Le elezioni amministrative spagnole del 24 maggio confermano la grave crisi del bipartitismo, il crollo del Partito Popolare, la forza delle liste civiche nate dal basso, l’irruzione di Podemos e Ciudadanos nei parlamenti regionali e nei consigli comunali e l’urgente necessità di costruire alleanze post elettorali. È un cambiamento epocale per il paese iberico, che vira chiaramente a sinistra.
Il crollo dei popolari
Questo 24 maggio si votava in tutti i comuni spagnoli e in 13 regioni su 17. Il cambiamento è stato notevole e può segnare una svolta storica, anche in vista dei prossimi appuntamenti elettorali (le regionali catalane di settembre e le politiche generali di novembre). Per quanto la partecipazione non sia cresciuta in tutto il paese in termini generali – l’astensione è passata dal 33,8 al 35,1% –, in alcune realtà è aumentata considerevolmente (+ 7% a Barcellona e + 2% a Madrid), grazie alla presenza di liste civiche nate dal basso che hanno favorito la partecipazione politica della cittadinanza. Il bipartitismo dimostra la grave crisi, probabilmente irreversibile, che sta vivendo: il Partito Popolare (PP) rimane il partito più votato con il 27%, ma perde, in tutto il paese, oltre 2 milioni e mezzo di voti (oltre il 10%) rispetto alle amministrative del 2011, mentre il Partito Socialista Operaio Spagnolo (PSOE), con il 25% perde circa 700 mila voti (quasi il 3%). I due grandi partiti passano dunque da oltre il 70% del 2007 al 52% di questo 2015, permettendo l’ingresso di forze nuove nei parlamenti regionali e nei consigli comunali.
Ciudadanos con il 6,5% dei voti si colloca in terza posizione (in tutte le regioni in realtà non va al di là del quarto posto ottenendo risultati che vanno dal 4,4% dell’Estremadura al 12,5% della regione di Murcia), dimostrando, soprattutto nelle realtà urbane di aver conquistato il voto essenzialmente di chi era scontento con i popolari. Di Podemos, che si afferma, ma forse non quanto si era annunciato qualche mese fa, è difficile capire il peso reale, visto che i dati generali vengono calcolati solo sul totale delle comunali e nei comuni il partito guidato da Pablo Iglesias non si presentava con il proprio simbolo, ma solo all’interno di alcune liste civiche nate dal basso e in alleanza con altre forze di sinistra e con i movimenti sociali. Nelle regionali i risultati di Podemos sono buoni, ma non sempre esaltanti, e cambiano non di poco da un luogo all’altro: comunque, in nove regioni su tredici, dove si presentava con proprie liste, la nuova formazione si colloca al terzo posto con percentuali di voto che vanno dall’11 al 20% circa e diventa un elemento fondamentale per la formazione di possibili governi di centrosinistra in alleanza con i socialisti e, in alcuni casi, con altre forze politiche.
La débacle dei popolari è pesantissima: perdono la maggioranza assoluta in tutte le regioni e le grandi città che governavano e nelle altre regioni in cui governavano in minoranza retrocedono notevolmente. Nei loro storici feudi di Valencia e Madrid perdono quasi la metà dei voti (-25% e -27% nella regione valenciana e nel comune di Valencia, -15% e -20% nella regione madrilena e nella città di Madrid), ma, bene o male, in tutta la geografia spagnola calano moltissimo (-20% nelle Baleari, -15% in Cantabria, La Rioja e Castiglia e Leon, -26% ad Alicante, -23% a Cadice, -22% a Caceres, -16% a Siviglia, -14% a Saragozza). I socialisti salvano il salvabile ed evitano il rischio di pasokizzazione, anche grazie a una buona campagna elettorale di Pedro Sánchez, che dovrebbe mantenere il controllo del partito ed essere il candidato alle generali di novembre, ma non approfittano, come succedeva in passato, del retrocesso della destra. Si confermano primo partito nelle Asturie (perdendo il 6% dei voti), mantengono il secondo posto in tutte le regioni e riconquistano l’Estremadura e quasi tutti i capoluoghi di provincia andalusi, governati dal PP nell’ultima legislatura.
