Improvvisamente l’amministratore delegato della Fiat diventa una persona imbarazzante per tutto il palazzo che l’ha così a lungo esaltato. Il ministro Fornero implora telefonate per capire, tutti vogliono chiarezza. Due anni fa Marchionne avviava a Pomigliano la fase finale della distruzione del sistema contrattuale e dei diritti del lavoro, da quello alle pause, a quello allo sciopero e alle stesse libertà sindacali. Lo scopo era presentato come il rilancio della Fiat come grande multinazionale, che non poteva più tollerare i lacci e lacciuoli delle leggi e dei contratti italiani. Eugenio Scalfari dedicò diversi suoi interventi a spiegare che il mondo era cambiato e che, come diceva il capo Fiat senza tema di sembrare un poco immodesto, Pomigliano segnava una nuova epoca, si entrava nel dopo Cristo della globalizzazione.
Sull’onda di quel pensiero si mosse gran parte del centrosinistra, escluse le forze che in questi giorni hanno presentato i referendum per restituire ai lavoratori l’articolo 18, cancellato dalla controriforma del lavoro. Bersani dichiarò, naturalmente con sofferenza, che bisognava accettare il massacro a Pomigliano purché restasse una “eccezione”. Il suo attuale avversario Renzi disse semplicemente: «Io sto con Marchionne». Sacconi lanciava peana e anche la Lega nord, da sempre a parole nemica del potere Fiat, si convertiva sulla via di Detroit. Il neo eletto presidente del Piemonte Cota diventava un pasdaran del piano, naturalmente in compagnia dei sindaci Pd di Torino vecchio e nuovo, Chiamparino futuro banchiere e Fassino, che si travestì da operaio affermando: «Se fossi in fabbrica voterei sì».
Il rettore della Bocconi Mario Monti scrisse un lungo articolo sul “Corriere” per esaltare le due vere modernizzazioni dell’Italia, la riforma Gelmini e il piano Marchionne. Nel sindacato, come si sa, Cisl, Uil e Ugl diventarono alfieri sfacciati dell’azienda e solo la Fiom ed i sindacati di base si schierarono contro. La Cgil scricchiolò e tentennò, con quella campana a favore e quella nazionale più cauta, salvo lasciar trapelare la richiesta alla Fiom di effettuare una firma “tecnica”. Tutto questo in un clima informativo monocorde, come oggi con il governo Monti, ove ogni spirito critico veniva messo all’indice come ideologia d’altri tempi.
Così la domanda fondamentale: ammesso che le condizioni poste siano accettabili, quanto è credibile il piano aziendale? Questa domanda non venne mai posta né sui mass media, tranne da tre giornalisti seri e inascoltati, né dalle istituzioni, né da sindacati e partiti complici. Contemporaneamente in Germania sindacati e governo ponevano le domande vere all’amministratore delegato Fiat che voleva rilevare la Opel, e viste le risposte lo cacciavano senza rimpianto. Il piano Fiat prevedeva 20 miliardi di euro di investimenti, e un milione e quattrocentomila auto prodotte nel 2014. Oggi Cisl e Uil in evidente difficoltà danno la colpa alla caduta del mercato. Ma a parte il fatto che tre anni fa la crisi era giàcominciata e qualche previsione la si poteva fare, il punto è che con quel piano l’azienda prevedeva di raddoppiare in poco tempo la produzione in Italia e di moltiplicare per 20 gli investimenti in atto.
Dove erano i soldi, le catene di montaggio, i modelli e il marketing per un piano così grandioso? Non c’era nulla se non un intenso lavoro degli uffici pubbliche relazioni sui palazzi. Ora questo piano inventato e privo di credibilità sin dall’inizio viene ufficialmente abbandonato. Nel frattempo Marchionne e la famiglia Agnelli hanno guadagnato tanti soldi dall’affare americano e da tanti altri. I profitti sono risanati e le fabbriche si preparano a chiudere. E’ quello che sta succedendo a tutto il paese con la politica di Monti. Se vogliamo superare la crisi economica delle persone e dell’economia materiale, dobbiamo rottamare tutta la classe dirigente che ha creduto a Marchionne.
(Giorgio Cremaschi, “Quanta gente da rottamare con Marchionne”, da “Micromega” del 17 settembre 2012).
Nessun commento:
Posta un commento