È possibile fare un breve e disincantato
bilancio del governo Monti? La prima, avvilente constatazione, è che in
quasi 9 mesi di "riforme" e di "vertici decisivi" la montagna del
debito pubblico italiano non è stata neppure scalfita. Anzi si è fatta
ancora più alta e imponente. Il debito ammontava a 1.897 miliardi di
euro nel dicembre 2011, oggi è arrivato a. 1.966. Dunque, la ragione
fondamentale della nostra condizione di rischio, la causa causarum
delle nostre difficoltà presenti e future si è ulteriormente aggravata.
Lo spread si mantiene elevato e torna sui 500 punti.
ilmanifesto.it Piero Bevilacqua*
Il Pil - questo
vecchio totem delle società capitalistiche - è nel frattempo diminuito e
diminuirà ancora. Scenderà di oltre il 2% nel 2012. Dicono gli esperti
che si riprenderà nel 213. Ma per quale felice congiunzione degli
astri non è dato sapere. Qui, infatti, la scienza economica si muta in
astrologia, dà gli oroscopi. L'elenco dei disastri non è finito.
La disoccupazione è aumentata, quella giovanile in particolare. Per quella intellettuale in formazione il governo propone ora di aumentare le tasse universitarie, così potrà essere efficacemente ridotta... Una nuova tassa sulle famiglie italiane di cui occorrerebbe informare l'on. Casini, che ne è uno zelante difensore.
Nel frattempo le più importanti riforme realizzate dal governo incominciano a mostrare effetti indesiderati che pesano e peseranno sull'avvenire del Paese. Prendiamo la riforma delle pensioni, sbandierata dai tecnici al governo come lo scalpo di un mostro finalmente abbattuto.
Pur senza considerare qui il grande pasticcio dei cosiddetti esodati, che pure costituisce un dramma inedito per migliaia di famiglie, la riforma appare come un'autentica sciagura economica e sociale. L' allungamento dell'età pensionabile ha già bloccato l'assunzione di migliaia di giovani nelle imprese. Vale a dire che essa impedirà l'ingresso nelle attività produttive e nei servizi di figure capaci di portare innovazione e creatività. Mentre riduce ulteriormente prospettive e speranze di lavoro alle nuove generazioni. Quale slancio può venire da una società se si chiede agli anziani di continuare a lavorare sino alla vecchiaia e ai giovani di aspettare, cioé di invecchiare senza lavoro? Ma le imprese dovranno tenersi lavoratori logorati e demotivati sino a 65 anni e oltre. Chiediamo: è questo un incentivo alla crescita della produttività, fine supremo di tutte le scuole economiche?
E' facile infatti immaginare - salvo ambiti
limitati in cui l'anzianità significa maggiore esperienza
tecnico-organizzativa - che questi lavoratori saranno più facilmente
vittime di infortuni, che contrarranno più malattie , si assenteranno
per stress, ecc. Dunque peseranno sul bilancio dello stato,
probabilmente in maniera più costosa che se fossero in pensione. Non
meno fallimentare appare la riforma del lavoro della ministro Fornero. A
parte la razionalizzazione di alcuni aspetti di una normativa
ingarbugliata, essa ha peggiorato la condizione dei lavoratori occupati.
Come hanno mostrato tante analisi pubblicate sul manifesto, questi
sono oggi più ricattabili da un padrone che può licenziarli con
maggiore facilità tramite un indennizzo monetario. Nel frattempo la
giungla legislativa del lavoro precario non è stata cancellata. I
giovani, pochi, che entrano nel mondo del lavoro fanno ingresso nel
regno dell'insicurezza, non diversamente da quanto accadeva in
precedenza. Ma quanta nuova occupazione creerà questa rivoluzione
copernicana della supponente ministro? Perché le imprese straniere
dovrebbero precipitarsi a investire nel nostro Paese, dove prevale una
forza-lavoro anziana, le università e i centri di ricerca sono privi
di risorse, la pubblica amministrazione è in gran parte inadeguata,
illegalità e criminalità sono fenomeni sistemici, dove spadroneggia un
ceto politico fra i più inetti e affaristici dell'Occidente? Questi
ultimi due aspetti, ovviamente, non sono addebitabili al governo Monti,
ma fanno parte ineliminabile del quadro nazionale di cui occorrerebbe
tener conto. Ebbene, dove ci porterà questo governo nei prossimi mesi?
