giovedì 28 maggio 2015

Mafia Capitale, così l'omertà aiuta i boss.

Non solo per paura, ma anche per l’interesse che li lega ai capi dei clan, diversi testi dell’inchiesta sul malaffare nell’Urbe tengono la bocca chusa di fronte ai magistrati. E tra di loro ci sono molti professionisti. 

L'Espresso di Lirio Abbate

Mafia Capitale, così l'omertà aiuta i boss Non vedo, non sento, non parlo. Oppure non ricordo. Sintomi inequivocabili del contagio, che sono espressione diretta del più puro dna mafioso: l’omertà. La legge del silenzio è sempre stata il marchio delle cosche meridionali, la prova del loro potere: quel muro opposto a ogni domanda che era caratteristico di alcuni territori del Sud dove le mafie sono nate. Non più.

La cortina dell’omissione a ogni costo adesso prende corpo anche negli atti giudiziari sulla Capitale, smascherando il vero volto del male che l’ha colpita. L’hanno messo nero su bianco i giudici del tribunale di Roma condannando uomini e donne dei clan Triassi e Fasciani di Ostia, in quella sentenza che per la prima volta ha accertato giudiziariamente l’esistenza di una organizzazione criminale mafiosa radicata sul litorale, fino a spingersi nel cuore del potere. Con un elemento che rende ancora più preoccupante la scoperta: a tacere non sono persone qualunque ma professionisti, direttori di banca, imprenditori, persino gli impiegati delle associazioni di categoria. Borghesi che si fanno piccoli piccoli di fronte alle cosche.


Dal litorale di Ostia ai quartieri del centro, le indagini degli ultimi anni devono fare i conti con lo stesso problema. Che non ha radici solo nella paura. Ci sono vittime di estorsioni, colpite o sfiorate dal piombo dei boss, che non parlano. Ma spesso non parlano perché sono collusi: sono stati loro a chiedere la protezione armata o il sostegno economico dei criminali. Così a Roma i clan sono diventati arbitri di un’economia sommersa, dove esistono cinquanta sfumature di nero e nessuna può essere denunciata alle polizie. È questa la forza degli uomini di ’ndrangheta e camorra, intrecciati ai gruppi cresciuti sul territorio, come i Triassi e i Fasciani a Ostia o le consorterie di Michele Senese e Massimo Carminati all’interno del raccordo anulare. I re di Roma .

A ciascuno il suo: se in Sicilia, in Calabria e in Campania è il clima di minaccia a costruire l’omertà, nella Capitale invece tutto si specchia in una zona grigia di interessi e favori. Nel descrivere il clan Fasciani i giudici si appropriano delle considerazioni del pm Ilaria Calò: «Un’organizzazione che si finanzia con i proventi del traffico degli stupefacenti, dell’usura e delle estorsioni, che realizza accordi con altre realtà criminali, che perpetra azioni armate sulla pubblica via, risulta sostenuta ed alimentata da settori della società civile resi incapaci di costituire un valido argine di legalità». Eccolo il segreto delle trame romane, quel collante che unisce la strada con le persone «più elevate nella scala sociale, dotate di potere politico-amministrativo, economico o professionalmente qualificate».

Una complicità liquida, come spiega il pm Calò: «Vi è una fluidità di rapporti, l’esistenza di un sistema di relazioni sia con figure professionali qualificate (bancari, commercialisti, imprenditori della sanità privata e altri) sia con le istituzioni e i pubblici funzionari o con figure para-istituzionali che distingue l’organizzazione di tipo mafioso dall’ordinaria organizzazione criminale e ne aumenta in misura significativa la pericolosità». Secondo il magistrato in questo modo i boss infiltrandosi nel tessuto sociale si possono avvalere «dell’omertà di quella parte della popolazione che - soggiogata - ne riveste il ruolo di vittima». Come accade nelle regioni meridionali, anche qui i giudici riscontrano «l’ausilio di quella parte della popolazione (i prestanome o, in altri casi, gli imprenditori collusi) che decide di trarne a propria volta vantaggio e il fiancheggiamento o l’appoggio fornito da professionisti e da uomini delle istituzioni o di enti e organismi». Per il pm: «Tutti operano pretendendo di non vedere quello che tutti vedono». Come accade in Sicilia e in Calabria. Per il magistrato «la zona grigia dunque si colloca al confine tra il lecito e l’illecito, al limite tra il giorno e la notte».

A Ostia per gli inquirenti c’è una mafia che condiziona la vita sociale, realizza accordi e ha il potere di autorizzare o meno l’uso delle armi, un’organizzazione criminale che davanti ai giudici del tribunale porta alcuni testimoni, spesso vittime di pesanti intimidazioni, a mentire. A ripetere spesso “non ricordo” o a negare l’evidenza. Per questo motivo il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla procura per procedere nei loro confronti con l’accusa di falsa testimonianza. Ci sono situazioni paradossali. Il pugile di Fiumicino Remo Lilli nega l’agguato dei pistoleri dei Fasciani, che nel novembre 2012 gli hanno sparato contro per ucciderlo. E smentisce di avere avuto un diverbio con i boss, da cui è nata la spedizione punitiva. Perché? Durante le indagini aveva sottolineato agli investigatori: «Voglio vivere tranquillo». Una questione di omertà.

