mercoledì 25 luglio 2012

Padri divisi nella fabbrica di cioccolato "Lascio il posto a mio figlio, anzi no"

La proposta della Nestlè imbarazza i lavoratori della Perugina. Fa discutere l'idea di uno scambio con un giovane per chi riduce l'orario di lavoro. E per domani i sindacati hanno proclamato lo sciopero

repubblica.it di JENNER MELETTI
SAN SISTO (PERUGIA) - Un bicchiere di bianco al bar, a fine turno. "A me questa proposta piace. Mio figlio ha 29 anni e non trova nulla da fare. Un call center prima, la consegna di lettere per una posta privata, tutto il giorno in giro a sue spese per portare a casa venti euro quando va bene... Con la proposta della Nestlé, io avrei meno soldi ma anche meno ore di lavoro, e lui avrebbe finalmente uno stipendio, sia pure basso, e anche i contributi". Fa discutere molto, l'idea della Nestlé, di trasmettere quasi in via genetica parte del lavoro dei padri ai figli disoccupati. I sindacati, compatti, hanno già alzato le barricate, e dicono che "solo qualche disperato può accettare una cosa come questa". "Facendo i conti - dice Sara Palazzoli, della Flai Cgil - si scopre che tagliando lo stipendio del papà e chiamando al lavoro il figlio a paga ridotta, invece di produrre ricchezza "famo du poveri", creiamo due poveri".
L'uomo che beve il bianco non la pensa così. "Nessun nome, per favore. Qui ci conosciamo tutti e l'altro giorno in assemblea tutti abbiamo detto no alla Nestlé. Domani faremo anche sciopero. Ma io credo che per mio figlio entrare qui sarebbe un passo avanti. Sei assunto per pochi mesi ma intanto ti fai conoscere, e se la crisi passa hanno già il tuo nome". Anche A., una sua collega, vorrebbe lasciare una fetta di lavoro e di busta paga alla figlia. "Ho 57 anni, tagliare 10 ore alla settimana non sarebbe male. Il lavoro non è pesante ma si fanno i turni, giorno e notte. E poi la mia ragazza vorrebbe mettere su casa". "Quanti sono quelli che possono passare il lavoro ai figli? Noi - raccontano Andrea Rosigni e Marco Ballerani, della Rsu - non abbiamo nemmeno fatto i conti, tanto la proposta l'abbiamo respinta. Ma in questi ultimi anni quattrocento lavoratori, i più anziani, sono andati prima in mobilità e poi in prepensionamento (e fra di loro ci sono anche molti esodati). Noi pensiamo che l'età media sia sui trentacinque anni, e che i lavoratori che potrebbero chiamare qui i figli non siano più di una quindicina". Voci diverse, e soprattutto numeri diversi, arrivano dal quartier generale della Nestlé a Milano. "A noi risulta - dice Gianluigi Toia, direttore Industrial Relation della multinazionale - che l'età media di chi è assunto a tempo pieno e indeterminato (è a loro che facciamo la nostra proposta) sia di 50 anni. E secondo i nostri conti sono almeno 100 i figli dei dipendenti che potrebbero entrare in azienda. La Perugina è una fabbrica di cioccolato, e il prodotto, per essere venduto, deve essere fresco. Per questo abbiamo bisogno di più gente in un periodo più limitato, quello prima della consegna. Ci sono operai che aspettano la pensione e con le nuove leggi non possono riposare.

Allo stesso tempo impediscono l'ingresso di forze fresche. Perché non chiedere loro di ridurre le ore settimanali da quaranta a trenta, con la possibilità di offrire uno stipendio ai loro figli? Si fa presto a fare i conti: il padre perde il 25% del salario ma il figlio ha uno stipendio pari al 75% di quello a tempo pieno. In pratica, in una famiglia, invece di uno stipendio ne arriva uno e mezzo".
Non si fermerà a Perugia, la proposta della Nestlé. "In Italia - dice Gianluigi Toia - abbiamo 5.600 dipendenti e fra di loro, anche qui in centrale, ci sono quelli che sognavano di andare a casa a 55 anni e invece debbono aspettare una decina d'anni. Anche a loro faremo discorsi simili a quelli di Perugia, magari non legati soltanto al passaggio dai padri ai figli. Potranno fare anche i tutor dei giovani, seguirli nei primi mesi... L'accusa di fare entrare in azienda solo i figli dei dipendenti? Non è automatico. Chi accetta la riduzione d'orario chiede l'ingresso del ragazzo ma saremo noi a valutare. Se non va bene, il figlio resta a casa, il padre continua a lavorare al 100% e tutto è come prima".

Entri nella "Fabbrica del cioccolato" - nata nel 1907 - e sembra davvero di essere dentro un film. Chi visita il museo storico (ingresso 5 euro) cammina su una lunga passerella che dall'alto mostra ogni momento della lavorazione. Nastri trasportatori pieni di Baci Perugina, cioccolatini che vengono messi nelle scatole da ragazze e signore con grembiule bianco... Per gli operai la fabbrica è stata anche un sogno. Ci sono l'asilo nido, il centro estivo per i figli dei dipendenti che chiude soltanto quando finisce il turno in fabbrica, alla mensa puoi scegliere fra tre primi e tre secondi. Ci sono anche i polipetti al guazzetto e il tutto costa 60 centesimi di euro. "E adesso - raccontano gli operai Alessio e Loris - questa grande multinazionale salta fuori con questa proposta degna di un supermercato. Compri due, paghi uno, solo che qui tutto è rovesciato. Paghi uno e fai lavorare due. E non è solo questione di stipendio: se accetti, ti mangi anche un bel pezzo di pensione. Questo è un discorso da bottegai, non da multinazionale".

Più che rabbia, c'è delusione. "I lavoratori - dice Sara Palazzoli - si sentono messi da parte, come se da 105 anni non contribuissero a fare grande la Perugina. Credo che il passaggio padre-figlio sia solo uno specchietto per le allodole. Nello stesso piano la Nestlé ha proposto cose ben più pesanti. Per la bassa stagione, da marzo a giugno, ha chiesto i contratti di solidarietà. Si lavora meno, si lavora tutti, e si porta a casa il 40% in meno. Quando la produzione si alza, ecco allora l'orario 6 per 6, sei ore al giorno per sei giorni. Così lavori anche il sabato e non ti pagano lo straordinario. Resti in fabbrica per 36 ore e per essere pagato le 40 del contratto devi metterci tu quattro ore di ferie. Anche in passato abbiamo accettato contratti come il 6 per 6, ma solo per certi reparti, come le uova di Pasqua, che avevano bisogno di crescere. Ora si vogliono soltanto tagliare i costi. E non si fanno progetti veri. La Nestlé investe 500 milioni nel caffè in cialde in Spagna, Inghilterra e Germania, e nulla qua da noi. Queste sono le cose da discutere". Finisce un altro turno. "Non voglio rinunciare ai miei diritti", dice Gianna. "A mio figlio continuerò a passare parte del mio stipendio". C'è ancora orgoglio, nella fabbrica del cioccolato. "Ma lo sa che i Baci si fanno a colata, non con lo stampo? Lo sa che nessuno è uguale all'altro?". 
(25 luglio 2012)

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