Cattiva distribuzione dei redditi, debolezza delle imprese, fragilità del sistema bancario e pessima bilancia commerciale. Senza contare «la povertà del pensiero degli economisti». Questa la diagnosi della “grande crisi” del 1929 secondo John Kenneth Galbraith. Quasi un secolo dopo, ci risiamo: «Il capitalismo finanziario sregolato e ipertrofico produce disoccupazione e povertà, mentre arricchisce indecentemente i suoi protagonisti». Chi dice che il capitalismo è morto, e chi ripete che questo è l’unico sistema possibile. Sbagliato: se volessimo, anche noi potremmo imitare la Danimarca, un paese dove i poveri riescono a diventare ricchi e dove il benessere diffuso conviene a tutti. Lo sostiene Davide Reina nel blog “Cado in piedi”: il cambio di paradigma consiste nel passare dal “capitalismo esclusivo”, che tesaurizza la ricchezza a beneficio dei super-potenti, al “capitalismo inclusivo” che costruisce futuro per tutti in regime di equità.
La situazione è drammatica: disoccupazione giovanile al 55% in Spagna e al 36% in Italia. Sono «tassi post-bellici», cui si aggiunge «una disuguaglianza socio-economica in aumento, provocata dalle continue manovre finanziarie draconiane dei governi, messi con le spalle al muro dagli speculatori». E il 2012 è peggio del ‘29: allora non c’erano i computer per muovere in tempo reale masse di denaro enormi, non esistevano “scommesse” come i derivati e non c’erano i famosi Cds, i “credit default swap” svincolati dai relativi titoli di Stato, cioè acquistabili anche da parte di coloro che non ne possiedano il titolo obbligazionario. «In pratica, come se qualcuno potesse stipulare l’assicurazione sulla vita di una persona senza essere quella persona: il che, evidentemente, è una sorta d’incitazione all’omicidio». Perché si è permesso di arrivare a un mercato di “scommesse” pericolose, in cui è lecito puntare sul fallimento di uno Stato? Senza regole, saremo sempre «messi con le spalle al muro da una pressione speculativa senza freni né limiti», che costringe gli Stati a piani di rientro del debito così ingenti e così accelerati da tradursi in riduzioni del Pil.
Siamo alla follia, se qualcuno sostiene che la nuova maniera di governare l’economia consiste nell’orientare le attese degli investitori a livello psicologico, come fa Mario Draghi quando annuncia di voler “salvare l’euro” ottenendo la discesa momentanea degli spread. Protesta Reina: «Ma scherziamo? Dovremmo vivere in un mondo nel quale ci alziamo la mattina preoccupandoci di cosa penseranno trader e speculatori del nostro futuro di nazione? Piuttosto aboliamo il loro, di futuro, e potremo finalmente ricostruire il nostro». Altra vergogna: «Con la sola eccezione dei paesi scandinavi», questa Europa «vede crescere costantemente il proprio tasso di diseguaglianza economico-sociale e, in parallelo, diminuire il tasso di occupazione e la mobilità sociale». Anziché la “crescita”, al centro dell’agenda europea dovrebbero esserci «la riduzione della diseguaglianza e l’aumento del tasso di occupazione, accompagnati da sistemi economici che consentano a chi è nato povero di diventare benestante nell’arco della vita grazie al proprio merito e lavoro».
Un mito da sfatare: si dice che, senza crescita, l’occupazione non potrebbe aumentare e la disuguaglianza ridursi. Non è vero: nuove politiche fiscali, che tassassero di più le rendite e i patrimoni e di meno il profitto e il lavoro, ridurrebbero la disuguaglianza e aumenterebbero il tasso di occupazione «anche in uno scenario di crescita zero». Lo stesso “Herald Tribune” sostiene che «un sistema economico sano non dovrebbe consentire ai ricchi di diventare dei “rent seekers”», cioè meri percettori di rendite parassitarie. «La perpetuazione dei grandi patrimoni senza che questi corrano veri rischi imprenditoriali (e quindi senza investire in impresa e lavoro) non è un bene per l’economia, ma un male». Eppure: a livello mondiale, in pratica, oggi esiste un sistema organizzato fatto di paradisi fiscali, e relativa elusione fiscale, che realizza questa perpetuazione.
