Solo il 7 per cento delle vittime denuncia. Eppure esistono modelli che funzionano e strumenti per garantire protezione a chi vive nella paura. Strumenti che, dove vengono usati con rigore, stanno portando a risultati inaspettati. Viaggio tra le italiane che dicono basta.
«Sono andata in ospedale, ho
detto che era stato mio marito a picchiarmi. Ma non l’ho denunciato.
Perché volevo tornare a casa. Ero convinta di essere io a sbagliare. Lui
me lo diceva sempre: “Se a me prendono i nervi è colpa tua!”». Oriana
ha quarant’anni e due figli: quando si è presentata al pronto soccorso
mostrava i segni delle botte. Eppure non ha avuto la forza di accusare
l’uomo che l’aveva malmenata. E come lei si comporta il 93 per cento delle donne che in Italia subiscono violenze: non denunciano.
Gli schiaffi, gli spintoni, le porte chiuse a chiave, i lividi, le
urla: rimane tutto soffocato nelle mura domestiche. Nascosto. Come se
fosse normale. E non si tratta di eccezioni: succede in quasi una famiglia su tre.
Ma negli ultimi anni qualcosa è cambiato. Due nuove leggi hanno dato a
magistrati e polizia strumenti più efficaci per intervenire con urgenza.
Misure che, dove vengono applicate con rigore, stanno portando a
risultati inaspettati. Ogni mese centinaia di vittime si rivolgono ai
centri anti-violenza. E anche in Italia sono arrivate le strutture dove si curano gli uomini che alzano le mani. Per la prima volta, le denunce aumentano. Ma tutto questo ancora non basta a cancellare il silenzio. Lo spiega una ricerca europea appena pubblicata da “Il Mulino” (
“Se le donne chiedono giustizia”, Bologna 2013
).
Perché a farle desistere dal raccontare le botte, le prevaricazioni, le
torture quotidiane, non è soltanto la paura; e non è solamente il peso
del denunciare un compagno, un ex, un conoscente, quali sono la maggior
parte degli autori di violenze. Pesa anche la consapevolezza di una
risposta inefficace da parte delle istituzioni. Così, mentre gli omicidi
totali in Italia continuano a diminuire (oggi sono un quarto rispetto a
un ventennio fa), gli assassinii di donne restano costanti.
Per loro nulla è cambiato: 160 ne sono state uccise nel 2012. Una ogni
due giorni: quasi le stesse vittime del 1992, perché non si è fatto
abbastanza per fermare la strage. E sì che gli esempi da seguire, i
modelli che funzionano, esistono. Anche da noi.
DARE UN NOME AL MOSTRO In un piccolo ufficio nel dipartimento di Medicina Legale all’Università di Verona si incontrano ogni giorno sei ricercatori. Il loro obiettivo è mettere attorno allo stesso tavolo forze dell’ordine, medici, giudici e avvocati, perché affrontino insieme “l’epidemia”, come Guido Papalia, procuratore generale di Brescia ora in pensione, definisce gli abusi in famiglia. Anche lui, da anni, collabora con l’ Osservatorio nazionale sulla violenza domestica , un centro operativo creato nel 2007 dalla professoressa Marina Bacciconi, che spiega: «Aggregando i dati di ospedali, questure e tribunali abbiamo raccolto informazioni su oltre diecimila vittime solo in Veneto e in provincia di Brescia».
Questi numeri sono serviti a convincere sindaci, prefetti, primari e dirigenti di Polizia che era necessario trovare soluzioni sistematiche, non emergenziali: serviva un metodo nuovo. I risultati sono arrivati: «In sette anni le denunce sono raddoppiate». Come? Grazie, ad esempio, alla formazione dei medici del pronto soccorso. «Aiutiamo loro a riconoscere i lividi. A fare le domande giuste. Ad ascoltare le vittime». Le pazienti in questo modo «si accorgono che di fronte hanno qualcuno disposto ad andare fino in fondo e non accontentarsi delle scuse», anche perché, insiste la fondatrice dell’Osservatorio, «i medici devono ricordarsi che sono pubblici ufficiali: hanno il dovere di segnalare le violenze ai magistrati». Task force di questo tipo sono poche, ma esistono: a Milano c’è la storica esperienza del Soccorso violenza sessuale e domestica della Clinica Mangiagalli; a Grosseto il Codice Rosa, esteso a tutta la Toscana, che ha introdotto spazi riservati alle vittime.
