Dopo la questione meridionale quella mediterranea. Un economista del Sud avverte che sussistono serie probabilità che l’Eurozona imploda a causa delle insanabili divergenze economiche con cui è stata concepita. EmilianoBrancaccio, docente di Fondamenti di Economia politica e di Economia del Lavoro all’Università del Sannio, lancia l’allarme: “E’ in atto la ‘mezzogiornificazione’ dei Paesi periferici europei. L’esito finale di questo processo potrebbe essere l’implosione stessa di tutto il sistema di Eurolandia”.
intervista di Lauro Amendola da IL DENARO
Lei parla di ‘mezzogiornificazione’ dell’Europa: di che cosa si tratta?
L’espressione ‘mezzogiornificazione’ è
stata coniata dall’economista americano Paul Krugman, ma il suo
significato profondo può esser fatto risalire ad alcuni economisti
italiani, tra cui Augusto Graziani. Essa indica che il dualismo
economico che ha caratterizzato i rapporti tra il Nord e il Sud Italia
si sta riproponendo oggi, su scala allargata, nei rapporti tra i Paesi
‘centrali’ e i Paesi ‘periferici’ dell’Unionemonetaria europea.
La ‘mezzogiornificazione’ è in atto o è terminata con l’unificazione europea?
La ‘mezzogiornificazione’ è tuttora in
atto. La nascita della moneta unica europea l’ha accentuata e la crisi
iniziata nel 2008 le ha impresso un’ulteriore accelerazione. Basti
guardare la forbice che si è venuta a creare tra gli andamenti
dell’occupazione: mentre l’Italia, la Spagna, l’Irlanda, il Portogallo e
la Grecia negli ultimi cinque anni hanno perso oltre 6 milioni di posti
di lavoro, la Germania ha visto crescere l’occupazione di un milione
emezzo di unità. Lo stesso dicasi per le insolvenze delle imprese: tra
il 2008 e il 2012 sono aumentate in Spagna del 200 per cento e in Italia
del 90, mentre in Germania sono addirittura diminuite del 3 per cento.
Si tratta di divergenze colossali, che dal Dopoguerra non hanno
precedenti storici.
Colpa di quel profilo ‘liberista’ dei Trattati dell’Unione europea che denunciavate nella “Lettera degli Economisti” del 2010?
L’Ue è stata edificata su basi
competitive, conflittuali. Il livello di coordinamento politico tra i
suoi Paesi membri è ridotto ai minimi termini. Quasi tutto è affidato ai
meccanismi del mercato, che in genere tendono ad accentuare i divari,
non certo a ridurli. I Governi nazionali oggi non possono usare le
tradizionali leve della politica economica, come il bilancio pubblico,
la politica monetaria o la politica del tasso di cambio. Molti si sono
augurati che questa sorta di ‘vincolo esterno’ imposto dai Trattati
europei costringesse l’Italia e gli altri Paesi periferici dell’Unione a
realizzare le riforme necessarie a modernizzare i loro apparati
produttivi, in modo da renderli competitivi con quelli dei Paesi
centrali. Ma questa speranza si è rivelata una mera illusione. Anziché
creare convergenza fra i Paesi europei, il ‘vincolo esterno’ alle
politiche nazionali ha favorito la divergenza, accentuando i divari
economici che già sussistevano prima della nascita dell’euro.
Le autorità della Germania possono essere considerate responsabili di questi andamenti?
Le autorità di Governo tedesche si sono
dimostrate incapaci di assumere un vero ruolo di leadership europea. La
Germania, gigante economico, si comporta tuttora come un nano politico.
La pretesa tedesca è di continuare a crescere al traino di altri Paesi,
sfruttando la domanda di beni e servizi proveniente dall’estero. Ieri
erano i Paesi periferici dell’eurozona a trainare la Germania, oggi le
autorità tedesche sperano di trovare altre locomotive, situate
all’esterno dei confini dell’Unione.
Quindi?
La conseguenza è che il Paese più forte
dell’Ue, anziché espandere la domanda interna e fungere da volàno per lo
sviluppo economico dell’intero Continente, preferisce attuare politiche
di deflazione interna per ridurre le proprie importazioni e aumentare
le esportazioni. Come abbiamo segnalato anche di recente nel “monito degli economisti” pubblicato il 23 settembre scorso sul Financial Times,
questa strategia non è sostenibile. Ogni guadagno della Germania
corrisponde a una perdita più che proporzionale per i Paesi periferici.
La conseguenza è che l’Unione, nel suo complesso, continua a registrare
un calo dell’occupazione, con effetti distruttivi sull’unità europea.
Su queste colonne avevamo già
comparato la crisi dei Paesi mediterranei europei a una ‘questione
meridionale’ ampliata a livello continentale: che potenzialità presenta
questo modello interpretativo della crisi europea?
Tra i Paesi in crisi ve ne sono anche di
extra-mediterranei, come ad esempio l’Irlanda. E alcuni paesi del
‘centro’ dell’Unione non se la passano benissimo, come ad esempio
l’Olanda. In generale, però, l’idea di cogliere su scala europea una
riproposizione del problema storico delle divergenze tra Nord e Sud
Italia mi sembra corretta. Per lungo tempo il ‘meridionalismo’ è stato
considerato una teoria polverosa, antiquata, superata dagli eventi.
Stimati studiosi avevano addirittura suggerito di ‘abolire il
Mezzogiorno’ dalle categorie interpretative delle vicende economiche
nazionali.
E oggi?
Oggi invece possiamo cogliere dalla
questione meridionale nuovi spunti per l’analisi del presente. Penso che
se oggi recuperassimo la questione meridionale e la riproponessimo in
chiave aggiornata e su scala continentale, potremmo fornire
un’interpretazione della crisi europea molto più pregnante di quelle che
vanno per la maggiore. Inoltre, conoscere la storia dei rapporti
travagliati tra Nord Italia e Mezzogiorno aiuterebbe anche a indagare
sui possibili sviluppi politici della crisi europea.
Noi meridionali dovremmo cioè farci carico di una previsione politica?
Essendo ben consapevoli di quelli che
sono stati gli effetti deleteri di un irrisolto dualismo economico tra
Nord e Sud Italia, noi meridionali in effetti abbiamo più elementi di
altri per lanciare un allarme sui possibili effetti politici delle
enormi divergenze economiche in atto: proseguendo di questo passo, i
Paesi periferici dell’Unione potrebbero a un certo punto vedersi
costretti ad abbandonare l’eurozona per cercare di contrastare gli
attuali processi di desertificazione produttiva.
(intervista di Lauro Amendola)
da IL DENARO – sabato 16 novembre 2013
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