Nello stesso giorno un attentato decapita l'elite dei servizi di sicurezza siriani e un altro uccide alcuni gitanti israeliani in Bulgaria. Nelle strade di Damasco si combatte con l'artiglieria pesante e improvvisamente in tutto il Medio Oriente si trattiene il respiro.
Secondo molti analisti, e secondo alcune delle cancellerie che hanno finalmente cominciato a parlar chiaro, si tratta di ore fondamentali per capire in quale direzione proseguirà la crisi innescata in Siria e in tutto il Medio Oriente dall’attivismo di un gran numero di forze in campo.
L’attentato di ieri contro lo stato maggiore dei servizi di sicurezza di Damasco rappresenta un salto di qualità in una opera di destabilizzazione che poco ha a che vedere con una presunta attività rivoluzionaria delle opposizioni siriane e certamente assai di più con l’intervento diretto contro il regime degli Assad di potenti competitori internazionali.
Secondo molti analisti, e secondo alcune delle cancellerie che hanno finalmente cominciato a parlar chiaro, si tratta di ore fondamentali per capire in quale direzione proseguirà la crisi innescata in Siria e in tutto il Medio Oriente dall’attivismo di un gran numero di forze in campo.
L’attentato di ieri contro lo stato maggiore dei servizi di sicurezza di Damasco rappresenta un salto di qualità in una opera di destabilizzazione che poco ha a che vedere con una presunta attività rivoluzionaria delle opposizioni siriane e certamente assai di più con l’intervento diretto contro il regime degli Assad di potenti competitori internazionali.
Non è oltretutto possibile leggere la decapitazione degli apparati di sicurezza siriani senza associarla all’attentato che ieri ha colpito, poche ore dopo, un pullman carico di gitanti israeliani in Bulgaria. Il fumo provocato dall’esplosione nello scalo di Burgas non si era neanche ancora diradato e non era ancora definitivo il numero delle vittime che già il governo israeliano tuonava contro l’Iran additandolo come il responsabile dell’attacco. Sulla base evidentemente di un copione pronto all’uso, preparato per essere utilizzato al momento opportuno. Dichiarazioni di fuoco – senza uno straccio di prova, visto che l’identità del presunto kamikaze è lungi dall’essere stata scoperta e associata ad un qualche apparato statale – che fanno il paio con quelle proferite ieri da Hillary Clinton ma anche dai responsabili degli affari esteri di Francia, Gran Bretagna, Turchia e Italia. Tutti a dire, pochi minuti dopo l’attacco al quartier generale dei servizi di intelligence a Damasco, che è finito il tempo degli Assad, che il dittatore se ne deve andare, che è l’ora di cambiare regime. E che non si scherza più. Una impressionante concatenazione di eventi e una tale corrispondenza di argomentazioni che lascia trapelare una vera e propria tabella di marcia ampiamente oliata e concordata. All’interno del quale il governo di Israele ha ribadito – se mai ce ne fosse bisogno – che la sua priorità è e continua a rimanere un attacco all’Iran, piuttosto che alla Siria. Cosa c’è di meglio di qualche giovane israeliano vittima di una bomba per rendere Washington, finora contraria, più accondiscendente nei confronti di una repentina aggressione militare contro Teheran?
Ed ecco perché ieri, mentre nelle strade di Damasco ormai si combatte con le armi pesanti e con l’artiglieria – le manifestazioni di massa e la partecipazione dei cittadini al cambiamento sono un lontanissimo ricordo, ormai sbiadito - da Mosca si avvertiva ieri che a Damasco si combatte in queste ore la battaglia decisiva. Il governo russo appare ancora indeciso tra il sostegno a oltranza nei confronti del regime siriano e un accordo con i possibili sostituti imposti da Arabia Saudita, Turchia e Qatar, affinché salvaguardino gli interessi di Mosca ad esempio concedendole l’opportunità di mantenere la sua vitale base militare nel porto siriano di Tartus.
Un 'regime change' alla libica, senza grandi scossoni per il resto della regione?
Ma la Siria non è la Libia. Se salta Damasco l’Iran si ritroverà completamente isolato e accerchiato, così come si ritroverebbero assediate le forze filo iraniane nel Libano ormai terra di conquista delle elite sunnite del Golfo e delle petromonarchie. E anche i curdi turchi e siriani si troverebbero davanti ad una assai triste e tragica prospettiva. L’instabile puzzle mediorientale potrebbe facilmente rompersi e deflagrare. E non è detto che Mosca e Pechino rimangano di nuovo a guardare mentre la Nato si avvicina sempre più ai loro confini.
Che a Damasco non fosse in ballo una possibile democratizzazione della Siria e del Medio Oriente lo avevamo, come dire, sospettato da tempo. Ma che le mire di vecchie potenze mondiali e di nuove potenze regionali stiano portando il pianeta sull’orlo di una nuova guerra dagli esiti imprevedibili appare sempre più una possibilità concreta. E il completo disinteresse delle opinioni pubbliche europee alle prese con la devastante crisi economica non promette niente di buono.
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