DITEGLI DI SMETTERE Ma cosa chiedono le donne alle istituzioni? «Mi aspettavo che qualcuno mi aiutasse ad essere lasciata in pace». Francesca ha 47 anni, due figlie, un lavoro. Alla polizia ha chiesto solo una cosa: che fermasse gli abusi. «Le denunce penali non sono sempre lo strumento adatto per affrontare le violenze», spiega Giuditta Creazzo, curatrice di Se le donne chiedono giustizia, una lunga ricerca finanziata dall’Unione europea e coordinata dall’ Istituto Carlo Cattaneo di Bologna : «Le vittime si rivolgono alle forze dell’ordine per avere innanzitutto protezione. Hanno bisogno di risposte concrete, tempestive». La speranza che si arrivi a condanne e pene adeguate c’è, ma è in secondo piano rispetto all’urgenza di sicurezza. Le donne, all’inizio, non chiedono altro che pace: non far più vedere ai figli i pugni, le liti, le lacrime. Non subire più torture. Per garantire la protezione di cui hanno bisogno esiste dal 2001 “l’ordine di allontanamento”, un’imposizione ad andarsene da casa che può essere sia civile che penale, e dal 2009 c’è anche “l’ammonimento”, un cartellino giallo che lo stesso questore può assegnare a chi ha comportamenti violenti: se i soprusi continuano scatta l’arresto.
Nel 2012 sono stati ammoniti quasi mille uomini. Più di 2mila hanno ricevuto il divieto di avvicinarsi alla compagna. «Secondo il ministero dell’Interno l’80 per cento degli ammonimenti viene rispettato», spiega Anna Costanza Baldry, responsabile dello sportello anti-stalking Astra di Roma : «Questo dimostra che le sanzioni amministrative possono essere efficaci». Per chi rischia di perdere una vita sociale il solo avvertimento può bastare a fermare le mani. Ma è uno strumento che va applicato calcolando ogni rischio: «Le vittime hanno paura. Una paura che solo chi l’ha vissuta può capire», continua Baldry: «Ci chiedono sempre: “Non è che io lo denuncio e poi peggiora?”. Per questo valutiamo insieme tutte le conseguenze che un intervento potrebbe causare prima di consigliarlo. Partendo sempre, se non è a rischio la vita, da quello meno pesante per il nucleo familiare».
MILANO DA SEGUIRE Ordini e sanzioni vanno poi fatti rispettare. «È fondamentale avere un rapporto di fiducia con le vittime», spiega Patrizia Peroni, responsabile della quarta sezione della squadra mobile di Milano: «Sono loro a segnalarci subito se l’uomo torna a casa, se è minaccioso, se c’è una lite». Per costruire questa fiducia la questura milanese lavora da anni con le associazioni: se c’è un’emergenza si trova subito un posto libero in una casa-rifugio, i poliziotti seguono corsi di formazione, le valutazioni sui rischi che le donne corrono a rimanere a casa sono rigide e seguono canoni precisi.
Ogni volta che una pattuglia esce per un’urgenza, chiamata dai vicini o dalla vittima, l’intervento viene memorizzato in un database: «In questo modo ricostruiamo una storia, conosciamo la situazione della famiglia», continua il vicequestore Peroni: «E lesioni anche lievi come uno schiaffo possono assumere il loro vero significato: quello di violenza domestica. Così anche se la vittima non se la sente di denunciare, noi sappiamo cos’è successo. Siamo pronti ad agire nel modo migliore e a segnalare il problema alla magistratura, dimostrando che si tratta di maltrattamenti frequenti: un reato che non richiede querela». In tutta Italia, nel 2012, sono stati segnalati 9900 casi di maltrattamenti familiari: il 10 per cento in più del 2008.
SUPERARE LA PAURA I sentimenti che trattengono una donna dal raccontare i soprusi, o che la convincono a non accettarli più, sono diversi. Gabriella, ad esempio, ha detto “basta” dopo 40 anni di matrimonio: «Io non l’ho fatto per avere giustizia», ha raccontato ai ricercatori dell’Istituto Cattaneo: «Ma per una questione di principio. Lui continuava a non accorgersi del male che mi infliggeva. Ha sempre negato tutto. Come se io non esistessi. Come se io fossi un animale. Così un giorno mi sono messa lì e ho scritto la denuncia tutta d’un fiato».
