Abbiamo aspettato la crescita come un Messia salvatore sotto forma di prodotti, di vendite, di profitti, di lavoro che torna, una terra promessa per la quale bastano alcune leggi, alcune sagge mosse di governo, alcuni sacrifici, magari duri ma necessari, che ti traghettano sulla parte salva del mondo.
Su una sponda la corsa della
civiltà lascerà indietro i neghittosi di un mondo antico e obsoleto che
vogliono garanzie prima di dare. Sull’altra il mondo orgoglioso del
nuovo profitto e del nuovo reddito, dove ognuno è protettore di se
stesso, dunque affidabile.
Chiaro? C’è qualche dubbio. “In tutti
i casi la ricetta economica che ne discende è brutale: per avere
crescita occorre più disuguaglianza, perché solo più disuguaglianza è in
grado di imprimere il necessario dinamismo alla società (…) Tutto ciò
spiega perché la parola eguaglianza – che pure figura, insieme a libertà
e a fraternità tra le categorie chiave della modernità – sia caduta
così in disuso nel lessico contemporaneo, compreso quello della
sinistra”.Sto citando l’introduzione di Laura Pennacchi (economista e già sottosegretaria al Tesoro nel primo governo Prodi) a “Globalizzazione”, di Joseph Stiglitz (Donzelli Editore) e all’implacabile processo di questo Nobel (che continua e si sviluppa ne “Il prezzo della disuguaglianza”, Einaudi) e del Nobel Paul Krugman (tutti i giorni sul New York Times) contro la prevalente politica di punizione economica ai poveri e agli ultimi lavoratori. Il libro ci porta ai due mondi che si fronteggiano: “Uno sostiene che per combattere la disuguaglianza e la povertà l’arma esclusiva è la crescita economica, non la redistribuzione del reddito (…) L’altro considera la crescita necessaria ma insufficiente a contrastare povertà e disuguaglianza in assenza di un cambiamento dei modelli di crescita e di una consapevole ridistribuzione del reddito, e quindi di sistemi adeguati di sicurezza sociale”.
Ecco allora schierati tutti i protagonisti del drammatico momento che stiamo vivendo. Il meno discusso dei protagonisti del dramma è la crescita. “Ammettiamo che il suo piano funzioni. Dove metterà tutte quelle auto?” ha chiesto un analista finanziario a Gianni Agnelli durante un incontro a Wall Street negli anni Settanta. “Dove le metterebbero i miei concorrenti”, ha risposto l’Avvocato, meritandosi l’applauso di una folla di competenti. E confidava: “Non puoi dire ‘decrescita’. È una parola contro natura”. La frase è fondata. I bambini crescono, gli animali crescono, la natura cresce. Tutto il resto (prima il mondo del possesso di terra, poi quella della produzione e possesso e consumo di oggetti) è artificio dell’uomo ma segue il modello della natura, che è anche quello dell’immaginazione, della fantasia, del desiderio, anche se la necessità (la domanda) è sempre più forzata.
Di tutte le parole e i concetti in gioco, questo (crescita, quale crescita) risulterà alla fine il punto alto o il punto di caduta di tutto il dibattito. In apparenza, come spiega Amartya Sen, siamo in presenza di un primo e secondo tempo. Nel primo c’è il duro dibattito sull’eguaglianza che vede pochissimi grandi studiosi dell’economia schierati contro il pensiero comune, ovvero una destra che ha inglobato la sinistra (per poi sbandierare l’idea che “non c’è più differenza”). Il pensiero comune vuole “grandi sacrifici” quasi completamente a carico del lavoro, del reddito fisso e dei senza lavoro, e una forte remunerazione ai più forti che si prenderanno l’impegno di trainare il carro fuori dal pantano. “Non è accaduto, perché dovrebbe accadere adesso, quando deregolamentazione e finanza globalizzata, praticamente non rintracciabile, non hanno alcuna ragione di autodenunciare il proprio immenso vantaggio?” si domandano i Nobel Krugman, Stiglitz e Sen. È nella fossa di questa contraddizione che si è incastrato il mito della crescita. Persino chi ci crede poco non riesce a visualizzare o anche solo a concepire come mito e ideale, la “decrescita”. Prima cosa, la senti come una perdita. La contraddizione è dirompente e ovvia: milioni di nuove auto sono necessarie per mettere o rimettere al lavoro milioni di lavoratori a tutti i livelli. Per milioni di nuove auto non c’è posto né per parcheggiare né per respirare. Eppure Marchionne, capo della Fiat, può ancora minacciare “me ne vado, con tutta la mia produzione” e seminare il panico.
Qui ci accorgiamo che la frase, effimera e molto giovanilistica, che invocava “l’immaginazione al potere” non è così poeticamente priva di senso. È politica. È l’unica via d’uscita: immaginare un mondo bello e desiderabile, di giovani e per giovani, dove ogni lavoro e ogni impresa moltiplicano lo spazio invece di ridurlo, lo rendono più desiderabile e più pulito, lo sgomberano, con profitto, di scorie e veleni e accumuli che bloccano la vita. Attenzione, non è ambientalismo, nel senso cauto e negativo (questo no, questo no) della parola.
È crescita (mai chiamarla decrescita, è triste) nell’unico modo possibile. Manca solo una cosa: l’immaginazione. Se c’è, è lontanissima dal potere, vecchi e nuovi arrivati inclusi.
Il Fatto Quotidiano, 31 marzo 2013
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