Come avevano annunciato i sondaggi, che, bisogna ammettere, anche in questo caso sono stati abbastanza attendibili, Izquierda Unida (IU) è stata duramente castigata sia dall’irruzione di Podemos sia da delle scelte suicide – come a Madrid in cui non ha più un deputato né in regione né nel comune –, perdendo oltre 400 mila voti e dimostrando che dove corre da sola rischia di scomparire. Si dimostra così che la linea della ricerca di confluenze a sinistra, posizione difesa da Alberto Garzón, futuro candidato alla presidenza del governo, è l’unica via percorribile per il partito. L’irruzione di Ciudadanos segna invece la fine di Unión Progreso y Democracia (UPyD), il partito centrista dell’ex socialista Rosa Díez, che ha già annunciato le proprie dimissioni.
Per concludere questa visione panoramica, nei Paesi Baschi e in Catalogna, dove si votava solo nei comuni, i risultati offrono delle fotografie piuttosto diverse da quelle del resto della Spagna. Nei Paesi Baschi vince il Partito Nazionalista Basco (PNV) che recupera le tre province della regione e che governerà a Bilbao e a San Sebastián. Nell’ultima legislatura il capoluogo della Guipúzcoa era in mano alla sinistra indipendentista di EH Bildu, che passa ad essere la terza forza. In Catalogna, invece, Convergència i Unió (CiU), la formazione di destra catalanista del governatore Artur Mas, è sì il partito più votato, ma perde circa 100 mila voti (pari al 6% del totale) e soprattutto il comune di Barcellona. I socialisti catalani non affondano, come preannunciato, e mantengono il secondo posto in numero di voti in tutta la regione e il controllo di Tarragona, Lerida e delle città dell’hinterland barcellonese, pur perdendo molti voti (passano dal 25,1 al 17,1%) e la metà dei consiglieri di cui disponevano fino alla settimana scorsa. Si affermano le formazioni della sinistra indipendentista (Esquerra Republicana de Catalunya con il 16,4% e la Candidatura d’Unitat Popular con il 7,1% guadagnano rispettivamente il 7% e il 5% rispetto al 2011), migliora Ciutadans (al 7,4%) e anche gli ecosocialisti catalani (dall’8,4 all’11,8%) grazie alla confluenza con liste civiche come Barcelona en Comù.
La fine delle maggioranze assolute
Il punto chiave è però che in nessuna regione e in nessun comune vi è una maggioranza assoluta, né dei popolari, né dei socialisti, né dei nazionalisti baschi o catalani. I nuovi parlamenti regionali, e anche i nuovi consigli comunali, sono molto più frammentati che in passato con cinque, sei o anche sette formazioni politiche. Come ha affermato qualche giorno fa l’ex premier socialista Felipe González, si sta andando “verso una situazione all’italiana, ma senza italiani”. È questo il punto chiave, che segna un cambio epocale per la Spagna abituata a governi monocolore e poco avvezza – per non dire nulla – alle alleanze post elettorali. Da questa domenica diventano invece una necessità e sia i grandi partiti sia le nuove formazioni dovranno fare i conti con questo fattore. I socialisti lo sanno bene con la situazione di stallo che si vive da oltre due mesi in Andalusia, dove Susana Díaz che ha vinto le elezioni del 22 marzo ha bisogno dell’appoggio di Podemos o di Ciudadanos per formare il nuovo governo. Nelle prossime settimane la situazione si dovrebbe sbloccare, ma nella decisione peseranno le alleanze e i patti che si raggiungeranno nelle altre realtà spagnole. In Castiglia La Mancia i socialisti hanno bisogno di Podemos per scalzare dal governo la segretaria del PP María Dolores de Cospedal, così anche nelle Asturie per mantenersi al governo, mentre in Aragona, nelle Baleari e nella regione di Valencia dovrebbero formare un’alleanza o ottenere l’appoggio di almeno tre o addirittura quattro formazioni. In molti dei grandi comuni la situazione non è diversa: a Madrid solo un patto tra Ahora Madrid, la lista civica nata da Ganemos Madrid, Podemos e gli scissionisti di IU, e i socialisti permetterebbe un governo di sinistra, mentre a Saragozza, Palma de Maiorca e Valencia si dovrebbero costruire alleanze di sinistra a tre.
