispetto della sostenibilità ambientale.
Articolo 3 – Il mezzo confiscato è giuridicamente di proprietà pubblica, e da considerarsi bene comune; non può pertanto essere alienato con vendita a privati. La sua gestione spetta in primo luogo alle forze del lavoro manuale e intellettuale che già vi prestavano opera, di concerto con le istanze di rappresentanza democratica del territorio di ubicazione del mezzo.
Articolo 4 – Qualora l’amministrazione privata del mezzo confiscato sia prosciolta dalle accuse nei successivi gradi di giudizio, essa avrà diritto al ripristino dei diritti proprietari e all’equo risarcimento per il danno eventualmente subito.
Io credo che sarebbero tante cittadine e tanti cittadini a potersi riconoscere in questa stessa urgenza – che chiamerei senz’altro anche politica – se un’organizzazione importante ne facesse una delle proprie linee di comunicazione e di azione. In fondo, non c’è bisogno che tu sia un rivoluzionario e neppure un comunista, ma semplicemente una persona per bene e intelligente insieme, se vuoi che tutti i lavoratori partecipino in qualche modo alla gestione delle proprie aziende, che lo Stato possa produrre una quantità di beni e servizi, specie i beni e i servizi di utilità generale, e che nessuno di quelli che fanno impresa privata lo faccia recando danno al benessere collettivo, alla sicurezza, alla libertà e alla dignità di qualcuno – e sennò, vuoi semplicemente che lo Stato gli tolga l’impresa.
Siamo tanto lontani da quegli anni eccezionali in cui un Palasport di Torino ospitava in piena estate un gremitissimo “Convegno nazionale delle avanguardie operaie”, dalla cui tribuna parlavano tute blu di tutta Italia raccontando di scioperi e cortei, avanzando rivendicazioni come l’abolizione delle categorie, la riduzione dell’orario di lavoro, gli aumenti salariali uguali per tutti, in assoluto e non in percentuale, e la parità normativa con gli impiegati... C’era Mirafiori, c’erano il Petrolchimico di Marghera, la Dalmine e il Nuovo Pignone di Massa, la Solvay di Rosignano, la Muggiano di La Spezia, la Piaggio di Pontedera, l’Italsider di Piombino, la Saint-Gobain di Pisa, la Fatme, l’Autovox, la Sacet e la Voxson di Roma, la Snam, la Farmitalia, la Sit Siemens, l’Alfa Romeo e l’Ercole Marelli di Milano, la Ducati e la Weber di Bologna, la Fiat di Marina di Pisa, la Montedison di Ferrara, l’Ignis di Varese, la Necchi di Pavia, la Sir di Porto Torres, i tecnici della Rai di Milano, la Galileo Oti di Firenze, i Comitati Unitari di Base della Pirelli, l’Arsenale di La Spezia...
Siamo lontani da quel secondo Biennio Rosso per tanti motivi e tante cause che non basterebbe un libro a contenere – e comunque io non so scriverlo minimamente.
Ogni stagione, ogni fase della lotta di classe infinita, ha la propria fisionomia visibile e la propria architettura profonda.
Ma sempre e dovunque, chi sta dalla parte del lavoro nella sua dialettica col capitale deve fare tutto ciò che gli è di volta in volta possibile, e nei modi in cui è oggettivamente meglio farlo, per poter rispondere in piena coscienza alla domanda che uno studente in barba e basco – ‘Marx’, lo chiamano nel film – poneva a Gian Maria Volonté in un’abbacinante sequenza notturna di La classe operaia va in paradiso: “Lulù, ma che è vita questa?”
Buon Primo Maggio a tutte e tutti!

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