Basterebbe così poco per mollare tutta quella retorica che fa della memoria un argomento soporifero, quelle modalità che sono orgoglio e vanto di accademici e docenti barbosi capaci solo di parlare a se stessi (mentre il pubblico in sala crolla sotto sferzate narcolettiche). Istituti storici della Resistenza, musei, associazioni, fondazioni così fiere di andare nelle scuole e così spoglie delle testimonianze dei ragazzi: riempiamo questi luoghi con i disegni dei bambini, lasciamo che i loro colori (che sono le nostre emozioni dimenticate) dipingano quella lettura che noi adulti siamo capaci solo per elogiare il nostro vanto “di saperla”. Scommettiamo tutto sui bambini o sarà una scommessa persa. E’ così difficile capirlo? C’è una poesia di Luigi Marchini, il partigiano “Dario”, che denuncia a quale sperpero del patrimonio d’identità eravamo già condannati da subito:
Vi chiedo perdono compagni, amici, fratelli
o come vi facevate chiamare.
Vi chiedo perdono per quello che io e
gli altri compagni partigiani non abbiamo saputo fare.
Non abbiamo saputo salvarvi dall’oltraggio
che la resistenza diventasse l’argomento resistenza;
che “studiosi” a posteriori scoprissero una resistenza
di fantasia che non era la vera, che
questa ricostruzione della resistenza
diventasse l’immagine comunicata
alle masse popolari, che le forze di
parte si impossessassero e gestissero il
vostro ricordo come uno strumento
qualsiasi di dibattito e di lotta.
Vi chiedo perdono compagni perchè
se oggi vi svegliaste, in nulla della
realtà italiana riconoscereste
i sogni e gli ideali in nome dei quali siete morti.
o come vi facevate chiamare.
Vi chiedo perdono per quello che io e
gli altri compagni partigiani non abbiamo saputo fare.
Non abbiamo saputo salvarvi dall’oltraggio
che la resistenza diventasse l’argomento resistenza;
che “studiosi” a posteriori scoprissero una resistenza
di fantasia che non era la vera, che
questa ricostruzione della resistenza
diventasse l’immagine comunicata
alle masse popolari, che le forze di
parte si impossessassero e gestissero il
vostro ricordo come uno strumento
qualsiasi di dibattito e di lotta.
Vi chiedo perdono compagni perchè
se oggi vi svegliaste, in nulla della
realtà italiana riconoscereste
i sogni e gli ideali in nome dei quali siete morti.
“Dario” l’ha scritta nel 1950. Oggi fioccano dibattiti, convegni, celebrazioni in cui è ricorrente il tema sui nuovi modi per comunicare la memoria. Buffo che a far lezione son gli stessi che non solo non sono in grado di applicare questi nuovi modi ma che di mestiere la sanno ma non la sanno trasmettere. Eppure basterebbe molto meno, basterebbe piegare le ginocchia per guardare negli occhi i nostri figli, come ha fatto Ivano Tajetti, amico dell’ANPI Barona di Milano, che descrive l’incontro di questi giorni “Sono 200 bambini di quinta elementare, dai quattro continenti, non è facile parlare a loro del significato della festa del 25 aprile… Così ho pensato di raccontargli una favola… C’era una volta un Italia nera, il cielo buio… non si vedevano le stelle, non c’era lavoro, non si poteva né giocare né studiare, la gente aveva fame, non esistevano diritti, solo doveri, si moriva per cercare LA LIBERTÀ’… ma tante donne e uomini non ne potevano più e allora prima con il pensiero poi con l’azione… sconfiggono il MALE… che si chiama fascismo, nazismo, razzismo. E tutti insieme con tutti i colori, i gialli, i rossi, i verdi, gli azzurri, con tanti sacrifici, con tanto dolore e anche purtroppo con il regalo del bene più prezioso, LA VITA… costruiscono l’arcobaleno, trovano la LIBERTÀ’, nel cielo si rivedono le stelle e si torna a sperare in un mondo migliore. Quel giorno di festa è stato e sempre sarà il 25 aprile”.
Se la memoria emoziona, c’è speranza per lei e per noi.
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