A Dacca mercoledì un palazzo di otto piani è crollato e sono morti almeno 381 operai. Lavoravano in assenza delle più elementari condizioni di sicurezza e producevano capi per conto di multinazionali tra cui anche l'azienda di Treviso e di altre aziende.
Abbiamo volutamente aspettato che fossero noti i marchi mondiali della moda che facevano produrre nella fabbrica di Dacca prima di pubblicare questa notizia . Abbiamo sperato che non fossero coinvolte aziende italiane e invece pare proprio che ce ne siano. Una in particolare, un colosso che ormai ha interessi in differenti settori strategici in Italia: Benetton. Vorremo che il nuovo governo metta subito mano alla definizione di una legge che obblighi a indicare la filiera produttiva, inserendo l'obbligo di un marchio di qualità sociale per poter vendere in Italia. Una filiera verificabile da tutti i cittadini e non un semplice simbolo acquisibile aggirando facilmente norme, per lo più a carattere volontario, che le aziende esibiscono per qualificarsi come responsabili e socialmente sostenibili. Non vogliamo indossare camicie e maglioncini prodotti da bambini, donne e uomini ridotti in schiavitù per gratificare il nostro gusto estetico, magari a poco prezzo. Perchè da qualche parte del mondo qualcuno stà pagando un prezzo inaccettabile per tutte le persone libere e non c'è nessuna legge sul libero commercio che lo possa giustifcare. Ricordiamo un bambino packistano Iqbal Masih, venduto ad un fabbricante di tappeti e costretto a lavorare legato al telaio. Iqbal un giorno riusci a fuggire e raccontò la sua storia. Da allora ricevette riconoscimenti e anche premi in denaro. Ma non diventò un imprenditore, costruì una scuola. Il 16 aprile del 1995 fu assassinato: aveva 13 anni.
(ndr) redazione diffusa campagnanoR@P
ilfattoquotidiano.it di Marco Quarantelli
Una camicia di colore scuro, sporca di polvere, fotografata tra le macerie. Sul tessuto, l’etichetta verde acceso, inconfondibile: “United Colors of Benetton“, recita la scritta. Dalle macerie del Rana Plaza, il palazzo di otto piani alla periferia di Dacca, in Bangladesh, che lo scorso mercoledì si è sbriciolato uccidendo almeno 381 operai, cominciano ad affiorare le prime verità.
Le fabbriche tessili che avevano sede nel palazzo, e i cui dipendenti lavoravano in assenza delle più elementari condizioni di sicurezza, producevano capi di abbigliamento per conto di multinazionali occidentali, tra cui a quanto pare Benetton. L’azienda veneta aveva in un primo primo momento negato legami con i laboratori venuti giù nel crollo, ma lunedì, dopo la pubblicazione delle foto, su Twitter è arrivata una prima ammissione: “Il Gruppo Benetton intende chiarire che nessuna delle società coinvolte è fornitrice di Benetton Group o uno qualsiasi dei suoi marchi. Oltre a ciò, un ordine è stato completato e spedito da uno dei produttori coinvolti diverse settimane prima dell’incidente. Da allora, questo subappaltatore è stato rimosso dalla nostra lista dei fornitori“.
La polvere è ancora sospesa nell’aria, le grida risuonano strazianti, i soccorritori cominciano ad arrivare. Fin dai primi istanti successivi alla tragedia, gli attivisti accorsi a Savar, il sobborgo a 25 km a nord est di Dacca dove sorgeva il palazzo, parlano di capi di abbigliamento prodotti per grandi marchi occidentali rinvenuti tra le macerie ancora fumanti. Tra questi anche articoli firmati dall’azienda di Ponzano Veneto. Che prontamente smentiva: “Riguardo alle tragiche notizie che provengono dal Bangladesh – si legge in una nota diramata il 24 aprile – Benetton Group si trova costretta a precisare che (…) i laboratori coinvolti nel crollo del palazzo di Dacca non collaborano in alcun modo con i marchi del gruppo Benetton”.
