L’ultimo rapporto Cnel sulla competitività del sistema economico italiano (parzialmente anticipato dal “Corriere della sera del” 17 settembre 2012) offre un’analisi prospettica della perdita di capacità innovativa della nostra economia rispetto a una quarantina d’anni fa. Forse per questo, cioè la confutazione di un bel numero di luoghi comuni, il rapporto è stato pressoché ignorato nel dibattito pubblico.
A
ben vedere, infatti, emerge una pesante e storica responsabilità del
sistema politico, che ha portato il paese, non si sa se deliberatamente o
per mera insipienza, in una palude da cui difficilmente potrà uscire.
Ma andiamo con ordine. Per cominciare, il fatto che l’apice della
produttività sia stato conseguito nel decennio successivo al 68 e alle
lotte operaie dell’autunno caldo ridicolizza la tesi revisionista
secondo cui la partecipazione politica e sindacale, dentro e fuori le
fabbriche, avrebbe causato la crisi e la recessione. La marcia dei
quarantamila appare, in questo quadro, una mossa politica (voluta
proprio da quel Romiti che oggi attacca Marchionne…) per ridisegnare le
relazioni industriali in Fiat (e non solo) emarginando le rappresentanze
operaie. Non solo: inizia qui la progressiva “de-industralizzazione”
della Fiat (analoga a quella dell’intero paese) che porta oggi il gruppo
di Torino non solo a svincolarsi dall’Italia (dopo aver goduto per
decenni di sostegno poitico e sovvenzioni pubbliche), ma a operare come
una multinazionale della finanza. La perdita di competitività appare
dunque, alla luce del rapporto Cnel, come la conseguenza di una
strategia economica sbagliata di lungo periodo. Non è stata la
turbolenza sociale o sindacale (contro cui era rivolta la marcia voluta
da Romiti) a frenare lo sviluppo, ma l’idea che il paese potesse
progredire senza una vera politica industriale.
L’introduzione dell’Euro, che impediva qualsiasi svalutazione, tradizionale strumento di sostegno alle esportazioni, ha dato il colpo di grazia al sistema manifatturiero. Ma quando si parla di competitività si dovrebbe chiamare in causa anche l’attacco deliberato, che dura ormai da più di vent’anni, all’istruzione pubblica e all’università. Nessuno dubita più del ruolo strategico dell’innovazione scientifica e culturale nella competitività del sistema economico. In Italia, tuttavia, la retorica della “società della conoscenza”, per non parlare del grottesco slogan berlusconiano delle tre “I” (impresa, informatica e inglese), non è stata mai accompagnata da un’adeguata politica nel campo della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica. Le riforme che si sono incessantemente succedute dalla fine degli anni 80 (Ruberti, Berlinguer, Gelmini e oggi Profumo) hanno avuto come obiettivo la didattica (dapprima ampliando enormemente l’offerta formativa e poi riducendola drasticamente con Gelmini), ma hanno sempre ignorato la ricerca. L’eliminazione di fatto del Cnr e il taglio dei fondi in tutte le aree scientifiche segnano di fatto la fine del finanziamento pubblico della ricerca. E questo in un paese in cui i privati, a partire dalle imprese, non hanno mai finanziato la ricerca, ma sono i primi a esigerne le ricadute positive. Ma non si tratta solo di parassitismo, bensì di miopia imprenditoriale. Anche nel campo della società della conoscenza l’Italia sconta una politica industriale sbagliata. Penso alla scomparsa di qualsiasi azienda dal settore dell’informatica. Olivetti fu una delle prime imprese europee a produrre computer. Oggi, l’Italia non produce né software, né hardware, ma si limita a commercializzare (e quindi a comprare) le innovazioni altrui. La bislacca idea di Profumo di diffondere i tablet nelle scuole dà un’idea della lungimiranza dei nostri governanti in questo campo. Le riforme Monti – con cui, in sostanza, l’Italia accetta di fare perpetuamente da ancella a una Germania che deve la sua maggiore competitività alla debolezza dell’Euro e all’impossibilità di svalutare delle economie mediterranee – coronano mirabilmente una vicenda su cui il rapporto Cnel offre nuovi e interessanti spunti. In questo quadro di lungo periodo, sacrifici, recessione, depressione dei consumi e impoverimento sembrano essere l’esito di un processo di lungo periodo a cui destra e sinistra moderata, ambienti industriali e sindacati opportunisti hanno dato un importante contributo. Un destino privo di alternative, se non verrà intaccato il grigio unanimismo sacrificale in cui il paese è piombato.
L’introduzione dell’Euro, che impediva qualsiasi svalutazione, tradizionale strumento di sostegno alle esportazioni, ha dato il colpo di grazia al sistema manifatturiero. Ma quando si parla di competitività si dovrebbe chiamare in causa anche l’attacco deliberato, che dura ormai da più di vent’anni, all’istruzione pubblica e all’università. Nessuno dubita più del ruolo strategico dell’innovazione scientifica e culturale nella competitività del sistema economico. In Italia, tuttavia, la retorica della “società della conoscenza”, per non parlare del grottesco slogan berlusconiano delle tre “I” (impresa, informatica e inglese), non è stata mai accompagnata da un’adeguata politica nel campo della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica. Le riforme che si sono incessantemente succedute dalla fine degli anni 80 (Ruberti, Berlinguer, Gelmini e oggi Profumo) hanno avuto come obiettivo la didattica (dapprima ampliando enormemente l’offerta formativa e poi riducendola drasticamente con Gelmini), ma hanno sempre ignorato la ricerca. L’eliminazione di fatto del Cnr e il taglio dei fondi in tutte le aree scientifiche segnano di fatto la fine del finanziamento pubblico della ricerca. E questo in un paese in cui i privati, a partire dalle imprese, non hanno mai finanziato la ricerca, ma sono i primi a esigerne le ricadute positive. Ma non si tratta solo di parassitismo, bensì di miopia imprenditoriale. Anche nel campo della società della conoscenza l’Italia sconta una politica industriale sbagliata. Penso alla scomparsa di qualsiasi azienda dal settore dell’informatica. Olivetti fu una delle prime imprese europee a produrre computer. Oggi, l’Italia non produce né software, né hardware, ma si limita a commercializzare (e quindi a comprare) le innovazioni altrui. La bislacca idea di Profumo di diffondere i tablet nelle scuole dà un’idea della lungimiranza dei nostri governanti in questo campo. Le riforme Monti – con cui, in sostanza, l’Italia accetta di fare perpetuamente da ancella a una Germania che deve la sua maggiore competitività alla debolezza dell’Euro e all’impossibilità di svalutare delle economie mediterranee – coronano mirabilmente una vicenda su cui il rapporto Cnel offre nuovi e interessanti spunti. In questo quadro di lungo periodo, sacrifici, recessione, depressione dei consumi e impoverimento sembrano essere l’esito di un processo di lungo periodo a cui destra e sinistra moderata, ambienti industriali e sindacati opportunisti hanno dato un importante contributo. Un destino privo di alternative, se non verrà intaccato il grigio unanimismo sacrificale in cui il paese è piombato.
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