lunedì 25 novembre 2013

Non si uccide per amore.

Nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne parlare di come i media affrontano il tema potrebbe sembrare un argomento secondario, rispetto al fenomeno in sé. Si tratta invece, probabilmente, del cuore del problema, visto che la violenza sulle donne è innanzitutto una questione culturale.

micromega di Cinzia Sciuto

Se si prova a cercare la parola “femminicidio” negli archivi dei giornali si scopre che essa fa la sua prima comparsa intorno al 2006-2007, per poi diffondersi sensibilmente solo negli ultimi anni. Non che prima, ovviamente, non si consumassero femminicidi, semplicemente non c'era una parola per indicare il fenomeno e i singoli episodi venivano raccontati slegati l'uno dall'altro. Dare un nome alle cose significa “creare” un fenomeno, laddove prima c'erano solo singoli accadimenti. Da qualche tempo, molto lentamente e con grandi lacune, alcuni mezzi di comunicazione (parliamo di carta stampata, la tv è ancora all'anno zero) hanno deciso di tirar fuori dal flusso indistinto degli avvenimenti i casi di donne uccise per aver osato mettere in discussione il loro ruolo e hanno iniziato a dare a questi fenomeni il nome di femminidio (anche se qualcuno ancora storce il naso di fronte a questa parola). Finché non ha un nome, un fenomeno non esiste (e quindi, per esempio, non esistono dati ufficiali su quel fenomeno).

La parola “femminicidio” è stata introdotta dalla criminologa statunitense Diana Russell nel 1992, per indicare una categoria criminologica vera e propria: una violenza da parte dell’uomo contro la donna in quanto donna, un atto in cui, cioè, la violenza è il risultato di una precisa cultura del possesso e della sopraffazione. Quello quindi che distingue il femminicidio da ogni altro omicidio, sia di uomini che di donne, è il movente di genere: la donna vittima di femminicidio ha messo in qualche modo in discussione l'idea che l'assassino aveva del suo ruolo. La donna si è “permessa” di tradirlo, di lasciarlo, di voler vivere una vita diversa da quella che avrebbe “dovuto”. Centrale dunque – nella definizione di femminicidio – è il ruolo degli stereotipi di genere.

Ecco perché è cruciale il ruolo dei media – che insieme a famiglia, scuola e, in Italia, la Chiesa – sono tra le principali agenzie in senso lato “educative”. Lo stereotipo di genere riguarda i ruoli che uomini e donne dovrebbero avere per natura. Ad essere ingabbiati negli stereotipi, naturalmente, non sono solo le donne, ma gli uomini stessi. La violenza sulle donne si alimenta di un'idea di “aggressività naturale” degli uomini e di una “remissività” altrettanto “naturale” per le donne. Per cui, fin da piccolissimi, siamo portati a distinguere i giochi “da maschio”, che generalmente hanno a che fare con la prestanza fisica, dai “giochi da femmina”, principalmente legati al ruolo di “cura” e da questi primi passi si giunge fino all'idea che l'uomo sia, per natura, “cacciatore” e la donna, per natura, “preda”. I bambini forti e aggressivi, le bambine docili e accudenti. Le donne sono indotte a cercare conferma della propria femminilità nello sguardo “desiderante” degli uomini, gli uomini quella della loro virilità nella “quantità” di “prede” che riescono a mettere nel sacco.

È all'interno di questa cultura arcaica, ma ancora profondamente radicata, che si consumano le violenze sulle donne. E purtroppo parliamo di una cultura ancora ampiamente diffusa, persino tra le giovani generazioni: non possiamo non ricordare il femminicidio di Fabiana Luzzi, 16 anni, uccisa a Corigliano Calabro dal fidanzato “geloso”.

“Gelosia” è una delle parole più ricorrenti quando giornali e tv raccontano un femminicidio. Assieme a raptus, follia, depressione, scatto d'ira, tragedia familiare, amore (magari malato, ma sempre amore). Ingredienti che cucinati tutti insieme inducono, anche se non intenzionalmente, da un lato, a cercare un concorso di colpe da parte della vittima (quasi come se se la fosse cercata) e, dall'altro, se non ad assolvere, quantomeno a giustificare il carnefice, descrivendolo di norma come un pover'uomo follemente innamorato preso da una passione irrefrenabile, che ha agito in preda ad un “raptus”. Insomma, l'assassino non “agisce” ma “re-agisce” ad un comportamento della vittima. Comportamento che di solito consiste semplicemente nell'affermazione della propria autonomia e libertà (“Lei voleva cambiare casa e lavoro e il marito geloso l'ha massacrata”, titolava un quotidiano nazionale in un recente caso di femminicidio: causa ed effetto). Insomma, se la donna mette in discussione il ruolo che lei stessa, il compagno, la famiglia, la società le hanno cucito addosso lo fa a suo rischio e pericolo. Questo modo di ragionare è stato persino messo nero su bianco dal parroco di Lerici che qualche tempo fa, proprio dopo l'ennesimo caso di femminicidio, aveva affisso sulla bacheca della sua parrocchia un delirante articolo tratto dal sito cattolico integralista pontifex.it intitolato “Le donne e il femminicidio. Facciano sana autocritica: quante volte provocano?”, in cui si leggeva: “Le donne sempre più spesso provocano, cadono nell’arroganza, si credono autosufficienti”.

Per disinnescare questi meccanismi culturali che spesso insidiano inconsapevolmente anche chi ritiene di esserne immune potrebbe essere utile, innanzitutto a partire dai giornali, iniziare a chiamare le cose con il proprio nome. Sostituire la parola gelosia, per esempio, con volontà di possesso, amore con dominio, avances con molestie, passione con aggressione. E forse inizierebbe a cambiare anche la nostra percezione della realtà. Non si uccide perché si ama ma perché non si riesce a concepire la propria compagna al di fuori della funzione che le è stata assegnata.

La violenza sulle donne è il frutto sistematico di una cultura arcaica, maschilista e patriarcale centrata sull'idea del possesso e della sopraffazione che ancora caratterizza il nostro paese. Non possiamo dimenticare che fino al 1981 il “delitto d'onore” era una fattispecie del nostro ordinamento che concedeva attenuanti agli assassini ed era anzi spesso percepito dalla comunità come un dovere per ristabilire, appunto, l'onore leso. E addirittura ancora fino al 1996 lo stupro era rubricato dal nostro codice penale tra i delitti contro la moralità e il buon costume anziché contro la persona.

La violenza contro le donne, dunque, non è affatto un'emergenza, altra parola abusata dai media. Emergenza è un evento improvviso, imprevisto e imprevedibile. La violenza sulle donne è figlia della nostra “civiltà”, è un portato strutturale e non emergenziale della nostra cultura più profonda e radicata. Alle emergenze si risponde con interventi emergenziali, ai problemi strutturali con cambiamenti culturali.

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