mercoledì 25 luglio 2012

Alemanno beve l'amaro calice l'Acea non si può vendere

Il Consiglio di Stato blocca la vendita della quota municipale del gigante dell'acqua. Il Campidoglio dovrà prima discutere gli oltre 23mila ordini del giorno presentati da tutte le opposizioni. E' il secondo stop per il sindaco di Roma in una settimana. Si ricandida, ma è sempre più isolato.

ilmanifesto.it Andrea Palladino
Per chi avesse ancora qualche dubbio sull'assioma «si scrive acqua ma si legge democrazia», la sentenza del Consiglio di stato sulla vicenda della romana Acea è illuminante. In una paginetta scarsa i giudici amministrativi hanno sostenuto ieri una tesi semplicissima: le regole del gioco vanno rispettate, sempre. Più o meno lo stesso qualche giorno fa aveva scritto la corte costituzionale, cassando le leggi di Berlusconi e di Monti sui servizi pubblici locali. Due colpi in una settimana, che rilanciano la battaglia per i beni comuni e per il rispetto sostanziale delle regole democratiche.
La vicenda di Acea, che ormai dura da diversi mesi, ha dimostrato come le lobby della privatizzazione non amino particolarmente la via istituzionale. Gianni Alemanno aveva provato a creare un corridoio veloce - e illegale - nel consiglio comunale di Roma per approvare la vendita del 21% delle quote in mano all'amministrazione capitolina della società romana. I 23 mila emendamenti presentati dall'opposizione erano stati spostati, paradossalmente, a dopo il voto, liberando il campo da ogni possibile ostruzionismo. Dopo il ricorso al Tar - che non aveva accolto le ragioni dei consiglieri di opposizione - il consiglio di stato ieri ha stabilito la priorità assoluta dei diritti della minoranza. La discussione, seppur dura e ostruzionistica, dovrà esserci e almeno questa volta Alemanno dovrà rispettare tutte le regole.
E' una privatizzazione bipartisan e antica quella di Acea. Dal 1999 il comune di Roma è un semplice socio di maggioranza, con in mano il 51% delle quote della società per azioni che gestisce l'acqua in diversi ambiti idrici (Roma e Frosinone nel Lazio, Publiacqua a Firenze, solo per citare i comuni maggiori) e la rete elettrica della capitale. La privatizzazione era iniziata nel 1998, quando la giunta guidata da Rutelli aveva deciso di chiudere l'esperienza della gestione comunale degli acquedotti, nata nel 1907. Il primo passo fu la trasformazione della municipalizzata in società per azioni; subito dopo l'amministrazione comunale mise sul mercato il 49% delle azioni, creando uno dei primi esempi in Italia di società mista pubblico-privata. Fu subito chiaro chi in realtà governava nel consiglio di amministrazione. La francese Suez già nel 2002 iniziò a racimolare le azioni, divenendo il primo socio privato, stringendo un patto di ferro con Acea per conquistare la Toscana. Le tariffe, da allora, hanno iniziato a salire, garantendo utili milionari - anche grazie al 7% di remunerazione garantita per legge - per il settore acqua. Dopo l'arrivo di Alemanno è iniziata l'ascesa del gruppo Caltagirone, che oggi ha in mano il 14% delle azioni. Il costruttore romano è uno dei poteri forti indiscussi nella capitale, grazie anche al controllo del principale giornale della città, Il Messaggero, le cui cronache politiche contano molto nello spostamento dei voti moderati.
Su questi scenario si è inserita la proposta di Gianni Alemanno di cedere un ulteriore pacchetto di azioni, pari al 21%, facendo perdere la maggioranza assoluta al comune nell'assemblea dei soci. A dare un assist al sindaco di Roma è stato prima il governo Berlusconi, con l'articolo quattro della legge 138 dello scorso anno, norma poi cassata venerdì dalla Consulta, e poi il governo di Mario Monti, che aveva rafforzato con il pacchetto liberalizzazioni l'obbligo di cessione delle quote delle municipalizzate. In teoria il settore acqua - uno dei principali business di Acea - era escluso, ma un'interpretazione un po' lasca delle norme - invocata proprio da Caltagirone - era stata utilizzata come scudo politico. Alemanno aveva poi legato la cessione delle azioni alla situazione critica del bilancio comunale, puntando ad incassare i 200 milioni previsti dalla vendita nei mesi immediatamente prima delle elezioni. Un'operazione essenziale, continua a ripetere, pensando ad una primavera elettorale complicatissima.
L'opposizione in consiglio comunale ha deciso di puntare molte carte su questo passaggio cruciale, sapendo di intercettare il largo movimento per l'acqua pubblica, deciso ad impedire un'ulteriore svendita dopo il referendum. Ora dopo lo stop del Consiglio di stato la strada per la giunta di destra è tutta in salita, con il rischio di far saltare anche l'approvazione del bilancio, rimescolando le carte a meno di un anno dal voto. Con un vecchio leit-motiv della politica, che oggi a Roma suona beffardo: le elezioni i sindaci le vincono o le perdono sull'acqua.

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