Insieme con l’eccesso di speculazione consentita, questo sistema forma «un capitalismo esclusivo che premia troppo i ricchi, e crea crescente disoccupazione e povertà per tutti gli altri». Che fare? Sul versante politico è notte fonda: «Manca una riflessione condivisa, al centro dell’agenda politica ed economica internazionale, per rispondere alla domanda essenziale: quale forma di capitalismo adottare per il nostro futuro e per il nostro benessere?». Tremila anni di storia politica conosciuta provano che le dittature non possono essere alternative alle democrazie, aggiunge Davide Reina, mentre la crisi del capitalismo attuale è «la crisi di un modello che ha solo duecento anni di storia alle spalle», e la degenerazione finanziaria non che è una sua ulteriore appendice. Due secoli: «Troppo poco tempo per farci arrivare a dire che quello attuale è l’unico capitalismo possibile».
Scenario inevitabile? «Nossignori. Questo tipo di capitalismo non funziona. Perciò cambiamolo». Come? favorendo il profitto da innovazione, anziché la rendita da speculazione. «Vogliamo tutelare la dignità e il lavoro oppure subordinarli, sempre e comunque, alla massimizzazione del profitto “costi quello che costi”?». Parlano da soli gli sguardi degli operai dell’Ilva di Taranto, «che si sentono burattini di un gioco più grande di loro e che viene deciso senza di loro». Oggi un operaio italiano guadagna mille euro al mese, mentre un collega cinese appena 200: ma è la stessa cifra, se si tiene conto del costo della vita e del potere d’acquisto. Colpa dell’attuale globalizzazione, che colpisce ovunque il reddito da lavoro ad esclusivo vantaggio del reddito da capitale. «Alla fine del grande trasferimento a oriente della produzione europea, a dieci anni dall’entrata della Cina nel Wto, lo stipendio dell’operaio italiano e quello del suo corrispondente cinese ci restituiscono una comune povertà redistribuita su scala globale, per il reddito da lavoro».
Gli indignados di Madrid, i manifestanti di “Occupy Wall Street”: proteste legittime e illuminanti, «figlie di un’economia reale bistrattata dalla finanza, e di una cittadinanza vittima designata e carne da macello fiscale dei disastri che combinano i banchieri, senza rispondervi con un progetto nuovo di economia e di società, saremo destinati a veder degenerare questa protesta in violenza». La radice del problema? Sta nel credere che anteporre l’uomo al profitto sia inefficiente, mentre è vero il contrario: «Perché creando un’economia in cui l’uomo viene mercificato, si determina un contesto talmente spietato da indurre nella collettività stessa la mancanza di una vera speranza per l’avvenire». Un’economia senza futuro, che vive unicamente il presente senza investire per gli anni che verranno, non è solo triste, ma anche profondamente inefficiente. E se la dignità dell’uomo non è merce negoziabile, allora il capitalismo «non può che essere inclusivo di tutti gli uomini». Ovvero: «Deve essere l’opposto, per intenderci, di questo capitalismo esclusivo che permette l’accumulo di ricchezze tanto immense da diventare quasi irrealistiche, nella loro entità».
Come uscirne? Occorre «favorire fiscalmente il profitto d’impresa e il reddito da lavoro, e penalizzare con tasse più elevate le rendite di qualsiasi tipo (finanziario, immobiliare)», perché «un’eccessiva tesaurizzazione del capitale o, in altre parole, un capitale che ha maggiore convenienza nell’essere perpetuato attraverso la rendita, invece che nell’essere investito in attività produttive, è la ragione del declino economico e sociale delle nazioni. Ce lo dice la storia». Altra categoria fondamentale: la qualità dell’economia e la sua equità. «Un imprenditore che dà lavoro a mille operai non può pagare, alla fine dell’anno sul suo reddito d’impresa, la stessa aliquota di un gioielliere che dà lavoro a quattro o cinque dipendenti. Deve pagare un’aliquota inferiore, se vogliamo far crescere l’occupazione». Determinante il fattore-innovazione, che salvaguarda il prodotto e moltiplica i posti di lavoro: «Quanto più un’impresa investe in ricerca e sviluppo, tanto meno dovrebbe pagare di tasse», se si vuole «far crescere il tasso di occupazione stabile», anziché quello dei precari lavori temporanei, che «non generano in chi li occupa nessun sogno, nessuna volontà di progettare il proprio futuro e di investire: sono posti di lavoro inutili per una buona economia».
