Oggi, se non si mette al centro di ogni ragionamento, discorso o iniziativa l’ampiezza, la profondità e la gravità della crisi che stiamo attraversando in Italia, in Europa e nel mondo, si rischia di essere assimilati alla “casta”, al mondo della politica così come ormai viene percepita dalla stragrande maggioranza della popolazione: un mondo che si occupa solo di se stesso e non delle sofferenze dei governati. E’ un rischio che già comincia a erodere il consenso raccolto dal movimento cinque stelle, che peraltro sembra culturalmente poco attrezzato per affrontare il tema in modo radicale.
Occupazione, redditi da lavoro diretti o differiti (pensioni e ammortizzatori sociali), welfare, scuola, ma anche buona parte dell’apparato produttivo e delle strutture amministrative del paese hanno raggiunto un punto di non ritorno. Ma nessuno arriva ad ammettere che ormai non c’è ripresa che possa far tornare le cose “come erano prima”.
L’esempio più calzante di questa irreversibilità lo si vede in ciò: in Italia la disoccupazione giovanile è al 40 per cento, in Grecia e in Spagna al 50; ma è eccezionalmente elevata quasi ovunque, senza contare la diffusione del precariato. E’ un segno evidente che l’assetto che il sistema economico ha assunto e consolidato nell’ultimo trentennio non è più in grado di offrire una prospettiva alle nuove generazioni. Questi giovani tra qualche anno saranno degli adulti, e in parte già lo sono; ma non per questo troveranno di meglio. E’ un’intera prospettiva di vita – casa, famiglia, figli; ma anche occasioni per far valere e riconoscere le proprie capacità – che si dissolve; e già ora essi sanno che li attendono una vita e una vecchiaia di miseria senza lavoro, senza pensione e senza reddito. Ma è anche un intero sistema produttivo che “si svuota” di capacità, di saperi, di saper-fare; e che emargina così una quota crescente e tendenzialmente maggioritaria della popolazione dal perimetro stesso di una “Repubblica fondata sul lavoro”.
Cogliere la dimensione soggettiva di questo disastro – la rabbia, lo scoramento, la depressione, o i cedimenti al ricatto o al cinismo; ma anche e soprattutto la percezione che ci vuole un cambiamento radicale, che niente o quasi del vecchio mondo è degno di sopravvivere – comporta per tutti coloro che ne condividono le ragioni un complesso lavoro di elaborazione: non solo teorico e “strategico”, ma innanzitutto pratico ed emotivo. Una “elaborazione del lutto” imposta dallo stato di cose presente che sia capace di mettere in gioco anche molte delle abitudini, degli atteggiamenti e soprattutto delle autorappresentazioni personali di ciascuno.
Da un lato, dunque, abbiamo rabbia, frustrazione, senso di impotenza, ma anche spirito di rivolta di una popolazione sottoposta a una “macelleria sociale” continua e sistematica. Dall’altro un potere ormai globale della finanza che fa sentire e percepire impotenti ogni giorno di più non solo lavoratrici e lavoratori occupati e disoccupati e cittadine e cittadini esclusi da ogni possibilità di incidere sulle scelte di chi decide; ma anche Stati, governi, imprese (o gran parte di esse), partiti e amministrazioni locali: tutti incatenati alla macina del debito, dei patti di stabilità, dei tassi di interesse, degli spread.
Per restituire efficacia e concretezza a un agire condiviso occorre dunque cogliere il punto in cui la vita quotidiana e i sentimenti di rigetto e di rivolta della maggioranza delle persone ferite da questo regime si confrontano e si scontrano con i poteri imperscrutabili della finanza. Al centro di questo immane squilibrio tra poteri globali ed esperienza quotidiana si ritrovano soprattutto i territori e i loro governi locali, perché uno degli oggetti principali delle politiche di austerità, oltre all’erosione del potere contrattuale e del reddito delle classi lavoratrici – e a maggior ragione di quelle escluse – è l’appropriazione e la privatizzazione dei beni comuni. In particolare dei servizi pubblici locali. Che sono però, potenzialmente, il perno di quella riconversione ecologica delle imprese e dei loro mercati che il capitale finanziario non avvierà mai; ma che rappresenta l’unica possibilità di salvaguardare insieme ambiente, occupazione, redditi, consumi sostenibili ed equità; ma anche il tessuto produttivo (know-how, professionalità, esperienza e gran parte degli impianti e delle attrezzature) che le politiche economiche e le scelte gestionali attuali stanno condannando a una rapida dissoluzione.
