Chi è Bob Dylan? Una domanda a cui è difficile rispondere, nonostante quest’uomo sia in giro da più di mezzo secolo. Tra i tanti che ci hanno provato c’è il regista Todd Haynes con il film Io non sono qui. La sua idea (geniale) è stata quella di raccontare Dylan attraverso sei diverse identità. Una di queste è Woody Guthrie, un ragazzino nero vestito come il leggendario folk singer che gira gli Stati Uniti a bordo di un treno sgangherato. Ecco, Dylan nonostante i suoi 71 anni è ancora come quel ragazzino. Un ibrido tra un cantante folk bianco e un bluesman che ha venduto la sua anima al diavolo, proprio come Robert Johnson. E che nonostante tutto fa ancora dischi bellissimi come Tempest. Gira voce che questo sarà il suo ultimo album, il suo canto del cigno. Difficile dirlo, nonostante i riferimenti alla vecchiaia e alla morte siano sparsi un po’ ovunque tra i testi dei pezzi. Ma Dylan è un fuorilegge della canzone. E quindi, come sempre, c’è poco da fidarsi.
Quello che è certo è che Tempest è la sintesi finalmente riuscita tra la sua anima vintage, espressa a più riprese nell’ultimo decennio, e la sfrontatezza folk rock dei suoi anni giovanili. Ci era andato vicino con Love and theft e Modern times, ma stavolta c’è riuscito davvero. All’album, prodotto da Dylan sotto lo pseudonimo di Jack Frost, ha dato un contributo decisivo David Hidalgo, in prestito dai Los Lobos, che ha suonato violino e fisarmonica. Tempest, che già nel titolo cita Shakespeare, si nutre dell’eterno mito della frontiera americana, tirando fuori dalle viscere della terra dieci canzoni senza tempo. Rispetto agli ultimi album è sicuramente più cupo, meno consolatorio.
La voce del cantautore di Duluth è a pezzi. Ma da grande performer qual è sempre stato, Bob trasforma le sue debolezze in punti di forza. Il risultato è una raccolta di cavalcate al tramonto, di fughe in treno, notti in compagnia di prostitute e criminali che sembra scritta da un giovane cowboy. Il disco inizia piano, quasi in tono minore. Ad aprire le danze c’è Duquesne whistle, un numero alla Hank Williams dolce e malinconico, seguita dalla ballata Soon after midnight. Ma il primo pugno allo stomaco è dietro l’angolo: il blues Narrow way arriva a tutta velocità dalla Highway 61 ed è un puro distillato della classe di Dylan. Poi c’è quella che, secondo me, è la più bella canzone di Mr. Zimmerman dai tempi di Not dark yet, cioè Long and wasted years. Un pezzo davvero commovente. Il blues alla Rolling Stones Pay in blood è un altro pezzo notevole. Rabbia pura, cantato ringhioso e chitarre in primo piano.
Scarlet town, una ballata spettrale cupa che piacerebbe tantissimo a Tom Waits, è un altro dei picchi del disco. Brillante il testo, intriso di immagini alla T.S. Eliot e di bozzetti crepuscolari. La title track Tempest, una disillusa pennellata sull’affondamento del Titanic, cita il film di James Cameron e perfino Leo Di Caprio. All’inizio spaventa e quasi infastidisce, ma con gli ascolti è difficile non rimanere invischiati in questa nenia irlandese alla Chieftains. Meno convincente invece Early Roman kings, un poco riuscito omaggio a Muddy Waters. Infine Roll on John è una canzone dal testo semplice, dedicata a John Lennon e con un paio di citazioni un po’ ingenue da A day in the life e Come together. Eppure, anche in questo caso, il sentimento e l’intensità bastano da soli. Finito l’ascolto diTempest non si può non rimanere un po’ intorpiditi. E sembra quasi di vederlo, questo anziano signore che, nonostante tutto, ha ancora voglia di rimettersi in viaggio su un treno sgangherato. Come il ragazzino del film di Haynes.
(Giovanni Ansaldo, “La tempesta di Bob Dylan”, da “Internazionale” del 7 settembre 2012).
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