Facciamo un po’ di storia. Disporre gli eventi in profondità prospettica illumina di più chiara luce la scena del presente. Nel 2009, il presidente della Bce, Trichet, prevedeva una « ripresa graduale » dell’economia nel 2010 (Il Sole 8.11.2009). Ad aprile del 2011 Mario Draghi, prossimo presidente Bce, annunciava la sua «fiducia nella ripresa» per l’anno in corso, dal momento che nel 2010 nessuno l’aveva avvistata.(Corriere della Sera 18 .4. 2011).Nel gennaio 2012, Mario Monti preannunciò una crescita del 10% del Pil italiano per effetto delle liberalizzazioni del suo governo. Qualcuno se ne ricorda? E nell’estate predisse: «l’economia riparte nel 2013» (Il Sole, 21.9.2012). Oggi Mario Draghi promette «Ripresa nel 2014» (la Repubblica 7.3.2013).Vedremo quali saranno i prossimi vaticini.
Sono dunque quasi 5 anni dall’inizio della crisi che i vertici politico-finanziari d’Italia e d’Europa inseguono previsioni smentite dai fatti con sistematica cadenza. Sul piano della veridicità gli annunci non si discostano molto dalla profezie dei cartomanti, che un tempo richiamavano folle di creduli nelle fiere di paese.
Ma i vaticini dei cartomanti erano innocui, non pretendevano di predire l’andamento economico delle società. E invece l’economia è l’unica scienza, insieme alla meteorologia, che si arroga il diritto non solo della previsione a breve, ma addirittura della profezia. Con quali risultati è sotto gli occhi di tutti. Non voglio tuttavia indugiare nella derisione. Anche se essa è culturalmente e politicamente necessaria. Occorre che la disistima, il discredito, l’irrisione delle capacità tecnico-scientifiche di queste figure, nuovi padroni delle nostre vite, diventi diffuso, popolare, senso comune universale.
Il radicamento di un progetto alternativo di società, la sua emersione politica, passa attraverso l’annichilimento di qualsivoglia aura scientifica del discorso economico neoliberista. D’altro canto, è evidente che quei messaggi di prossima ripresa sono pura ideologia, forme di copertura di una feroce lotta di classe con cui i gruppi dirigenti europei tentano di uscire dalla crisi col miglior risultato possibile: la resa senza condizioni della forza lavoro e la riduzione al minimo del welfare.Sono dunque quasi 5 anni dall’inizio della crisi che i vertici politico-finanziari d’Italia e d’Europa inseguono previsioni smentite dai fatti con sistematica cadenza. Sul piano della veridicità gli annunci non si discostano molto dalla profezie dei cartomanti, che un tempo richiamavano folle di creduli nelle fiere di paese.
Ma i vaticini dei cartomanti erano innocui, non pretendevano di predire l’andamento economico delle società. E invece l’economia è l’unica scienza, insieme alla meteorologia, che si arroga il diritto non solo della previsione a breve, ma addirittura della profezia. Con quali risultati è sotto gli occhi di tutti. Non voglio tuttavia indugiare nella derisione. Anche se essa è culturalmente e politicamente necessaria. Occorre che la disistima, il discredito, l’irrisione delle capacità tecnico-scientifiche di queste figure, nuovi padroni delle nostre vite, diventi diffuso, popolare, senso comune universale.
Le cronache recenti hanno tuttavia mostrato un aspetto inquietante dell’economia, un tempo regina delle scienze sociali e oggi ridotta al rango di tecnologia della crescita: vale a dire un puro dispositivo di calcolo, privo di pensiero, svuotato di cultura e valori, che tende a replicare dei meccanismi. Com’è noto, ai primi di quest’anno, il capo economista del Fmi, Olivier Blanchard – confermando uno studio del World Economic Outlook dell’ottobre 2012 – ha scritto in Errori previsionali di crescita e moltiplicatori fiscali, che i modelli della troika per i programmi di aggiustamento dei paesi Ue si fondavano su un moltiplicatore sbagliato. E’ straordinario! «Uno sbalorditivo mea culpa», l’ha definito il Washington Post. Qui tuttavia non si tratta semplicemente di stupirsi dell’errore. L’errore fa parte del procedimento scientifico, così come la sua onesta ammissione. Quel che è clamoroso è l’assottigliarsi oligarchico del sapere e del potere economico-finanziario che governa le nostre società.
Il destino economico e sociale di milioni di cittadini europei, la vita di tutti noi, sono stati affidati alla fondatezza di un calcolo finanziario. Un suo errore ha deciso l’immiserimento e la disperazione di un numero incalcolabile di persone. E allora? Il potere politico, quell’insieme di saperi e volontà istituzionali, chiamato a rappresentarci per nostra designazione – a vale a dire i partiti politici – dove erano, dove sono? Che fine fa la democrazia quando, sulla base di un calcolo di pochi “esperti”, si decide della nostra vita? A chi si è consegnata la civiltà europea, le sue culture secolari, le sue opinioni pubbliche mature?
