giovedì 28 novembre 2013

Legge di stabilità, Letta promette il reddito minimo. Ma i conti non tornano.

Per il ministero del Lavoro il costo del programma sarebbe di "di 7-8 miliardi" annui, ma la manovra prevede nuovi stanziamenti solo per poche decine di milioni. E, una volta entrato a regime, il programma consentirebbe di aiutare soltanto il 6% delle famiglie.

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Enrico LettaEnrico Letta parla di “reddito minimo” e così fa il suo governo. Ma parlarne è facile, il difficile è realizzarlo. Il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, definisce il Sostegno per l’inclusione attiva (Sia) previsto dalla Legge di Stabilità una “riforma strutturale” che risponde alle richieste della Commissione Ue, che va al di là del reddito minimo in quanto è una vera e propria “presa in carico delle famiglie”. Ma, stando ai numeri, il provvedimento non potrà che incidere solo in maniera marginale sulla difficile realtà di chi vive al di sotto della soglia di povertà. Le cifre elencate dal governo, che parla di “sperimentazione”, sono infatti insufficienti persino rispetto al documento elaborato dal ministero del Lavoro sul Sia: per il dicastero il costo del programma sarebbe di “di 7-8 miliardi” annui, ma la Legge di stabilità prevede nuovi stanziamenti solo per poche decine di milioni.

Nel maxiemendamento alla Legge di stabilità vengono stanziati 120 milioni in 3 anni, ovvero 40 milioni l’anno. In pratica meno della metà di quanto stanziato per la Carta acquisti per un solo anno, che è di 250 milioni annui e a cui i 120 milioni del Sia si vanno a sommare nel quadro della “riforma” prevista dal governo. A questi, ha spiegato in mattinata Giovannini, vanno aggiunti i “170 milioni per il Mezzogiorno e altri 50 milioni per i grandi comuni” già stanziati. In tutto circa 500 milioni. Però basta andare sul sito del ministero del Lavoro per scoprire che le cifre sono necessarie a far sì che il provvedimento possa incidere minimamente sulla realtà. Nel documento con cui il dicastero presenta il Sostegno per l’inclusione attiva si legge: “Il programma potrebbe ragionevolmente comportare un costo a regime dell’ordine di 7-8 miliardi” annui. Altro che le cifre sbandierate dal governo.
Non solo. “Un tale programma consentirebbe di raggiungere non meno di circa il 6% delle famiglie del Paese”, si legge ancora nel documento. Ma solo una volta entrato a regime, cioè quando sarebbero disponibili i 7-8 miliardi. Quindi, anche se dovesse entrare a regime, il Sia risolverebbe solo un terzo del problema: secondo l’Istat le famiglie italiane sono in tutto 26 milioni. Quindi il 6% di 26 milioni sono 1 milione e 560 mila famiglie, moltiplicato per il numero medio dei componenti, che è 2,3, fa 3,6 milioni di persone. Per l’Istituto di statistica in Italia ci sono 9,5 milioni di persone che vivono sotto la soglia minima di spesa. Quasi tre volte quelle che verrebbero aiutate dal Sia. Il quale non è, quindi, un reddito minimo garantito, ma somiglia più che altro ad un ampliamento della Carta acquisti, l’ex Social card, che il governo ha ora esteso a tutto il territorio nazionale, “vale 40 euro al mese e viene caricata ogni 2 mesi con 80 euro (40 euro x 2 = 80 euro) sulla base degli stanziamenti via via disponibili”, si legge sul sito del ministero dell’Economia. In pratica, il solito assistenzialismo.
Altro problema: la copertura del Sia è in odore di incostituzionalità. Il provvedimento verrebbe finanziato con i fondi ottenuti dal contributo di solidarietà delle pensioni d’oro. Il contributo, progressivo, è pari al 6% oltre i 90mila euro, al 12% sopra i 128 mila e al 18% sopra i 193 mila. Il premier Letta pensa “che si possa superare l’incostituzionalità con questa nuova formulazione”, ma la misura che spesso è comparsa nelle manovre correttive degli ultimi anni e puntualmente è stata boccata dalla Corte Costituzionale. L’ultima volta lo scorso giugno: secondo la Consulta, non è in linea con il dettato della Carta qualsiasi prelievo fiscale sugli assegni previdenziali, anche su quelli che superano i 90mila euro lordi, come prevedeva il decreto legge 98 del 2011, perché costituisce “un intervento impositivo irragionevole e discriminatorio ai danni di una sola categoria di cittadini”. Lo stesso ministro Giovanni lo scorso agosto aveva ammesso: “Non possiamo tagliare le pensioni d’oro, sarebbe incostituzionale”.

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