Cercherà il partito di Pedro Sánchez una serie di alleanze a geografia variabile, in alcuni casi con Podemos e in altri, dove possibile, come in Andalusia, con Ciudadanos? Oppure si decanterà senza tentennamenti a sinistra? E in quel caso cosa farà Podemos? Entrerà nei governi del PSOE, li appoggerà solo dall’esterno, valutando caso per caso, oppure si manterrà all’opposizione? La situazione è molto complessa e solo tra la fine di giugno e l’inizio di luglio si avrà un quadro più chiaro. È finita la campagna elettorale, ma è già iniziata una tappa molto più difficile che è quella di mettere in piedi alleanze concrete, con lo scoglio delle elezioni generali che si terranno tra soli sei mesi. Ciò che è chiaro è che, in ogni caso, il PP non potrà governare nella maggior parte delle regioni e dei comuni, incluse le sue roccaforti in cui è al potere da oltre vent’anni, nemmeno con l’appoggio di Ciudadanos. Fa eccezione la regione di Murcia e, soprattutto, quella di Madrid dove l’appoggio del partito di Albert Rivera (17 deputati) darebbe ai popolari (48 deputati) un deputato in più di socialisti (37 deputati) e Podemos (27 deputati): Ciudadanos si convertirebbe così nella stampella necessaria alla destra per non affondare.
Barcellona, Madrid e l’onda lunga del 15-M
Se il cambiamento, come si è detto, è generale per tutta la Spagna, non c’è dubbio che è stato a Barcellona e a Madrid dove si è vissuto un vero terremoto e una vera e propria rivoluzione. Nelle due più grandi città spagnole saranno due donne implicate da anni nei movimenti sociali e nelle formazioni di sinistra e alla guida di due liste civiche nate dal basso a diventare sindaco.
Nel capoluogo catalano la vittoria di Ada Colau, ex portavoce della Piattaforma vittime del mutuo (PAH), è indubbiamente storica: Barcelona en Comù, lista civica con solo dieci mesi di vita nata dalla confluenza di Guanyem Barcelona, Podemos, Procés Constituent e Iniciativa per Catalunya Verds – Esquerra Unida i Alternativa (ICV-EUiA, gli ecosocialisti catalani), è il primo partito con il 25,2% dei voti (11 consiglieri comunali), superando il sindaco uscente Xavier Trias di CiU (22,6%, 10 consiglieri). PP e PSC, la federazione catalana del PSOE che ha governato la città dal 1979 al 2011, hanno perso oltre la metà dei consensi e ottengono, rispettivamente, solo 4 e 3 consiglieri. Altri tre partiti entrano nel comune di Barcellona: Ciudatans (5), ERC (5) e la CUP (3). È evidente la frammentazione del voto con ben sette partiti che ottengono consiglieri. A meno di una coalizione contraria, per il sistema elettorale spagnolo, il sindaco spetta alla lista più votata, anche se non ha la maggioranza. Con 11 consiglieri (la maggioranza è 21) Colau dovrà riuscire a tessere accordi con più di una formazione politica (ERC, PSC e la CUP?). L’operazione non è affatto facile, ma ci sono tutti i presupposti perché vada a buon fine e perché segni l’inizio di una nuova tappa politica per Barcellona, la Catalogna e tutta la Spagna. Il programma di Barcelona en Comù è infatti avanzatissimo dal punto di vista sociale e ha i suoi punti di forza nella difesa del Welfare State, nella fine delle politiche di austerità, nello sviluppo di un modello di città sostenibile, nella trasparenza e nella lotta alla corruzione.
