La situazione in Europa, o meglio dentro l’Unione Europea, ribolle. Risultati elettorali, negoziati incagliati, referendum, indicatori macroeconomici, tutto indica che il sistema di trattati dispotici sui quali è stata edificata la governance europea si trova ormai a fare i conti con i disastri, le lacrime e il sangue che ha seminato.
contropiano.org Sergio Cararo
Sul versante opposto, quello delle soluzioni di destra, c’è l’ipoteca del referendum in Gran Bretagna sulla permanenza o meno nell’Unione Europea e la vittoria del candidato reazionario, euroscettico e nazionalista, in Polonia.
In mezzo a questi scostamenti, che segnalano un'insofferenza variamente manifestata nei confronti delle politiche di austerity imposte ai paesi europei - ma in modo più pesante a quelli più periferici - ci sono state sia la sortita di Draghi che, rompendo un tabù, ha lasciato intendere come “l’euro non sia irreversibile”, sia la dichiarazione di Schauble secondo cui la Grecia può essere lasciata andare in default, quindi messa fuori dall’Eurozona e dalla stessa Ue.
Le classi dominanti europee, con forte accento tedesco ma con dimensioni ormai continentali, cominciano a sentire che l’aria potrebbe cambiare e il “gioco farsi duro”. C’è la Grecia da punire per dare l’esempio a tutti gli altri, costringendola alla resa o espellendola dalle strutture comuni. Ma per un altro verso c’è la Gran Bretagna, la quale torna ad affermare la sua speciale relazione con gli Stati Uniti, cosa che potrebbe compromettere definitivamente i già faticosi (e segreti) negoziati sul Ttip. Il malessere sociale, inoltre, cresce anche nell’Europa dell’Est, dove l’avventurismo tedesco in Ucraina – così come avvenuto per la Jugoslavia - ha alzato la soglia della tensione e dei rischi di guerra con la Russia, accentuando le spinte peggiori in Polonia, Ungheria, Macedonia, Romania e Repubbliche Baltiche (per quanto divisi tra ferocemente antirussi e “dialoganti”).
Ad aumentare l’avventurismo c’è poi l’operazione militare in Libia di cui sono stati resi noti i dettagli e che molto difficilmente – se non attraverso il già programmato controllo “militare” dei mass media – potrà a lungo spacciarsi come missione umanitaria.
Sembra insomma che l’Unione Europea non possa né voglia sottrarsi alla profezia di Helmut Kohl, secondo cui l’integrazione europea sarebbe stata un problema di pace o di guerra nel XXI Secolo.
Si percepisce per questo la sensazione che le classi dominanti europee e i loro apparati (Bce, Commissione Europea, “istituzioni”) si apprestino ad accentuare la centralizzazione dei paesi più forti e a ridisegnare le gerarchie di comando, separando il nucleo duro dai paesi più deboli o recalcitranti. Una Ue a due velocità, con una doppia moneta (l’euro del nord e gli altri si arrangino), una nuova gerarchia dei poteri decisionali nell’Unione Europea e l’ambizione di proiettarsi come un nuovo polo imperialista nella competizione globale con i Brics, il polo islamico e gli Stati Uniti, cercando con questi ultimi magari un rapporto tra pares e non più subordinato nelle vecchie camere di compensazione, tra interessi strategici cha ora solo con molti sforzi possono essere considerati coincidenti (Nato, Wto, G7, ecc).
Grande è il disordine nel cielo sotto Berlino, ma per rendere eccellente la situazione occorre avanzare con coraggio sul piano delle alternative a questa regressione. Un nuovo protagonismo degli interessi popolari e di classe, congiuntamente all’alleanza alternativa dei paesi euromediterranei, può essere una di queste.
Magari prima che siano gli avversari di classe a costringerci a “fare massa critica” o che il processo venga determinato da avventure sanguinose, sul piano economico-sociale. Più di qualcuno, ormai, si sta cominciando a rendere conto che gli strumenti potrebbero essere in questo caso assai più dolorosi e pericolosi della "semplice" austerity.
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