sabato 29 settembre 2012

Libertà come conflitto

 possibile considerare Karl Marx e Rosa Luxemburg due pensatori liberali? Secondo Pierfranco Pellizzetti, sì. Nel suo ultimo libro, “Libertà come conflitto” (Mucchi Editore), Pellizzetti propone un' "altra idea di liberalismo" attraverso un'antologia ragionata di testi e citazioni che sconvolge le tradizioni più consolidate. Anticipiamo la postfazione di Mauro Barberis. 

di Mauro Barberis
Un altro libro sul liberalismo? Macché: piuttosto un repertorio, o meglio un caleidoscopio di frammenti di un discorso liberale, tratti da centinaia di libri coscienziosamente sottolineati e da un uso rilassato di quello che i francesi chiamano ancora ordinateur (e tutti gli altri al mondo, più banalmente, computer). Niente di più lontano, comunque, dall’ennesima visita guidata sui luoghi museal-catacombali della tradizione liberale: semmai, il punto di partenza per nuove e ancora più azzardate scorribande. Ma anche la proposta, vagamente provocatoria, di un liberalismo possibile: il liberalismo pellizzettiano, mix originale di repubblicanesimo civico, e mai cinico, decostruzione liberatoria, ottimismo della volontà, rapinose passioni, pervicaci idiosincrasie, e quant’altro.


Come l’autore dell’Archeologia del sapere arruolato in epigrafe, anche questo liberalismo, ironicamente, non sta dove lo cerchiamo, ma s’inventa inesauribili altrove da dove guardarci ridendo. Il liberalismo come critica dei rapporti di dominio, à laPellizzetti, moltiplica i punti di vista, gli scorci e le prospettive: sinché il liberalismo come credevamo di conoscerlo si frammenta e si ricompone in costellazioni sempre nuove, irriducibili a ogni schema sistematico. Soprattutto, lo sguardo del liberale ironico trapassa i libri per guardare in faccia alla Realtà – massì, spendiamola anche noi questa parolaccia ingiustamente rivalutata dai tanti riscopritori dell’acqua calda... Pellizzetti parte dalla definizione per enumerazione del liberalismo perpetrata da Ronald Dworkin e Sebastiano Maffettone, che evoca davvero la zoologia fantastica di Jorge Luis Borges, e approda a un elenco di citazioni tratte da autori ancor più eterocliti, portando a un allegro naufragio ogni pretesa di definire, di tracciare limiti, di istituire rapporti di filiazione. Nell’elenco, si possono incontrare Montaigne e Noam Chomsky, Richard Rorty può andare a braccetto con Valerio Zanone, e Manuel Castells accompagnarsi a Piero Gobetti; qua e là compare persino il sottoscritto, postfatore in conflitto d’interessi. E ognuno, badate bene, dice qualcosa di indiscutibilmente liberale: che, se volete, è un argomento a favore, e non contro il liberalismo pellizzettiano.

Il libro – perché, come vi sarete accorti, questo è davvero un libro, proprio come la pipa di Magritte era davvero una pipa e questa è davvero una postfazione – si organizza attorno a due nuclei tematici ben riconoscibili: nuclei che potrebbero apparire mutuamente irrelati, e in effetti lo sono, benché a tenerli insieme vi sia sempre lo stesso indefettibile progetto critico. Il nucleo originario è in realtà il secondo: il repertorio-caleidoscopio del liberalismo, dal capitoletto intitolato Liberalismo e definizione sino alla conclusioneRiassumendo: un’idea di liberalismo. Al repertorio-caleidoscopio, peraltro, l’autore ha premesso una Nota esplicativa e un’analisi di quattro questioni di attualità: il preteso postsecolarismo, la finanziarizzazione del mondo, lo scontro di civiltà, la desertificazione del reale.

Il primo nucleo tratta queste quattro questioni nella forma di un’analisi serrata delle capacità critiche dei principali media novecenteschi: in ordine di apparizione, cinema, televisione e computer. La televisione viene debitamente demonizzata, per la sua rara capacità di ottundere il senso critico e di asfaltare le coscienze. A paragone viene invece rivalutato, sia pure con ripensamenti, il cinema, per essere riuscito a denunciare la militarizzazione del mondo compiuta sotto l’amministrazione Bush: anche se, verrebbe fatto di dire, parlare bene del cinema è più facile, la tv ci aspetta al varco ovunque mentre al cinema bisogna volerci andare, e anche il più desolante blockbuster bisogna comprarselo, se proprio non si vuole piratarlo dal computer. Già: e il computer? Anche qui, mi pare che il Pellizzetti – amico tanto fraterno da doverne prendere qua e là le distanze – dopo la primavera araba finisca per sopravvalutare le potenzialità liberatorie del mezzo, senza pensare al suo prolungamento comunicativo, il telefonino. Su tutto questo, per non parlare dell’e-democracy, occorrerà un supplemento di ricerca empirica, come si diceva una volta. L’unica cosa certa, perché la sperimentiamo sulla pelle nostra e dei nostri figli, è la colonizzazione dell’esperienza perpetrata da tutti questi media. Prima i nostri figli, e poi pure noi, cominciamo a perdere facoltà che una volta ci erano naturali, come il riserbo, il silenzio, la solitudine, la riflessione: tutte cose oggi percepite, con orrore, come sconnessione dal web. 

Del secondo nucleo tematico – il repertorio del liberalismo come critica dei rapporti di dominio – si è già detto l’essenziale. 
A rinfocolare un vecchio dissenso, potrei aggiungere che Pellizzetti concepisce il conflitto fra poteri e libertà, e anche la critica, in un modo che la sua bestia nera, Friedrich Hayek, avrebbe bollato come costruttivistico: come se dietro ogni fenomeno e processo vi fosse sempre un qualche progetto, o complotto. Io invece, come il vecchio Fritz, prendo più sul serio la vecchia metafora della mano invisibile; il mercato, il capitalismo, e anche la finanziarizzazione dell’economia, non sono nati da un progetto e meno che mai da un complotto. In realtà, tutto evolve, non necessariamente verso il meglio, spesso seguendo solo le linee di minor resistenza: anche i nostri progetti alternativi, inesorabilmente destinati a cambiare pure loro.

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