Le foto, però, raccontano un’altra verità: scattate e pubblicate dall’Associated Press, ritraggono una camicia di colore scuro griffata Benetton tra i calcinacci, accanto a quello che pare la commessa di un ordine. Non solo: l’agenzia France Press fa sapere di aver ricevuto dalla Federazione operai tessili del Bangladesh documenti contenenti un ordine da circa 30mila pezzi fatto nel settembre 2012 da Benetton alla New Wave Bottoms Ltd, una delle manifatture ingoiate dal crollo. La dicitura “Benetton” appariva anche sul sito internet dell’azienda, all’indirizzo www.newwavebd.com, ma fin dalle ore successive al crollo la pagina non è più accessibile e in rete ne resta solo una copia cache. “Main buyers” (Clienti principali), si legge in alto a sinistra; più in basso, sotto la dicitura “Camicie uomo-donna”, l’elenco degli acquirenti: tra questi, numero 16 della lista, figura “Benetton Asia Pacific Ltd, Honk Kong“.
Nell’elenco altre tre aziende italiane: la Itd Srl, la Pellegrini Aec Srl e la De Blasio Spa, ma non è chiaro se al momento dell’incidente vi fossero ancora rapporti di lavoro in corso. La Pellegrini, anzi, specifica che le ultime commesse con la ditta bengalese risalivano al 2010. Un’altra ditta, Essenza Spa, che produce il marchio Yes-Zee, ha confermato di essersi rifornita al Rana Plaza. Ammissioni sono quasi subito arrivate anche dall’inglese Primark, dalla spagnola Mango (che ha confermato di aver ordinato merce per 25 mila pezzi), mentre France Presse ha rinvenuto indumenti griffati dall’americana Cato. La lista però è molto più lunga: la Clean Clothes Campaign, ong con sede ad Amsterdam, ha fatto sapere che la britannica Bon Marche, la spagnola El Corte Ingles e la canadese Joe Fresh hanno tutte confermato di essere clienti delle manifatture crollate. Un’altra società, l’olandese C&A, ha spiegato a France Press di non avere più rapporti con il Rana Plaza dall’ottobre 2011. L’ultima ad ammettere legami commerciali con il Rana Plaza è stata Benetton, che tuttavia assicura: “Un programma di verifiche a campione controlla in modo continuativo tutta la nostra catena di fornitura globale, per assicurare che tutti i fornitori diretti e indiretti lavorino in conformità con i nostri standard in tema di diritti, lavoro e rispetto ambientale”.
Bassi costi di produzione e pochi obblighi da rispettare: comprare in Bangladesh conviene. In un paese in cui l’industria tessile impiega circa 3 milioni di persone, in prevalenza donne, e crea ricchezza quasi esclusivamente per le multinazionali che comprano a prezzi stracciati i suoi prodotti, lo stipendio medio di un operaio si aggira sui 410 dollari l’anno. Ma le fabbriche della morte non si fermano mai. Secondo una stima dell’International Labor Rights Forum, oltre mille operai tessili hanno perso la vita in Bangladesh dal 2005 in incidenti causati dalle scarse condizioni di sicurezza dei laboratori. L’ultimo episodio a novembre, quando 112 persone morirono nel rogo della Tazreen Fashion Limited, a Dacca. Anche quella fabbrica riforniva aziende italiane.
Modificato da Redazione Web alle 12.09 del 30 aprile 2013
Riceviamo e pubblichiamo:le scrivo quale amministratore della ditta Pellegrini, da voi mensionata come committente in una della fabbriche crollate . Per vostra conoscenza non abbiamo più rapporti di lavoro con questa azienda dal 2010. Inoltre i nostri rapporti non sono mai stati diretti con la ditta, ma erano tramite altre aziende Bengalesi. Abbiamo chiuso i rapporti con questa azienda da tre anni. Ci stanno arrivando e-mail da parte di varie persona che sono giustamente indignate.
Cordiali saluti
A. Vignolini
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