I risultati di Barcellona sono di notevole importanza anche per la questione catalana. In chiusura della campagna elettorale, il governatore Artur Mas aveva evidenziato che la sconfitta di CiU a Barcellona avrebbe debilitato notevolmente il processo soberanista. Barcelona en Comù ha molte anime al suo interno e si è sempre dichiarata favorevole al diritto di decidere del popolo catalano, ma non è indipendentista. Nella metropoli catalana la somma dei voti dei partiti indipendentisti (CiU, ERC e CUP) supera di poco il 40% e non permette di intravedere un margine per portare avanti con successo una scommessa politica sempre più incerta, quale quella della secessione della Catalogna dalla Spagna. È anche vero che il voto indipendentista si è affermato nell’interno della Catalogna – e nell città di Girona –, ma se il comune di Barcellona non segue, come aveva fatto fino ad ora, la linea decisa dal governo di Mas il processo potrebbe entrare in una crisi irreversibile. Una questione estremamente complessa da risolvere in vista delle elezioni regionali che dovrebbero tenersi il prossimo 27 settembre.
Non è meno storico il risultato di Ahora Madrid nella capitale spagnola, culla del turbocapitalismo neoliberista del PP, che l’ha governata per oltre due decenni. La lista civica guidata dall’ex giudice Manuela Carmena è stata ad un soffio dal vincere le elezioni. I popolari, guidati dalla sprezzante Esperanza Aguirre (governatrice della regione madrilena dal 2003 al 2012 e presidentessa del PP regionale da unidici anni), pur perdendo il 15% dei voti, si sono mantenuti al primo posto (34,5% pari a 21 consiglieri comunali), mentre Ahora Madrid con soli 43 mila voti in meno ha ottenuto il 31,8% (20 consiglieri comunali). La situazione è però apparentemente più semplice che a Barcellona: se Ahora Madrid sigla un patto con i socialisti (15,3% e 9 consiglieri) scalzerebbe dalla capitale i popolari a cui non bastano i 7 consiglieri ottenuti da Ciudadanos per avere la maggioranza.
Come ha dichiarato a caldo il numero due di Podemos, Íñigo Errejón, le elezioni dimostrano innegabilmente che “si sono rotte le dinamiche tradizionali”. E che la confluenza di formazioni di sinistra e le liste civiche nate dal basso, linea proposta e appoggiata da Podemos alle comunali, è stata la carta vincente: oltre a Barcellona e Madrid, sono da ricordare anche gli ottimi risultati di Zaragoza en Común (24,6% dei voti), Marea Atlántica (31% dei voti e primo partito) e Por Cadiz Sí Se Puede (28% dei voti) che potrebbero governare a Saragozza, La Coruña e Cadice con delle alleanze con il PSOE e/o con altre formazioni di sinistra.
Le elezioni spagnole del 24 maggio dimostrano infine che, contrariamente a ciò che hanno sostenuto in molti, il movimento del 15-M non ha allontanato la gente dalla politica, ma, proprio al contrario, la ha avvicinata, responsabilizzandola e rendendola protagonista della res publica. La vittoria del PP nel 2011 non è stata la conseguenza degli “ecessi di antipolitica” degli indignados, ma della pessima gestione della crisi economica e dell’applicazione di politiche neoliberiste da parte dei socialisti negli ultimi anni del governo Zapatero. Solo ora, a quattro anni di distanza dall’occupazione delle piazze spagnole, possiamo renderci conto dell’importanza del movimento del 15-M. I risultati di Barcelona en Comù, di Ahora Madrid, di altre liste civiche e anche di Podemos ne sono la prova tangibile.
* ricercatore presso l’Istituto de Història Contemporanea, Universidade Nova de Lisboa – @StevenForti
(25 maggio 2015)
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