Sappiamo che ai primi del 2013 il nostro debito pubblico ha sfondato i 2000 miliardi, passando dal 120% del Pil del 2011, quando si è insediato il governo Monti, a quasi il 129% di oggi. Nel frattempo apprendiamo che, nell’anno della riforma Fornero, sono stati licenziati 1 milione di lavoratori.
Ebbene, mi chiedo: che cosa si attende a prendere coscienza che è in atto a Bruxelles e in tanti gruppi dirigenti nord europei, un disegno ormai evidente di emarginazione economica dei paesi mediterranei nella gerarchia dell’Unione? Che cosa si attende a prendere atto che l’attesa della ripresa, con i presenti vincoli di politica economica imposti dalla Ue, è un’agonia senza speranza? Lo ripetiamo da tempo. Luciano Gallino ha mostrato l’impossibilità “econometrica” di uscire dalla trappola in cui i vincoli europei ci tengono legati. Ma ammettiamo pure che la situazione si stabilizzi, che ci sia finalmente la tanta auspicata “ripresa”. Perché l’economia si può riprendere, nel senso che almeno una parte delle imprese possono riavviare il loro processo di accumulazione. Nel prossimo decennio, tuttavia, la società continuerà a impoverirsi e a spappolarsi. E che modello di paese prevarrà? Con la scuola e l’università messe ai margini, la ricerca in un angolo, i nostri beni culturali in svendita, è evidente che le chances competitive dell’Italia sarebbero affidate all’estrema flessibilità della forza lavoro e ai bassi salari. Con ai piedi i ceppi del fiscal compact l’Italia dovrà ritagliarsi, in Europa e nel mondo, un destino di marginalità.
Un bivio è davanti ai nostri occhi. Dovrebbe essere chiaro anche ai ciechi istitupidi che ci hanno condotto fin qui: o spezziamo tali vincoli o l’Italia si avvierà in un sentiero di immiserimento e di ingovernabile disgregazione sociale. E’ molto probabile che essa sarà accompagnata in questa deriva da altri paesi e che l’Europa si frantumi in un caos esplosivo di nazionalismi xenofobi. Le capacità di governo delle attuali oligarchie hanno dato tali prove, da autorizzare le più fosche previsioni. Possiamo accettare che un grande paese industriale venga messo in ginocchio dall’ottusa ortodossia di un pugno di tecnocrati? Ci rassegniamo alla fine del grande progetto dell’Unione?
Credo ci sia una sola e obbligata strada per evitare questo scenario. Può apparire la via più estrema, ed è la via più ragionevole. Perché i creditori stranieri, che posseggono circa il 50% del nostro debito, hanno più possibilità di essere ripagati da un’Italia che riavvii i propri meccanismi economici, che non da un paese che affonda. Un paese fallito cancella i suoi debiti, o li rinegozia al ribasso. Personalmente non credo che abbiamo oggi la forza di imporre un audit, una revisione storica della composizione del debito. Ma occorrerà una qualche forma di rinegoziazione, perché il debito è un problema mondiale.
Abbiamo tuttavia la forza per imporre la violazione del patto di stabilità in tutti i comuni per spese indirizzate agli investimenti. Ricordo che, con singolare ottusità e protervia, si è finora impedito anche ai comuni senza debiti di utilizzare le proprie risorse. Ebbene, in tutti i comuni d’Italia, sede secolare del potere popolare, deve essere avviata una rivolta coordinata contro il patto di stabilità. Uno moto organizzato che si accompagni a progetti economici riguardanti gli aiuti alle imprese, gli interventi sul territorio, la scuola, la mobilità e in una parola il progetto di conversione ecologica che li racchiude. Ci sono due propellenti che possono rendere vittoriosa l’iniziativa: la rabbia incontenibile che cova nel fondo della società italiana e l’individuazione del “nemico” nell’oligarchia tecnocratica che domina l’Europa.
Chi oggi vuol salvare ciò che di storicamente importante rappresenta ancora l’Unione deve far leva sulla rabbia democratica e sull’orgoglio nazionale per sconfiggere una politica suicida. Un’onda di popolo deve sollevarsi contro le mura della cittadella oligarchica. Ma questa è anche l’occasione perché la sinistra smetta di fare politica al vecchio modo, come accordo fra gruppi e si metta alla testa delle iniziative popolari. La sinistra radicale, i movimenti, potrebbero trovare una nuova carica di energia politica guidando la ribellione, trovando consenso nei ceti più vari, e cooperando con le amministrazioni per rimettere in moto le languenti economie locali. O questo grande compito di riscatto nazionale l’assume la sinistra o lo faranno i populisti a modo loro, e probabilmente l’Europa si disintegrerà. E nessuno può prevedere ciò che accadrà alla democrazia. Ricordo che, per una volta, una politica di sinistra contro l’austerità godrebbe dell’occhio benevolo degli Usa.
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