"La mossa incongrua è contestare l’iter giudiziario palermitano postulando un tabù nemmeno formulabile in moderna lingua giuridica”. Intervistato dal Fatto quotidiano il più autorevole studioso di procedura penale spiega perché la Consulta dovrebbe respingere il conflitto di attribuzione sollevato dal Colle contro i Pm.
di Silvia Truzzi, da il Fatto quotidiano, 22 luglio 2012
Non sarà una guerra nucleare, com’è stato scritto, ma il conflitto d’attribuzioni tra poteri dello Stato sollevato dal Quirinale contro la Procura di Palermo non è né un atto frequente né un fatto politicamente irrilevante. Non solo per il terreno – delicatissimo – nel quale si muove (la trattativa Stato-mafia); anche per le premesse dal quale muove: ovvero la presunta violazione delle prerogative costituzionali del capo dello Stato. Per questo, a distanza di una ventina di giorni dall’ultima intervista, abbiamo nuovamente interpellato il professor Franco Cordero.
Nel suo discorso per l’anniversario della morte di Paolo Borsellino, Napolitano ha fatto riferimento alla sua qualità di Presidente del Csm. Nell’anniversario dell’eccidio in via D’Amelio lodevolmente Giorgio Napolitano auspica scavi profondi, fuori d’ogni cautela motivata da cupe “ragioni di Stato”, senonché gli ultimi eventi intorbidano l’aria. Nel predetto discorso formulava direttive sul come condurre le indagini, ritenendo compito suo vegliare, quale presidente del Csm. Frase da soppesare: non intendiamola nel senso d’una censura d’atti giudiziari esercitata dall’altissima sede; la disciplina dei processi è codificata; gl’interventi sovrani erano fenomeno d ’ ancien régime (ancora nell’art. 68 dello Statuto Albertino, 4 marzo 1848, “la giustizia emana dal re”).
Mettiamo a fuoco i termini del caso che ha visto ascoltato Napolitano sul telefono intercettato dell’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino. La mossa incongrua è contestare l’iter giudiziario palermitano. Dei pubblici ministeri ritengono false le dichiarazioni d’un ministro degl’Interni a proposito d’oscuri rapporti Stato-mafia: v’indagano; N. M. era sottoposto a legittimo controllo telefonico; manda insistenti appelli ai consiglieri del Quirinale; sollecita aiuti irrituali; conversa anche col Presidente. Qui esplode l’imprevedibile conflitto “tra poteri dello Stato” (art. 134 Cost.).
Era o no ascoltabile il Presidente? L’assunto è che l’ascolto fosse abusivo, contro un “divieto assoluto”: parole da non udire; non se ne possa tenere alcun conto; e i relitti vadano eliminati senza ritardo. Discorso nient’affatto plausibile. Sia detto en passant, rifluiscono categorie del pensiero-fantasia arcaico: vedi James George Frazer, Il ramo d’oro, o Marc Bloch,I re taumaturghi; ancora Carlo X Borbone, 31 maggio 1828, sfiora con le dita gli scrofolosi, recitando una formula meno impegnativa (“il re ti tocca, Dio ti guarisca”). Siamo in Italia, XXI secolo, anno Domini 2012. La questione non è mistica, magica o metafisica ma giuridica: quando detti del Presidente passano nei telefoni d’un intercettato, gli operatori devono tagliare corto, inorriditi?; e l’empio materiale va subito ridotto in cenere, qualunque cosa contenga, salvi i casi d’alto tradimento o attentato alla Costituzione?
Parliamo della norma secondo cui le parole in questione non sarebbero mai ascoltabili e tantomeno registrabili. Non esiste. E se esistesse nella Carta o in leggi ordinarie, sarebbe residuo del folklore primitivo.
Proviamo ad analizzare le ragioni addotte nel decreto del Quirinale che solleva il conflitto d’attribuzioni.
