il manifesto
| Autore:
Claudio Gnesutta
Il viceministro dell’economia Stefano
Fassina si è impegnato a convocare i promotori delle proposte di legge
sul reddito minimo, agitando però lo spauracchio degli alti costi
dell’operazione. Ma 30 miliardi rappresentano meno del 4% delle entrate e
delle spese del bilancio pubblico e, se vi fosse la volontà politica,
si potrebbe trovare uno spazio per questa voce all’interno del bilancio
pubblico Alle proposte di legge sul reddito minimo di Sel e del Pd già
giacenti alle Camere si è da poco aggiunta anche quella del Movimento 5
Stelle.
L’iniziativa a suo tempo avviata con la proposta di legge di iniziativa popolare sostenuta da 170 associazioni, e accompagnata da oltre 50mila firme, per dotare l’Italia di un sistema di contrasto alla povertà sembra aver trovato un’adeguata base parlamentare tale da far ritenere che finalmente un tema così importante possa essere oggetto di un vero confronto politico. A una prima analisi, le tre proposte di legge non sembrano presentare difformità tali da impedire una convergenza su un testo comune che rafforzerebbe indubbiamente la discussione in Parlamento seppur con una maggioranza diversa da quella delle grandi intese. L’aspettativa che su questo terreno si possa raggiungere un risultato positivo è rafforzata dall’attenzione che alcuni ministri di questo governo esprimono nei confronti del problema. È noto che il ministro del Lavoro Enrico Giovannini è autore del progetto Sia (sostegno di integrazione attiva), così come il viceministro dell’Economia Stefano Fassina si è impegnato (cfr. il manifesto , 15.11.2013) a convocare i promotori delle leggi sul reddito e le forze sociali interessate per verificare la possibilità di avviare una sperimentazione al riguardo, partendo eventualmente dalla maggiori città italiane. In una situazione di grandi difficoltà sociali per la crescita della disoccupazione, inoccupazione e precarietà del lavoro, anche solo l’intenzione di affrontare il problema non può che essere il segno lungamente atteso di una diversa ottica con la quale affrontare la crisi in atto. Nel contare sui possibili sviluppi positivi di una tale discussione, mi sembra necessario formulare almeno due considerazioni che traggo dal dibattito sul reddito di cittadinanza svoltosi su questo sito e riprodotto nel nostro e-book Sbilibro 9: «Come minimo. Un reddito di base per la piena occupazione».
La prima riguarda il fatto che le proposte di legge depositate in parlamento non si configurano come un reddito di cittadinanza poiché non ne hanno il carattere universalistico e incondizionato, ma si presentano come un reddito di base avente per obiettivo il sostegno delle persone in condizioni di povertà, sia assoluta che relativa. Con questo non si intende sminuire l’importanza di un’iniziativa la cui urgenza è testimoniata dalla gravità delle condizioni di disagio economico e sociale che, come ci dice l’Istat, interessano ormai quasi un quarto della nostra popolazione. Si vuole invece sostenere che, partendo da una proposta di reddito di base rivolta al contrasto della povertà, si dovrebbe cogliere l’occasione per definire esplicitamente un reddito (nella cifra che potrà essere stabilita) che abbia carattere generale di «norma sociale», unica e uniforme, sul reddito minimo che deve essere garantito per l’esistenza di qualsiasi cittadino. Con l’implicazione che questo livello minimo deve costituire la base di ogni altro sussidio (pensioni sociali, minimi pensionistici, sussidio di disoccupazione ecc.), sia esso collegato o meno al mercato del lavoro. Anche le cifre indicate per finanziare questo tipo di intervento (i 30 miliardi indicati) da Fassina non sembrano tali da giustificare le asserite difficoltà finanziarie per la sua copertura, soprattutto se si tiene conto che sarebbero compensati per almeno un terzo dal riassorbimento delle risorse che attualmente lo Stato eroga tramite trasferimenti o ammortizzatori sociali. In effetti, pur apparendo una cifra elevata in termini «assoluti, rappresentano meno del 4% delle entrate e delle spese del bilancio pubblico e, se vi fosse la volontà politica, non dovrebbe essere difficile trovare per questa voce, in tempi ragionevolmente contenuti, uno spazio strutturalmente definito all’interno del bilancio pubblico. Ed è bene che su questo il confronto cominci.
La seconda considerazione si riferisce a un aspetto ben più complesso e serio. È ben presente in tutte le proposte di legge, anche in quella del Movimento 5 Stelle (art. 1, 3c.), che l’obiettivo di un reddito di cittadinanza è quello di creare lavoro in modo che a ogni individuo, sottratto a una situazione di precarietà, sia salvaguardata la dignità. Ma questo obiettivo si scontra nei fatti con un mercato del lavoro altamente problematico. La precarietà del mercato del lavoro preesiste alle politiche di austerità anche se da queste ne è stata aggravata. Sebbene già così la situazione è preoccupante, non va sottaciuto che l’aspetto ancor più allarmante è che le attuali tendenze dello sviluppo tecnologico non garantiscono, né nel breve né nel più lungo periodo, una crescita della produzione tale da garantire una ripresa dell’occupazione dagli attuali livelli insoddisfacenti. La prospettiva che nei prossimi decenni dobbiamo attenderci un eccesso strutturale di offerta di lavoro e quindi una permanente pressione nei rapporti di lavoro che inevitabilmente porterà a una maggiore e istituzionalizzata precarizzazione a livello sia del reddito che dei diritti. Di fronte a siffatta previsione di medio-lungo periodo, non si può non osservare che, in presenza di una domanda di lavoro strutturalmente carente, non è possibile pensare al reddito di base come strumento per risolvere il problema dell’occupazione; le condizioni poste per favorire la formazione, per organizzarla attraverso i centri per l’occupazione, per stimolarlo con le varie procedure di workfare può migliorare probabilmente la qualità del lavoro del singolo, ma incide molto poco sull’occupazione in termini aggregati.
Di fronte a questo grave problema sociale, la via da perseguire è la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, la redistribuzione del lavoro tra occupati e inattivi. La proposta, avanzata in conclusione del dibattito sul sito di Sbilanciamoci , è centrata sull’utilizzo, generalizzato a tutte le fasce precarie sia giovani che adulte, di un reddito di base come integrazione del reddito del lavoratore a orario ridotto; un’integrazione che assicura un livelli adeguato di reddito del lavoratore a tempo ridotto senza che, d’altro canto, risulti appesantito il costo del lavoro per la singola impresa. Se la discussione su come strutturare un reddito di base per fronteggiare le situazioni di povertà dovesse risultare un primo stadio per la sua successiva estensione per contrastare la precarietà del lavoro, allora si potrebbe ben dire che gli orientamenti di politica economica si sono ben reindirizzati dalle esigenze dei rentier (come il dibattito sull’Imu ha reso esplicito) alle esigenze ben più diffuse e fondamentali di chi produce con il suo lavoro. E non sarebbe poco.
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