Deve cambiare la politica fiscale a livello internazionale: il prelievo effettivo deve crescere di fronte al crescere del reddito. «Oggi ci ritroviamo in una situazione opposta, nella quale il miliardario Warren Buffett (sono le sue stesse parole) paga tasse inferiori in percentuale sul reddito di quanto non ne paghi la sua segretaria. C’è qualcosa che non funziona. Il punto è che il sistema organizzato dei paradisi fiscali, e della relativa elusione fiscale, è più avanti delle normative e della politica», sostiene Reina. Così come per la finanza, «occorrerebbe una Bretton Woods per le tasse che si ponesse l’obiettivo di eliminare questi paradisi fiscali, costringendo il capitale accumulato a emergere per essere reinvestito in attività produttive e generatrici di nuovi posti di lavoro». Oggi invece il capitale viene «parcheggiato in luoghi nei quali la tassazione è praticamente nulla e, dunque, può perpetuarsi senza correre rischi». Stiamo parlando di trilioni di dollari “congelati”, pari a una grossa quota del Pil mondiale. Un accordo internazionale per reimmettere questo denaro nel circuito economico sarebbe ossigeno per l’occupazione e il benessere di tutti.
Inoltre, aggiunge Reina, un capitalismo inclusivo deve coniugare la riduzione della diseguaglianza sociale ed economica con l’aumento della mobilità sociale intra-generazionale. Nel “capitalismo inclusivo”, l’ascensore sociale funziona: «Per un povero in gamba che diventa benestante grazie alla propria capacità e competenza, ci deve essere un ricco che s’impoverisce a causa della sua incapacità e incompetenza. Altrimenti non funziona». Fondamentale la leva fiscale: deve favorire il reddito da lavoro e il capitale di rischio delle imprese, scoraggiando la rendita finanziaria e patrimoniale. E poi la formazione: «Nell’economia della conoscenza in cui viviamo, il non garantire ai meno abbienti l’accesso a quella conoscenza equivale a una ghettizzazione preventiva». Il “capitalismo inclusivo” funziona e conviene, «solo che finora siamo riusciti a realizzarlo in paesi piccoli come Danimarca, Svezia, Norvegia, Svizzera, Olanda». Non a caso, «sono i paesi nei cui titoli di Stato tutti vogliono investire». Paesi stabili: meno violenza, meno furti e truffe, meno reati, meno carcere. Cresce la natalità, sale il grado di salute delle persone. «Siamo tutti più onesti, più felici e più sani, in uno stato il cui capitalismo persegua una minore diseguaglianza e l’inclusività».
Modelli non replicabili? Falso: la dimensione non è mai stata un ostacolo, nell’applicare un modello efficace. Come scrisse Leonardo da Vinci, «Dio inventò il gatto, affinché l’uomo potesse accarezzare la tigre». Se Usa, Inghilterra e Francia non hanno ancora imboccato la via del capitalismo inclusivo è per via dello strapotere degli interessi precostituiti «che difendono il capitalismo esclusivo». Eppure il capitalismo esclusivo è socialmente doloroso. «Gli Stati Uniti, che sono i campioni di quel modello, hanno un numero di detenuti che in proporzione è il quintuplo di quello della Danimarca. Sempre negli Stati Uniti, un individuo che nasce povero ha il 50% di probabilità di rimanere povero anche da adulto», mentre «in Danimarca questa probabilità scende al 25%». E ancora: «Il capitalismo esclusivo è ingordo, e si tiene per sé tutta la torta lasciando al ceto medio-basso giusto poche briciole per sopravvivere». Nel 2010, l’1% degli americani più ricchi si accaparrò il 93% degli utili. «Il capitalismo esclusivo non fa pagare la crisi a tutti, ma solo al ceto medio-basso». E’ la perpetuazione della rendita organizzata su scala globale: secondo Joseph Stieglitz, il 20% degli americani attualmente possiede l’85% di tutta la ricchezza degli Stati Uniti.
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