Qualunque siano le motivazioni, a cercare l’aiuto delle istituzioni sono sempre loro, le vittime. Negli oltre 500 fascicoli giudiziari analizzati dalla fondazione bolognese solo il 10 per cento delle denunce arrivava da medici o forze dell’ordine. Zero dai familiari. Bisognerebbe essere più attenti, dicono gli esperti, pronti a riconoscere i soprusi. E i nuovi metodi di tutela vanno diffusi anche fuori da questure ed ospedali. Ci sta provando Gucci, portando in Italia l’esperienza della casa madre francese, Kering: con D.i.Re - una rete che raggruppa 65 centri anti violenza - verranno organizzati corsi di formazione per i 3 mila dipendenti della maison. In Francia li hanno già seguiti 30 mila collaboratori: «Sono esperienze utili, non di facciata», sostiene Titti Carrano, presidente di D.i.Re : «Le vittime vivono in uno stato di isolamento: non parlano, non si confrontano all’esterno. L’ambiente di lavoro è fondamentale per spingerle a reagire».
UOMINI CHE CAMBIANO Per combattere gli abusi è necessario intervenire anche sugli uomini, per prevenire soprattutto il desiderio di vendetta che porta ai gesti più gravi, dopo una separazione o l’uscita dal carcere. Le strutture esistono. E funzionano. In Inghilterra o negli Stati Uniti, dove sono attive da tempo, stanno dando risultati importanti: otto maschi su dieci smettono di avere comportamenti violenti se seguono la terapia dall’inizio alla fine. «Il percorso dura circa un anno», racconta Mario De Maglie, coordinatore del Centro di ascolto per maltrattanti di Firenze , la prima struttura di questo tipo nata in Italia quattro anni fa: «Gli abusi fisici cessano di solito dopo i primi colloqui. Ma il percorso è lungo: devono capire che la violenza è una scelta, una loro responsabilità». Nel 2009 al centro di Firenze si sono rivolti 22 uomini. L’anno scorso 212. E strutture simili si stanno attivando in tutta Italia.
SENTENZE FUORI TEMPO La più lenta a cambiare è la giustizia. In alcune procure esistono pool specializzati ma nella maggior parte d’Italia l’argomento è ancora tabù. Le donne restano così bloccate in processi lunghissimi, con misure di protezione che arrivano in ritardo, costrette a sopportare udienze nelle quali devono sembrare credibili: «Se la donna è lucida, con degli obiettivi concreti, come ottenere un risarcimento, è sospettata di essere un’approfittatrice. Se si presenta instabile, tentenna o fatica a raccontare, non è efficace», analizza la ricercatrice Giuditta Creazzo: «Nella mente dei giudici c’è una “vittima ideale” che non può esistere nella realtà. I magistrati dovrebbero imparare invece a riconoscere i tanti volti di chi ha subito un evento traumatico». Come mostrano le statistiche però le inchieste giudiziarie per violenze domestiche in Italia non si fanno, se non con il contagocce: tutto il processo finisce così per fondarsi sulla querela della vittima. Se lei cede, l’accusa cade: e le mogli ritirano la denuncia in più della metà dei casi. Così gli autori restano impuniti.
SENZA RIGUARDI. «Io sto raccontando le volenze subite. E il poliziotto, masticando una cicca, guarda fuori dalla finestra. Dice: “Un attimo signora”, e risponde al cellulare, parla di dove trovarsi la sera. A un certo punto mi fa: “Ma a lei, ma a lei poi le piaceva oppure no?”». Ecco: quello su cui insistono gli esperti che “l’Espresso” ha incontrato è che le cure funzionano, le denunce aumentano, solo quando le istituzioni hanno un atteggiamento all’altezza dei problemi. Solo se è chiaro che non si tratta di schermaglie da risolvere con la mediazione, ma di reati.
DARE UN NOME AL MOSTRO In un piccolo ufficio nel dipartimento di Medicina Legale all’Università di Verona si incontrano ogni giorno sei ricercatori. Il loro obiettivo è mettere attorno allo stesso tavolo forze dell’ordine, medici, giudici e avvocati, perché affrontino insieme “l’epidemia”, come Guido Papalia, procuratore generale di Brescia ora in pensione, definisce gli abusi in famiglia. Anche lui, da anni, collabora con l’ Osservatorio nazionale sulla violenza domestica , un centro operativo creato nel 2007 dalla professoressa Marina Bacciconi, che spiega: «Aggregando i dati di ospedali, questure e tribunali abbiamo raccolto informazioni su oltre diecimila vittime solo in Veneto e in provincia di Brescia».
