L'elemento di novità portato
dalla ricerca “Immigrazione e diritti violati: i lavoratori immigrati
nella cultura del Mezzogiorno”, coordinata dal prof. Enrico Pugliese, e
raccolta in volume da Ediesse, sta nel fatto che dalla sua analisi
emergono alcuni meccanismi che stanno alla base dello sfruttamento mai
descritti in precedenza con questa precisione: il fatto che esista una
sorta di “contratto nazionale del sottosalario”; la profonda
contraddizione tra agricoltura ricca e manodopera povera, che porta alla
luce il fatto che lo sfruttamento del lavoro sia un fenomeno
strutturale, e non un'emergenza; la figura del caporale smitizzata dal
mero ruolo di kapò agricolo dell'immaginario collettivo, ma resa in
tutte le sue sfumature e in tutta la sua complessità; il fatto che molti
lavoratori migranti si ritrovino nei campi da “regolari”, dopo aver
perso il lavoro in fabbrica a causa della crisi. Redattore sociale ha
intervistato il prof. Pugliese.
Quali erano gli obbiettivi della vostra ricerca?
Abbiamo inteso da una parte documentare, e da un'altra proporre analisi e chiarimenti su alcune tematiche. La metodologia seguita è stata quella dell'inchiesta operaia, alla “Quaderni rossi”: le persone che intervistavamo e la cui vita quotidiana studiavamo sul campo e tramite interviste, non sono state solo un oggetto di studio, ma sono state coinvolte, sono diventate soggetti attivi, in alcuni casi diventando a loro volta intervistatori, come ad esempio è successo con alcuni senegalesi a Rosarno.
Cosa si intende con l'espressione “contratto nazionale del sottosalario"?
Nelle aree che abbiamo studiato noi (Campania, Puglia e Calabria, ndr) abbiamo riscontrato che grosso modo i livelli di retribuzione, al lordo del taglieggiamento operato dal caporale, stanno tra i 2,5-3 euro l'ora quando va bene, e i 20-25 euro al giorno. Non ci sarebbe di per sé originalità nella nostra scoperta, ma abbiamo riscontrato che, siccome questa paga è identica ovunque, è come se ci fosse una sorta di contratto nazionale dei lavoratori agricoli sul sottosalario e sul grave sfruttamento. E', appunto, come se ci fosse una specie di “accordo nazionale sul sottosalario”, come se ci fosse un meccanismo di equilibrio, di omogeneità, che fa riflettere a chi è che stabilisce i prezzi. In apparenza, pare che se ne occupi solo il caporale, in realtà chi dà lavoro a questa gente e realizza profitti colossali sulle loro spalle attraverso quello che definiamo “grave sfruttamento lavorativo” è l'impresa. Ebbene, nel dibattito non compare mai, come se non ci fosse, come se non desse lei mandato al caporale. E' un aspetto di denuncia che ci sembrava importante chiarire.
Quale figura del caporale emerge dalle vostre ricerche?
I nostri risultati sono in controtendenza rispetto alle altre analisi. Noi ci siamo trovati a smitizzarne la figura attraverso la ricerca empirica e le interviste ai diretti interessati. Sì, esiste anche il caporale corrispondente all'immagine trucida, ma non c'è solo quello: è come se esistesse un continuum tra il caporale schiavista, quello che perpetra un grave sfruttamento lavorativo e il “caporale etnico”, caposquadra migrante che taglieggia i compagni, ma “giusto un po'”. La vera e propria riduzione in schiavitù è rara, il ruolo più ricorrente, con diverse sfumature, comprende due funzioni fondamentali: l'intermediazione, che comprende in sé i servizi di informazione e trasporto, e il taglieggiamento.
Anche questo ci è sembrato un contributo molto importante per chiarire, perché per contrastare il fenomeno ci sono azioni diverse da intraprendere: contro il caporale schiavista serve un'azione penale, nei confronti del “caporale nero” c'è da convincere l'azienda a superare il ruolo del caporale e delle sue intermediazioni, cosa che è stata fatta, ad esempio, con lo sciopero di Nardò.