L’omertà ha indotto pure la titolare di un centro estetico le cui vetrine nel gennaio 2012 sono state frantumate da sei colpi di pistola, e che è stata fotografata e pedinata da uomini del clan, infine gambizzata, a sostenere davanti al tribunale che si deve essere trattato «di una lite condominiale». E in questo contesto si inserisce pure la deposizione in aula di un direttore di banca, Dante La Torre, sentito in dibattimento come teste della difesa, che vedeva quotidianamente Azzurra Fasciani, la figlia del boss, pilotare operazioni bancarie effettuate dagli amministratori fittizi sui conti della società che gestisce lo stabilimento balneare Village. Tutti sapevano che quel locale apparteneva alla famiglia, ma ufficialmente i titolari erano alcuni prestanome. Il direttore della banca, secondo la pm Calò, «pretende di non vedere quello che tutti vedono, e disapplica in modo plateale la disciplina antiriciclaggio sugli obblighi di adeguata verifica della clientela».

I giudici sono più pesanti e scrivono nella sentenza: «La condotta di La Torre non attesta un mero atteggiamento di compiacenza verso un cliente facoltoso e denota invece la condizione di palese subordinazione nella quale l’uomo agiva in esclusivo ossequio ai voleri della potente famiglia dei Fasciani rappresentata da Azzurra per la quale si preoccupava di normalizzare operazioni che altrimenti sarebbero state irregolari: e vi è da ritenere - per il normale corredo informativo di cui dispongono i direttori delle agenzie di credito circa le facoltà economiche e le caratteristiche della clientela e per la notorietà stessa dei Fasciani - che il La Torre fosse ben consapevole della qualità dei soggetti con i quali trattava e che nutrisse la convinzione di essere esposto ad un concreto ed ineludibile pericolo a fronte della forza della associazione».

In questo contesto accade pure che una dipendente dell’associazione di categoria dei gestori di stabilimenti balneari di Ostia, la Assobalneari, sentita come teste nel processo in relazione proprio ai tantissimi episodi di intimidazioni che polizia e carabinieri hanno documentato sul litorale, ha risposto ai giudici che a lei non risultava che ad Ostia vi erano stati incendi o “avvertimenti” in danno di stabilimenti balneari, «anch’essa pretendendo di non vedere quello che tutti vedono».

A Roma, invece, gli uomini di Mafia Capitale del clan di Massimo Carminati codificano l’omertà: «No, non deve parla’ mai, risponde alle domande... le domande sono lecite, le risposte non sono mai obbligatorie», dice il camerata Riccardo Brugia, uomo fidato del “Cecato”, intercettato dai carabinieri mentre illustra la regola del silenzio imposta dal capoclan. Ma è Salvatore Buzzi, il leader delle coop sociali di Roma, a dare la linea a un suo collaboratore: «Bisogna essere riservati, non parlà troppo, anzi, ste cose di cui non le sa nessuno… l’ho ripreso da Massimo, Massimo (Carminati, ndr) è bravissimo, lui non parla, parla pochissimo perché dice “meno sai, meno ti dico, meno sai e più stai sicuro”».

Come evidenziano i carabinieri del Ros che hanno indagato sulla rete del “Cecato”, nella Capitale accade che «l’assoggettamento e l’omertà sono due dirette conseguenze della forza d’intimidazione espressa dal clan mafioso di Carminati. L’infame è il soggetto che non rispetta l’omertà intesa come mancanza di collaborazione con le istituzioni e per questo motivo viene disprezzato e punito. A dimostrazione del fatto che lo stato di omertà nei confronti dell’associazione del “Cecato” sia diffuso, si evidenzia che mai, nel corso delle investigazioni, è stato riscontrato che qualcuno abbia presentato una denuncia contro le malefatte subite».

Le microspie hanno raccolto la preoccupazione di Carminati dopo l’arresto del suo “contabile”, il commercialista Marco Iannilli. Gli arrivano voci su una possibile collaborazione del professionista, che sarebbe stata caldeggiata dal suo avvocato. Ma Iannilli, forse per paura, precisa subito che «non avrebbe potuto riferire nulla su Carminati». Dalle intercettazioni emerge pure il tentativo di “imbavagliare” un altro sodale, Riccardo Mancini, ex top manager comunale arrestato per tangenti. Il Cecato si dà da fare «per assicurarsi l’omertà dell’uomo in merito a rapporti che Mancini ha tenuto con il clan».

Quanto sia profonda l’omertà a Roma lo testimonia un’intercettazione straordinaria, che ha registrato in diretta l’avvertimento calibro nove per una questione di soldi. Nel febbraio 2012 l’ex fantino Alessandro Contino viene ferito non lontano dall’ippodromo delle Capannelle: l’uomo racconta ai carabinieri di essere stato vittima di una rapina. Ma la microspia nell’auto di uno degli assalitori descrive una storia molto diversa. Contino aveva un debito con una persona legata al clan Senese, che ha incaricato tre emissari napoletani di punirlo.

La microspia registra il momento in cui l’ex fantino viene fatto salire in macchina, e uno del commando gli fa capire che quella è una lezione per i soldi che non ha restituito. Prima gli mostrano una pistola e lo accompagnano nei pressi delle Capannelle. Poi lo fanno scendere e il napoletano con la pistola gli dice di stare fermo: «non ti preoccupare non ti succede niente, però statti calmo». Gli sparano un solo colpo alla gamba. Lo vogliono lasciare vivo. E Contino comprende il messaggio e non racconterà nulla ai carabinieri. Un silenzio inutile, perché i militari sanno già tutto. E questa è Roma.

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