Questi numeri sono serviti a convincere sindaci, prefetti, primari e dirigenti di Polizia che era necessario trovare soluzioni sistematiche, non emergenziali: serviva un metodo nuovo. I risultati sono arrivati: «In sette anni le denunce sono raddoppiate». Come? Grazie, ad esempio, alla formazione dei medici del pronto soccorso. «Aiutiamo loro a riconoscere i lividi. A fare le domande giuste. Ad ascoltare le vittime». Le pazienti in questo modo «si accorgono che di fronte hanno qualcuno disposto ad andare fino in fondo e non accontentarsi delle scuse», anche perché, insiste la fondatrice dell’Osservatorio, «i medici devono ricordarsi che sono pubblici ufficiali: hanno il dovere di segnalare le violenze ai magistrati». Task force di questo tipo sono poche, ma esistono: a Milano c’è la storica esperienza del Soccorso violenza sessuale e domestica della Clinica Mangiagalli; a Grosseto il Codice Rosa, esteso a tutta la Toscana, che ha introdotto spazi riservati alle vittime.
DITEGLI DI SMETTERE Ma cosa chiedono le donne alle istituzioni? «Mi aspettavo che qualcuno mi aiutasse ad essere lasciata in pace». Francesca ha 47 anni, due figlie, un lavoro. Alla polizia ha chiesto solo una cosa: che fermasse gli abusi. «Le denunce penali non sono sempre lo strumento adatto per affrontare le violenze», spiega Giuditta Creazzo, curatrice di Se le donne chiedono giustizia, una lunga ricerca finanziata dall’Unione europea e coordinata dall’ Istituto Carlo Cattaneo di Bologna : «Le vittime si rivolgono alle forze dell’ordine per avere innanzitutto protezione. Hanno bisogno di risposte concrete, tempestive». La speranza che si arrivi a condanne e pene adeguate c’è, ma è in secondo piano rispetto all’urgenza di sicurezza. Le donne, all’inizio, non chiedono altro che pace: non far più vedere ai figli i pugni, le liti, le lacrime. Non subire più torture. Per garantire la protezione di cui hanno bisogno esiste dal 2001 “l’ordine di allontanamento”, un’imposizione ad andarsene da casa che può essere sia civile che penale, e dal 2009 c’è anche “l’ammonimento”, un cartellino giallo che lo stesso questore può assegnare a chi ha comportamenti violenti: se i soprusi continuano scatta l’arresto.
Nel 2012 sono stati ammoniti quasi mille uomini. Più di 2mila hanno ricevuto il divieto di avvicinarsi alla compagna. «Secondo il ministero dell’Interno l’80 per cento degli ammonimenti viene rispettato», spiega Anna Costanza Baldry, responsabile dello sportello anti-stalking Astra di Roma : «Questo dimostra che le sanzioni amministrative possono essere efficaci». Per chi rischia di perdere una vita sociale il solo avvertimento può bastare a fermare le mani. Ma è uno strumento che va applicato calcolando ogni rischio: «Le vittime hanno paura. Una paura che solo chi l’ha vissuta può capire», continua Baldry: «Ci chiedono sempre: “Non è che io lo denuncio e poi peggiora?”. Per questo valutiamo insieme tutte le conseguenze che un intervento potrebbe causare prima di consigliarlo. Partendo sempre, se non è a rischio la vita, da quello meno pesante per il nucleo familiare».
MILANO DA SEGUIRE Ordini e sanzioni vanno poi fatti rispettare. «È fondamentale avere un rapporto di fiducia con le vittime», spiega Patrizia Peroni, responsabile della quarta sezione della squadra mobile di Milano: «Sono loro a segnalarci subito se l’uomo torna a casa, se è minaccioso, se c’è una lite». Per costruire questa fiducia la questura milanese lavora da anni con le associazioni: se c’è un’emergenza si trova subito un posto libero in una casa-rifugio, i poliziotti seguono corsi di formazione, le valutazioni sui rischi che le donne corrono a rimanere a casa sono rigide e seguono canoni precisi.
Ogni volta che una pattuglia esce per un’urgenza, chiamata dai vicini o dalla vittima, l’intervento viene memorizzato in un database: «In questo modo ricostruiamo una storia, conosciamo la situazione della famiglia», continua il vicequestore Peroni: «E lesioni anche lievi come uno schiaffo possono assumere il loro vero significato: quello di violenza domestica. Così anche se la vittima non se la sente di denunciare, noi sappiamo cos’è successo. Siamo pronti ad agire nel modo migliore e a segnalare il problema alla magistratura, dimostrando che si tratta di maltrattamenti frequenti: un reato che non richiede querela». In tutta Italia, nel 2012, sono stati segnalati 9900 casi di maltrattamenti familiari: il 10 per cento in più del 2008.