L’effetto principale delle politiche di austerità imposte in Italia con il patto di stabilità interno è lo svuotamento totale dei governi locali. Un Comune è tale – cioè “comune” – se fornisce ai cittadini i servizi di cui la vita associata ha bisogno: energia, acqua, gestione dei rifiuti, strade e mobilità, ristorazione collettiva (ma anche facilitazioni per gli approvvigionamenti individuali), case a prezzi accessibili, nidi e scuole materne, edifici scolastici che non crollino, assistenza agli anziani, spazi di socialità, integrazioni del reddito e così via. Un Comune che non è più in grado di fare non dico tutte, ma nessuna di queste cose non serve a niente; e questa inutilità si traduce in una “politica” che provvede solo più a perpetuarsi in modo parassitario. Ma la politica locale è il vivaio di quella nazionale, quindi…
Tuttavia nella fase attuale la centralità dei livelli locali di governo dipende anche da altri fattori. Innanzitutto il Comune, in quanto livello dell’amministrazione pubblica più a diretto contatto con la cittadinanza, diventa il bersaglio della rivolta e del rancore di chi viene escluso dai servizi e dalle politiche di promozione o di sostegno all’occupazione di cui dovrebbe farsi parte attiva. Invece oggi il Comune riscuote persino delle tasse inique per conto del Governo, come lo sceriffo di Nottingham, senza riceverne adeguati ristorni. Così fa da scudo al Governo nazionale, alla BCE e all’UE – e sostanzialmente all’alta finanza – troppo lontani per essere anche solo contestati in forme appropriate. Per esempio, la rivolta dei commercianti di Napoli contro la ZTL (l’intervento della camorra va da sé) è il prodotto di un Comune che non riesce nemmeno più a pagare la benzina del trasporto pubblico. Ma la ZTL non è altro che la sostituzione di un servizio pubblico efficiente alla mobilità individuale. Se il primo non c’è, la ZTL non ha alcun senso.
Eppure è solo a livello comunale – per ora – che si possono sperimentare nuove forme di governo partecipato, sia dei servizi pubblici che del bilancio municipale; ed è da lì che si può organizzare una mobilitazione vincente contro i vincoli finanziari – patto di stabilità, fiscal compact, pareggio di bilancio, two packs, ecc. – da cui discendono le politiche che privano sindaci dei loro poteri e che, attraverso di essi, espropriano lavoratrici, lavoratori e cittadinanza dei loro diritti e della loro dignità.
In secondo luogo il governo locale del territorio, e in particolare la gestione dei servizi pubblici, sono il perno fondamentale della riconversione ecologica, cioè dell’avvio di un diverso meccanismo economico che faccia dei servizi locali il punto di raccordo tra la promozione di nuovi modelli di consumo ecocompatibili, fondati sulla condivisione e la partecipazione – nel campo dell’energia, della mobilità, della gestione dei rifiuti, della ristorazione, e quindi anche dell’agricoltura, dell’edilizia popolare, della salvaguardia dei suoli e degli assetti idrogeologici – e la riconversione delle aziende senza più mercato alla produzione dei materiali, degli impianti, dei beni e dei servizi necessari a questa transizione.
Infine soltanto i Comuni – o Consorzi di Comuni – potrebbero assumersi la responsabilità politica ed economica, ma soprattutto la titolarità giuridica, nel rilevare la gestione delle imprese in crisi, di quelle che chiudono, di quelle dove il management abbandona (magari portando all’estero macchinari, know-how, brevetti e controllo dei mercati). I sindaci sono tutti molto riluttanti a farlo e molti non ci pensano proprio; e non solo perché non hanno risorse né poteri sufficienti in materia. Ma un maggiore ricorso agli istituti dell’esproprio e della requisizione va messo all’ordine del giorno; e un primo passo è una battaglia politico-culturale per imporglielo.
Certo in questo approccio c’è qualcosa che non funziona: la maggioranza dei sindaci e delle amministrazioni dei Comuni sono membri a pieno titolo del sistema partitico, se non della “casta”. Anche i nuovi sindaci del 2011-12 – staremo a vedere quelli del 2013 – sono rimasti impigliati in qualche progetto faraonico e inutile, nei debiti pregressi e nel patto di stabilità che li espropria dei loro poteri; e si sono adeguati. E tuttavia sono i sindaci vecchi e nuovi che devono mettersi alla testa di una mobilitazione contro questi meccanismi infernali di produzione della miseria in un paese che potrebbe essere prospero; oppure devono venir costretti dalla mobilitazione popolare ad assumerne la rappresentanza adottandone le rivendicazioni.
Promuovere e sostenere una battaglia come questa, lavorando al coordinamento di tutte le forze che in Italia e in Europa la condividono, significa praticare un obiettivo di carattere generale a partire dall’agire locale, quello più immediatamente accessibile a tutti. Questo obiettivo generale è la costruzione di un’Europa diversa a partire dalla revisione radicale delle regole finanziarie che la governano e dal congelamento selettivo di un debito pubblico che è insostenibile per tutti: sia ora che nei decenni a venire.
In una recente assemblea è stata citata una scritta su un muro che dice: “Basta fatti, vogliamo promesse!”. In questo paradosso di sapore surrealista (o situazionista) possiamo riconoscere il sacrosanto bisogno di non soccombere di fronte alle miserie dello stato di cose presente grazie a uno sguardo “lungo”, capace di restituire ruolo e peso alla dimensione utopica del nostro agire.
Nessun commento:
Posta un commento