Non basta dire no ai populisti.
A.Panebianco corriere.it
Nelle capitali europee è oggi allarme rosso: molti partiti
antieuropeisti, secondo i sondaggi, potrebbero trionfare nelle prossime
elezioni europee. In Francia, in Gran Bretagna, in Olanda, ma forse
anche in Italia, in Austria e in altri Paesi ancora, gli antieuropeisti
potrebbero ottenere più consensi dei partiti tradizionali. Il presidente
del Consiglio Enrico Letta ha dato voce, nei giorni scorsi, alle
preoccupazioni condivise da tutti i capi di governo. È probabile dunque
che il prossimo Parlamento europeo sia fortemente connotato in senso
antieuropeista. Bisognerà però fare la tara ai risultati, bisognerà
ricordare che se quei successi ci saranno, si dovranno in larga misura
alla astensione dei votanti che, normalmente, sostengono i partiti
tradizionali. Bisognerà ricordare che quelle europee sono elezioni sui
generis nelle quali manca la posta presente nelle altre elezioni,
nazionali o locali: non si vota per influenzare la composizione del
governo.
Ciò spiega quanto tradizionalmente accade
nelle elezioni per il Parlamento europeo: gli altissimi tassi di
astensione, e il fatto che chi va a votare lo faccia, molto spesso, più
per tirare uno schiaffo al proprio governo nazionale che per un vero
interesse per le questioni europee. Non bisognerà insomma commettere
l’errore di vedere nei risultati delle consultazioni europee
un’anticipazione di quanto in seguito accadrà nelle diverse elezioni
nazionali. Fatta la tara, però, resta che una «grande abbuffata »
antieuropeista è dietro l’angolo, attende di manifestarsi nelle europee
di primavera. E resta il fatto che questa volta, gli strali avranno come
bersaglio l’Unione più che i rispettivi governi nazionali (come invece
accadeva in passato).
L’Europa è vittima del suo successo:
poiché l’integrazione è andata molto avanti si è anche «politicizzata»,
è una questione che ora divide i cittadini dei Paesi membri.
Naturalmente, il previsto forte successo degli antieuropeisti avrà
conseguenze: obbligherà i partiti tradizionali, e i governi, a tenerne
conto. Il modo in cui ne terranno conto inciderà sulle sorti del
Continente negli anni a venire. La prima cosa da evitare sarà la
criminalizzazione dei cittadini che voteranno contro l’Europa: gli
elettori, in democrazia, non hanno mai torto. Il torto è sempre di
coloro, le élite politiche, che non li hanno convinti delle loro buone
ragioni (ammesso che avessero buone ragioni). Bisognerà anche evitare di
esorcizzare l’ondata antieuropeista usando sciocchi e logori termini
passepartout (che non spiegano nulla) come il termine «populista ».
Questi partiti sono contro le élite esistenti?
Certo che lo sono. Tutti i nuovi partiti, da quando esiste la
democrazia, sono, per definizione, contro le élite esistenti.
Altrimenti, come farebbero a calamitare consensi e ad affermarsi?
Soprattutto, bisognerà riconoscere che la responsabilità dell’ondata
antieuropeista ricade interamente sulle spalle di quelle élite che con
le loro politiche e i loro errori l’hanno provocata. L’Unione Europea va
ripensata. Bisogna prendere atto che le divisioni che l’attraversano
sono ormai troppo profonde e che l’unico modo per non esasperarle
ulteriormente è cambiare registro. È inutile, e controproducente,
continuare a spendere vuota retorica a favore di una ipotesi di super
Stato — gli Stati Uniti d’Europa — che probabilmente non nascerà mai e
che, comunque, in questa fase storica, non interessa alla maggioranza
degli europei.
Tanto vale ridefinire la
direzione di marcia e piegare le istituzioni verso una più realistica e
fattibile soluzione «con- federale» (le confederazioni, a differenza
degli Stati federali, sono state assai frequenti nella storia umana).
Ciò significa accettare che gli Stati europei man- tengano il controllo
su quasi tutto tran- ne che su poche cose essenziali, le quali devono
ricadere sotto l’autorità degli organi confederali. Occorre stipulare un
nuovo «patto europeo», di netta im- pronta confederale. È assurdo, ad
esempio, che non esista una vera politica europea per l’immigrazione
(una materia questa sì vitale) mentre, in compenso, da decenni, si
rompono le scatole ai cit- tadini dell’Unione sfornando infiniti
regolamenti su questioni inessenziali e sulle quali gli unici titolati a
metter becco dovrebbero essere gli Stati nazionali e i governi locali.
Una soluzione confederale è compatibile con la moneta unica? Forse sì e
forse no. Ma chi vuole mettere in sicurezza l’euro (e bisognerebbe fare
il possibile per metterlo in sicurezza) ha l’onere di individuare
soluzioni realisti- che, accettabili per i diversi Stati nazionali,
rinunciando alle solite fughe in avanti, rinunciando a perorare l’idea
di un impossibile Stato sovranazionale.
Forse, il vero salvataggio dell’Unione
verrà alla fine dall’accordo per il libero scambio con gli Stati Uniti.
Se oggi il più grave problema europeo, che alimenta tanta parte
dell’antieuropeismo, è quel- lo di una Germania troppo potente
economicamente (e quindi politicamente) perché gli altri, a torto o a
ragione, non se ne risentano, diluire quella potenza entro una più vasta
area economica integrata potrebbe alleviare, col tempo, le difficoltà.
Può essere che l’ondata antieuropei- sta colpisca a morte l’Unione. Ma
può anche essere che si tratti di una sfida sa- lutare. Le stanche élite
europeiste potrebbero trovare la forza, il coraggio e l’immaginazione
per fare i cambiamenti in grado di riconciliare gli europei con
l’Europa.
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