SUPERARE LA PAURA I sentimenti che trattengono una donna dal raccontare i soprusi, o che la convincono a non accettarli più, sono diversi. Gabriella, ad esempio, ha detto “basta” dopo 40 anni di matrimonio: «Io non l’ho fatto per avere giustizia», ha raccontato ai ricercatori dell’Istituto Cattaneo: «Ma per una questione di principio. Lui continuava a non accorgersi del male che mi infliggeva. Ha sempre negato tutto. Come se io non esistessi. Come se io fossi un animale. Così un giorno mi sono messa lì e ho scritto la denuncia tutta d’un fiato».
Qualunque siano le motivazioni, a cercare l’aiuto delle istituzioni sono sempre loro, le vittime. Negli oltre 500 fascicoli giudiziari analizzati dalla fondazione bolognese solo il 10 per cento delle denunce arrivava da medici o forze dell’ordine. Zero dai familiari. Bisognerebbe essere più attenti, dicono gli esperti, pronti a riconoscere i soprusi. E i nuovi metodi di tutela vanno diffusi anche fuori da questure ed ospedali. Ci sta provando Gucci, portando in Italia l’esperienza della casa madre francese, Kering: con D.i.Re - una rete che raggruppa 65 centri anti violenza - verranno organizzati corsi di formazione per i 3 mila dipendenti della maison. In Francia li hanno già seguiti 30 mila collaboratori: «Sono esperienze utili, non di facciata», sostiene Titti Carrano, presidente di D.i.Re : «Le vittime vivono in uno stato di isolamento: non parlano, non si confrontano all’esterno. L’ambiente di lavoro è fondamentale per spingerle a reagire».
UOMINI CHE CAMBIANO Per combattere gli abusi è necessario intervenire anche sugli uomini, per prevenire soprattutto il desiderio di vendetta che porta ai gesti più gravi, dopo una separazione o l’uscita dal carcere. Le strutture esistono. E funzionano. In Inghilterra o negli Stati Uniti, dove sono attive da tempo, stanno dando risultati importanti: otto maschi su dieci smettono di avere comportamenti violenti se seguono la terapia dall’inizio alla fine. «Il percorso dura circa un anno», racconta Mario De Maglie, coordinatore del Centro di ascolto per maltrattanti di Firenze , la prima struttura di questo tipo nata in Italia quattro anni fa: «Gli abusi fisici cessano di solito dopo i primi colloqui. Ma il percorso è lungo: devono capire che la violenza è una scelta, una loro responsabilità». Nel 2009 al centro di Firenze si sono rivolti 22 uomini. L’anno scorso 212. E strutture simili si stanno attivando in tutta Italia.
SENTENZE FUORI TEMPO La più lenta a cambiare è la giustizia. In alcune procure esistono pool specializzati ma nella maggior parte d’Italia l’argomento è ancora tabù. Le donne restano così bloccate in processi lunghissimi, con misure di protezione che arrivano in ritardo, costrette a sopportare udienze nelle quali devono sembrare credibili: «Se la donna è lucida, con degli obiettivi concreti, come ottenere un risarcimento, è sospettata di essere un’approfittatrice. Se si presenta instabile, tentenna o fatica a raccontare, non è efficace», analizza la ricercatrice Giuditta Creazzo: «Nella mente dei giudici c’è una “vittima ideale” che non può esistere nella realtà. I magistrati dovrebbero imparare invece a riconoscere i tanti volti di chi ha subito un evento traumatico». Come mostrano le statistiche però le inchieste giudiziarie per violenze domestiche in Italia non si fanno, se non con il contagocce: tutto il processo finisce così per fondarsi sulla querela della vittima. Se lei cede, l’accusa cade: e le mogli ritirano la denuncia in più della metà dei casi. Così gli autori restano impuniti.
SENZA RIGUARDI. «Io sto raccontando le volenze subite. E il poliziotto, masticando una cicca, guarda fuori dalla finestra. Dice: “Un attimo signora”, e risponde al cellulare, parla di dove trovarsi la sera. A un certo punto mi fa: “Ma a lei, ma a lei poi le piaceva oppure no?”». Ecco: quello su cui insistono gli esperti che “l’Espresso” ha incontrato è che le cure funzionano, le denunce aumentano, solo quando le istituzioni hanno un atteggiamento all’altezza dei problemi. Solo se è chiaro che non si tratta di schermaglie da risolvere con la mediazione, ma di reati.
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