Quello che era stato presentato 2 anni fa come il progetto Fabbrica Italia supponeva, a detta dell'amministratore delegato Fiat Sergio Marchionne, una crescita dell'azienda con un investimento di 20 miliardi di euro -che avrebbe mantenuto la produzione in Italia e dato lavoro- passando attraverso la deroga e la decostruzione dello Statuto dei lavoratori. Quello che venne definito il ricatto di Marchionne, consisteva nell'eliminazione delle RSU, trasformate in RSA, con la possibilità di eleggere solo rappresentanti sindacali collaborazionisti (firmatari degli accordi) come Cisl, Uil e Ugl, ecludendo così Fiom e sindacati di base dall'attività sindacale dentro le fabbriche, e ancora, la riduzione delle pause, della malattia, ecc. L'alternativa, e qui il ricatto, era chiudere gli stabilimenti. Si passò quindi al referendum -dapprima nello stabilimento di Pomigliano e poi esteso ad altri- vinti con una maggioranza risicata.
A distanza di 2
anni la Fiat ritira gli investimenti con la giustificazione che il
piano Fabbrica Italia era solo una dichiarazione di intenti, che però è
costata cara ai diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, che come
spesso succede sono gli unici a pagare il conto.
Eppure,
nonostante molti non hanno voluto o saputo vedere, il piano di
Marchionne aveva due scopi principali: (1) ridurre il capitale fisso
installato per i problemi di sovradimensionamento del capitale fisso
nell'industria dell'auto, (2) con lo scopo indiretto di aumentare il
profitto dell'azienda Fiat. Questo progetto poteva però avverarsi solo
nel caso in cui si sarebbero garantiti dei volumi produttivi molto alti.
Lo stesso Marchionne (in linea con molti altri) sosteneva, allora, che
la crisi economica sarebbe finita in tempi brevi: i volumi produttivi
sarebbero quindi stati possibili per la Fiat, modificando i processi
produttivi: riducendo tempi e diritti dei lavoratori.
Ma
come abbiamo visto, quella ripresa non si è verificata, dimostrando
automaticamente che quel modello non tiene. Marchionne ne dà notizia
solo adesso mentre i sindacati gialli sembrano ancora non crederci.
L'altra parte della medaglia è quindi tutto quello che si è prodotto in
seguito all'idea del modello Fabbrica Italia: una compressione sui
livelli di sfruttamento. Ci troviamo quindi di fronte, da un lato, la
debolezza, l'ipocrisia e la violenza del progetto in questione e
dall'altra l'idea di una crisi di cui non si prevede, né percepisce la
fine, anzi, che ogni giorno di più sembra accentuare le sue torsioni
interne a scapito dei lavoratori e delle lavoratrici.
Ma
anche se Marchionne è un ottimo padrone e un ottimo amministratore, i
tempi per gli affari non li detta lui, ma sempre il mercato. Nella
logica finanziaria attuale infatti, l'obiettivo diventa quello di
sintonizzarsi in tempi brevi con quello che è l'accumulazione
finanziaria. Se i tempi dettano le condizioni, è chiaro che portano
anche ad un'obsolescenza rapidissima degli investimenti industriali. Di
fronte all'impossibilità di garantire valori finanziari rapidi, bisogna
puntare su una strategia diversa e a condizioni diverse e probabilmente
un mercato statunitense può garantire l'attuazione di strategie diverse,
secondo Marchionne. Diritti compressi e impresa mobile. Verrebbe da
dire oltre al danno, la beffa.
All'interno
del gioco delle carte del padrone Fiat si situano i sindacati gialli
che insieme al Pd non hanno certamente voluto leggere tra le righe del
diktat di Marchionne; il sindaco Fassino difende quest'ultimo, mentre
Monti si pone sempre al di sopra delle parti, ripetendo la solito
formula: sarà il mercato, in propria autonomia, a creare le condizioni
della crescita. Una bella lavata di mani che conclude con un bel “non è
compito del governo”. Eppure non dimentichiamo quando a suo tempo il
banchiere Monti aveva difeso a spada tratta il progetto Fabbrica Italia.
Oggi
le dichiarazioni dell'ad rimbalzano nei vari mezzi di comunicazione e
come un fiume in piena, nel suo solito stile arrogante, non le manda a
dire e risponde a tutti: all'industriale delle scarpe Della Valle che
aveva osato criticarlo, a Cesare Romiti (che come in un film surreale
faceva le critiche da sinistra ai sindacati confederali) e a chiunque
altro pretende oggi una qualche corrispondenza tra promesse e fatti,
come Angeletti e Bonanni che oggi chiedono al super-padrone di mantenere
la parola data. Il campione dell'acume resta però il sindaco di Torino
Piero Fassino che assicura che la Fiat resterà in Italia e soprattutto a
Torino.
Per giustificare la mossa -
chiara fin dall'inizio per chi ha saputo (e voluto) guardare dietro la
coltre delle parole fumose e le promesse non scritte - L'ad Fiat chiama
in causa le condizioni generali del mercato, le famose "esternità" in
cui tutto può rientrare. Quello su cui è certo è chi paga, sempre chi
sta in basso, che deve chinare la testa quando le cose vanno bene, e
levarsi dai piedi quando le condizioni mutano.
infoaut.org
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