dinamopress -francesca la bella
Da sabato scorso i gruppi ultras sono diventati ufficialmente illegali in Egitto. La sentenza della Corte egiziana per le questioni urgenti ha, infatti, decretato lo scioglimento delle tifoserie in quanto considerate organizzazioni terroristiche.
Il procedimento, iniziato a seguito della denuncia di Mortada Mansour in cui il presidente dello Zamalek accusava gli ultras di danneggiamenti alla sede del club e minacce di morte a suo carico, ha portato all’illegalizzazione della totalità dei gruppi ultras egiziani. I singoli capi d’accusa non potrebbero, però, spiegare la severità della decisione. Le cause e le conseguenze di un tale provvedimento trascendono, infatti, dalla mera questione giudiziaria.I gruppi ultras egiziani sono centrali nelle dinamiche socio-politiche del Paese nord-africano dall’inizio delle proteste contro il regime di Hosni Mubarak. Fin dalle prime manifestazioni del 2011, in un contesto di totale disorganizzazione e di mancanza di strutture forti che guidassero i cortei (ricordiamo che in una prima fase la stessa Fratellanza Musulmana aveva scelto di rimanere a margine delle mobilitazioni), la maggiore abitudine ed attitudine alle dinamiche di piazza, ha, infatti, reso fondamentale l’apporto del tifo organizzato alle proteste.
In questo senso, gruppi ultras che avevano fatto dell’apoliticità un vessillo, si sono ritrovati a ricoprire un ruolo intrinsecamente politico per il destino del Paese. Un ruolo che, nonostante cambiamenti significativi all’interno delle stesse tifoserie, gli ultras hanno mantenuto in questi anni. Se tristemente famosa è la strage di Port Said del 2012 nella quale morirono 74 supporter della squadra cairota dell’Al-Ahly, meno conosciuti sono altri episodi che hanno visto protagonista il tifo organizzato. A gennaio di quest’anno, ad esempio, 20 tifosi dello Zamalek sono morti soffocati dai lacrimogeni e schiacciati dalle persone in fuga fuori dallo stadio del Cairo.
Si potrebbe imputare queste morti al tifo violento, alla mancanza di sicurezza o alla casualità, ma le cause di questi eventi sono molto più profonde e si radicano nella vita politica del Paese. Le tifoserie, grazie al ruolo ricoperto durante la rivoluzione, sono diventate punto di riferimento per molti giovani uomini che non trovavano altrove spazi per il proprio dissenso e, per questo, sono state oggetto della repressione governativa. Questo anche durante il Governo di Mohamed Morsi, benchè potesse sembrare che, nonostante perdurasse il blocco del campionato e rimanessero intatte molte delle condizioni che avevano portato allo scontro, il protagonismo dei tifosi fosse diminuito.
Gli scontri fuori dal carcere di Port Said nel marzo 2013 dei tifosi dell’Al-Masry a seguito delle 21 condanne a morte per la partecipazione all’omonima strage e la conseguente repressione, però, dimostravano che era solo cambiato l’angolo di osservazione e non l’atteggiamento della dirigenza verso i tifosi. In quell’occasione anche molti altri gruppi ultras sottolinearono che la condanna costituiva una giustizia parziale in quanto incurante del ruolo delle forze di sicurezza nel massacro.
Per rivedere l’attivismo dei primi giorni di rivoluzione bisognava, però, aspettare il colpo di Stato. Se durante il periodo precedente, sia per un certo sostegno ad un Governo che veniva considerato legittimo sia per una diffusa rassegnazione in merito alla possibilità di un reale cambiamento, la situazione poteva apparire parzialmente pacificata, con la salita la potere del Generale Abdel Fatah Al-Sisi, le proteste hanno trovato nuovo vigore. Da un lato la repressione di ogni forma di dissenso, la persecuzione metodica di attivisti laici e islamici, l’illegalizzazione di organizzazioni e partiti tra i quali spicca per importanza la messa al bando della Fratellanza Musulmana, ha indotto un avvicinamento degli ultras alle posizioni dei gruppi islamici. La nascita di realtà come quella degli ultras Nahdawy, gruppo di ultras legati ai Fratelli Musulmani che unisce frange di tifoseria di squadre diverse e precedentemente avversarie, è la traccia più evidente di questa tendenza.
Dall’altro, laddove inizialmente esisteva solo una vaga opposizione al Governo di turno ed alle forze armate, si è innestato un processo di nuova radicalizzazione. In parallelo il blocco del campionato ha lasciato i tifosi fuori dallo stadio, obbligandoli a penetrare nella società per mantenere vivo il loro impegno. Non si dimentichi, a tal proposito, che gli ultras, come gli attivisti d’altronde, non sono un soggetto estraneo alla società, ma ne fanno parte condividendo con altri gruppi sociali, come gli studenti, condizioni economiche e di vita. Non stupisce in questo senso scoprire come, negli ultimi mesi, si sia assistito ad un avvicinamento tra ultras e gruppi studenteschi laici e religiosi ostili al Generale Al-Sisi. La comune provenienza sociale, la vicinanza di età e l’approccio repressivo del Governo hanno così saldato un’alleanza in quello spaccato sociale fatto di giovani senza lavoro e senza speranze che avevano visto nelle manifestazioni del 2011 la possibilità reale di mutare il proprio destino.
Mentre il Governo accusa gli ultras di essere la longa manus dei Fratelli Musulmani e presenta gli interventi contro le tifoserie organizzate come azioni di contenimento del terrorismo islamico (si noti come la messa al bando dei movimenti ultras sia stata pronunciata lo stesso giorno della condanna a morte di Mohamed Morsi), la realtà è, quindi, molto più complessa e articolata e l’illegalizzazione rischia di indurre un ulteriore processo di radicalizzazione delle posizioni.
Da alcuni mesi si assiste all’avvicinamento di molti tifosi a gruppi islamisti radicali e, in particolare, allo Stato Islamico. All’interno degli stessi gruppi questa svolta è fonte di divisione e la vecchia generazione di tifosi afferma che solo la solidità del gruppo e dei suoi valori condivisi può arginare questa deriva permettendo di continuare una lotta comune che, partendo da quella per la libertà negli stadi, giunga a quella per la libertà nella società
*tratto da NenaNews
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