Può chiarirci il rapporto strutturale, apparentemente contraddittorio, tra agricoltura ricca e manodopera povera?
Nella ricerca sono emerse connessioni tra le condizioni del regime agrario e fondiario, il fenomeno del caporalato, e le condizioni di vita dei lavoratori.
C'è un sistema determinato dall'intreccio tra prepotenza dell'impresa, tra violazione delle leggi per un verso, e legislazione favorevole alle imprese per un altro, tra presenza del caporale -che comunque fornisce dei servizi-, che fa la miseria dei lavoratori.
Le condizioni peggiori si riscontrano proprio nelle zone in cui l'agricoltura è più ricca: ad esempio, Rosarno è nota alle cronache per la grave situazione, ma è comunque meno grave che in Capitanata (zone che corrisponde, all'incirca, alla provincia di Foggia, ndr).
Può spiegarci perché?
Ci sono grandi aziende, che usano molta manodopera per brevi periodi dell'anno. Quindi i lavoratori devono arrivare da fuori, insediandosi fuori dai centri abitati perché le estensioni di terreno sono molto grandi. Le aziende non forniscono ciò che dovrebbero per legge, l'acqua potabile innanzitutto, il caporale può vendere bottigliette a due euro l'una, e in generale è proprio in queste situazioni che si creano le condizioni in cui c'è una maggiore incidenza della forma estrema del caporalato, dato che il controllo sociale e anche repressivo da parte dello stato è più difficile.
Esistono, in base ai risultati da voi raggiunti, delle soluzioni possibili?
Già aver individuato le aree in cui lo stato è più carente e dovrebbe quindi cambiare modalità e intensità della sua presenza mi pare un buon risultato. Non bisogna agire solo sul diritto penale: esiste una legge che persegue il caporalato, teoricamente punito severamente, ma viene lasciata scoperta tutta la parte riguardante il controllo diretto da parte dello stato e la necessità che sia presente, fornendo servizi di informazione e trasporto in contrasto ai caporali.
Esistono alcuni esempi di buone pratiche: in Puglia gli “alberghi diffusi”, esperimento per ora simbolico ma importante perchè apre la strada alla possibilità che i lavoratori stiano in alloggi non forniti dal caporale; nel cosentino, grazie all'interessamento sindacale, è stato raggiunto un accordo sul trasporto, con un contributo alla spesa, per avvicinare i lavoratori all'impresa.
Quali erano gli obbiettivi della vostra ricerca?
Abbiamo inteso da una parte documentare, e da un'altra proporre analisi e chiarimenti su alcune tematiche. La metodologia seguita è stata quella dell'inchiesta operaia, alla “Quaderni rossi”: le persone che intervistavamo e la cui vita quotidiana studiavamo sul campo e tramite interviste, non sono state solo un oggetto di studio, ma sono state coinvolte, sono diventate soggetti attivi, in alcuni casi diventando a loro volta intervistatori, come ad esempio è successo con alcuni senegalesi a Rosarno.
Cosa si intende con l'espressione “contratto nazionale del sottosalario"?
Nelle aree che abbiamo studiato noi (Campania, Puglia e Calabria, ndr) abbiamo riscontrato che grosso modo i livelli di retribuzione, al lordo del taglieggiamento operato dal caporale, stanno tra i 2,5-3 euro l'ora quando va bene, e i 20-25 euro al giorno. Non ci sarebbe di per sé originalità nella nostra scoperta, ma abbiamo riscontrato che, siccome questa paga è identica ovunque, è come se ci fosse una sorta di contratto nazionale dei lavoratori agricoli sul sottosalario e sul grave sfruttamento. E', appunto, come se ci fosse una specie di “accordo nazionale sul sottosalario”, come se ci fosse un meccanismo di equilibrio, di omogeneità, che fa riflettere a chi è che stabilisce i prezzi. In apparenza, pare che se ne occupi solo il caporale, in realtà chi dà lavoro a questa gente e realizza profitti colossali sulle loro spalle attraverso quello che definiamo “grave sfruttamento lavorativo” è l'impresa. Ebbene, nel dibattito non compare mai, come se non ci fosse, come se non desse lei mandato al caporale. E' un aspetto di denuncia che ci sembrava importante chiarire.