Il decreto 12 luglio nomina due fonti. Secondo l’art. 90 Cost., il Presidente non risponde degli atti inquadrabili nelle sue funzioni, tranne alto tradimento e attentato alla Costituzione: vero e nessuno lo nega; stiamo parlando d’altro, del come usare o no parole d’un dialogo telefonico. Né gli giova l’art. 7, comma 3, l. 5 giugno 1989 n. 219: a carico Suo gl’inquirenti possono disporre intercettazioni et similia solo dopo che la Corte competente a giudicarlo l’abbia sospeso dalla carica; qui nessuno aveva disposto ascolti del Quirinale; l’intercettato era l’ex ministro. Due situazioni non equiparabili. Il giudice sottopone a controllo dati telefonici: l’ancora ignoto interlocutore appartiene a una cerchia indeterminata; sarà identificabile quando abbia parlato. Immaginiamo una norma concepita così: “Le parole del Presidente, comunque captate, anche in via fortuita, non esistono nel mondo delle effettualità giuridiche e i reperti vanno subito clandestinamente distrutti”; sarebbe invalida perché i processi elaborano possibili verità storiche nel contraddittorio delle parti; e può darsi che la decisione giusta dipenda dalle emissioni verbali obliterate; i segreti ostano alla cognizione critica; in ossequio a una mistica patriottarda li invocavano falsari reazionari nell’ affaire Dreyfus.
Si parla di “vuoto normativo” per la legge sulle intercettazioni, in riferimento appunto al caso delle intercettazioni indirette di persone protette dall’immunità: c’è davvero un vacuum? Corrono voci d’una lacuna e l’augurio è che sia colmata dalla Consulta. Non vedo lacune. Il caso è previsto dalla l. 20 giugno 2003 n. 140, contenente norme sui processi relativi alle “alte cariche dello Stato”. Gli artt. 4 e 6 regolano due contesti: che sia disposto l’ascolto delle predette persone; o conversino con l’intercettato (distinzione capitale, l’abbiamo visto), allora spetta al giudice dire se le parole intruse siano o no rilevanti nella res iudicanda. Consideriamo la seconda ipotesi: non interessano, ma sul punto vanno udite le parti in camera di consiglio; indi, se quel giudice non ha mutato avviso, i materiali saranno distrutti. Se mai noterei come il meno tutelato qui sia chi ha interesse all’uso del materiale in questione. Tale procedura seguono gl’inquirenti palermitani: l’avevano detto, che quei discorsi siano irrilevanti; l’imputato, o quasi tale, chieda l’incidente camerale (art. 6, c. 1); e tutto finisce lì, pacificamente. Il decreto 12 luglio dichiara guerra postulando un tabù nemmeno formulabile in moderna lingua giuridica.
La Procura di Firenze aveva già intercettato Napolitano. Infatti non è il primo accidente del genere. Era avvenuto nell’aprile 2009: la voce del Presidente captata sulle linee del sottosegretario Guido Bertolaso, sul quale la Procura fiorentina indagava in tema d’appalti: frasi irrilevanti; nessuno ha eccepito la prerogativa; e figurano ancora agli atti nel processo traslato a Perugia, tanto poco importavano. Nessuno insidia i vertici dello Stato, largamente tutelati dalle norme. In sede storica notiamo come l’intero affare nasca da una gaffe omissiva: non sarebbe successo niente se quando l’ex ministro bussava telefonicamente alla porta del Quirinale, i consulenti gliel’avessero gentilmente chiusa; non erano cose delle quali fosse corretto parlare.
Crede che un eventuale accoglimento da parte della Consulta, possa costituire un pericolo per il futuro?
Cos’avverrà nel giudizio instaurato dal Presidente è materia prognostica, dove valgo poco: lasciamola ai cultori delle voci tra le quinte; in logica del diritto direi pensabile solo un responso negativo, nel senso che la Procura palermitana non abbia violato alcun limite.
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lunedì 23 luglio 2012
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