Quale figura del caporale emerge dalle vostre ricerche?
I nostri risultati sono in controtendenza rispetto alle altre analisi. Noi ci siamo trovati a smitizzarne la figura attraverso la ricerca empirica e le interviste ai diretti interessati. Sì, esiste anche il caporale corrispondente all'immagine trucida, ma non c'è solo quello: è come se esistesse un continuum tra il caporale schiavista, quello che perpetra un grave sfruttamento lavorativo e il “caporale etnico”, caposquadra migrante che taglieggia i compagni, ma “giusto un po'”. La vera e propria riduzione in schiavitù è rara, il ruolo più ricorrente, con diverse sfumature, comprende due funzioni fondamentali: l'intermediazione, che comprende in sé i servizi di informazione e trasporto, e il taglieggiamento.
Anche questo ci è sembrato un contributo molto importante per chiarire, perché per contrastare il fenomeno ci sono azioni diverse da intraprendere: contro il caporale schiavista serve un'azione penale, nei confronti del “caporale nero” c'è da convincere l'azienda a superare il ruolo del caporale e delle sue intermediazioni, cosa che è stata fatta, ad esempio, con lo sciopero di Nardò.
Può chiarirci il rapporto strutturale, apparentemente contraddittorio, tra agricoltura ricca e manodopera povera?
Nella ricerca sono emerse connessioni tra le condizioni del regime agrario e fondiario, il fenomeno del caporalato, e le condizioni di vita dei lavoratori.
C'è un sistema determinato dall'intreccio tra prepotenza dell'impresa, tra violazione delle leggi per un verso, e legislazione favorevole alle imprese per un altro, tra presenza del caporale -che comunque fornisce dei servizi-, che fa la miseria dei lavoratori.
Le condizioni peggiori si riscontrano proprio nelle zone in cui l'agricoltura è più ricca: ad esempio, Rosarno è nota alle cronache per la grave situazione, ma è comunque meno grave che in Capitanata (zone che corrisponde, all'incirca, alla provincia di Foggia, ndr).
Può spiegarci perché?
Ci sono grandi aziende, che usano molta manodopera per brevi periodi dell'anno. Quindi i lavoratori devono arrivare da fuori, insediandosi fuori dai centri abitati perché le estensioni di terreno sono molto grandi. Le aziende non forniscono ciò che dovrebbero per legge, l'acqua potabile innanzitutto, il caporale può vendere bottigliette a due euro l'una, e in generale è proprio in queste situazioni che si creano le condizioni in cui c'è una maggiore incidenza della forma estrema del caporalato, dato che il controllo sociale e anche repressivo da parte dello stato è più difficile.
Esistono, in base ai risultati da voi raggiunti, delle soluzioni possibili?
Già aver individuato le aree in cui lo stato è più carente e dovrebbe quindi cambiare modalità e intensità della sua presenza mi pare un buon risultato. Non bisogna agire solo sul diritto penale: esiste una legge che persegue il caporalato, teoricamente punito severamente, ma viene lasciata scoperta tutta la parte riguardante il controllo diretto da parte dello stato e la necessità che sia presente, fornendo servizi di informazione e trasporto in contrasto ai caporali.
Esistono alcuni esempi di buone pratiche: in Puglia gli “alberghi diffusi”, esperimento per ora simbolico ma importante perchè apre la strada alla possibilità che i lavoratori stiano in alloggi non forniti dal caporale; nel cosentino, grazie all'interessamento sindacale, è stato raggiunto un accordo sul trasporto, con un contributo alla spesa, per avvicinare i lavoratori all'impresa.
Nessun commento:
Posta un commento