Economisti e media continuano il loro
estenuato ritornello: faremo riforme strutturali, la formula magica che
dovrebbe dischiudere la spelonca di Alì Babà, deposito di immensi
tesori. Quali riforme strutturali? Forse la nazionalizzazione delle
banche, una tassazione stabile sulle transazioni finanziarie, il 3% del
Pil destinato alla formazione e alla ricerca, la creazione di un
sistema fiscale progressivo, una tassa stabile sui patrimoni, una
grande legge urbanistica che protegga il nostro territorio e faccia
vivere civilmente le nostre città? Niente di tutto questo.
Le riforme strutturali sono state già fatte
e sono quelle che abbiamo esaminato e ora la spending review, che
avrebbe bisogno di tempi lunghi e di circostanziata conoscenza della
macchina statale per non diventare un'altra operazione di tagli
lineari. Quale di fatto è. Deprimerà ulteriormente la domanda
aggregata, con quali effetti sul Pil ce lo comunicheranno nei mesi
seguenti, invocando qualche altro vertice decisivo. Ma il repertorio
pubblicitario è in realtà esaurito. Proveranno con la svendita dei beni
pubblici, ma non avranno né il tempo né l'agio. Chi dice dunque, a
questo punto, che il re è nudo, che il governo Monti ha fallito? Il
fallimento è certo globale. Sono ormai cinque anni che le società
industriali navigano nella tempesta e gli uomini di governo, che hanno
salvato le banche dalla rovina, protetto i potentati finanziari da
tracolli su vasta scala, sono ancora col cappello in mano a chiedere
comprensione ai grandi speculatori, definiti mercati.
Cinque anni nei quali si potevano separare
le banche di credito dalle banche d'affari, bandire i prodotti
finanziari ad alto rischio, riformare le agenzie di rating,
regolamentare i movimenti di capitale, chiudere i paradisi fiscali,
applicare la Tobin tax, ecc. Eppure niente è stato fatto. La finanza
spadroneggia e il ceto politico ubbidisce, demolendo pezzo a pezzo, su
suo ordine, le conquiste sociali del XX secolo. E chiama riforme
strutturali questo cammino all'indietro verso il XIX secolo. In Italia
non si è fatta eccezione. Ma oggi occorre aggiornare il quadro. Non si
tratta più, per gli italiani, come alla fine dello scorso anno, di
scegliere fra uno dei peggiori governi dell'Italia repubblicana e la
strada di una cura severa e dolorosa, ma che alla fine ci porterà fuori
dalla catastrofe. Oggi non si da più questa alternativa.
Il governo Monti ha solo ritardato la
discesa del paese nell'abisso per un comprensibile effetto psicologico.
Oggi appare nella sua piena luce di «governo ideologico», come lo
chiama Asor Rosa: esso è la malattia che vuol curare i sintomi, acuendo
le cause che ne sono all'origine. E' l'ideologia che domina a
Bruxelles. Lo abbiamo visto con la Grecia, lo stiamo osservando con la
Spagna. Un medico che dovrebbe dare ossigeno al malato e continua a
tagliare col bisturi. Prima il "risanamento" e poi la crescita è un
vecchio ritornello, che oggi appare tragicamente fallimentare. La
presente crisi, com'è noto ormai a molti, origina dalla sproporzione
fra l'immensa ricchezza prodotta a livello mondiale e la ridotta
capacità della domanda di attingerla.
Troppe merci a fronte di redditi popolari
stagnanti e in ritirata, sostenuti con il surrogato dell'indebitamento
familiare. La politica di austerità, dunque, rende più grave la crisi
perché ne ripropone e alimenta le cause. Premi Nobel come Stiglitz e
Krugman lo vanno ripetendo da mesi, anche sulla stampa italiana. Forse
qualcuno dovrebbe rammentare ai dirigenti del partito democratico che
in autunno le condizioni economiche generali del paese saranno
peggiorate. E che agli occhi degli italiani il perdurante sostegno a
Monti finirà col rendere tale partito interamente corresponsabile di un
fallimento di vasta portata. La sua prudenza e il suo tatticismo si
trasformeranno in grave irresponsabilità. Perché la forza politica che
dovrebbe costituire e aggregare l'alternativa, non solo di facce, ma
anche di politiche economiche, apparirà irrimediabilmente compromessa.
Parte indistinguibile del mucchio castale che ha fatto arretrare le
condizioni generali del Paese.
Un vuoto drammatico che, temiamo, la
sinistra radicale non riuscirà a colmare e che indebolirà il tentativo
di una nuova "rotta d'Europa": vale a dire l'alleanza con le sinistre
europee per cambiare strategia, a cui gruppi e singoli intellettuali
vanno lavorando da tempo. Appare a tal proposito molto significativo
che un giornalista come Eugenio Scalfari, uno dei più convinti
sostenitori del governo Monti nell'area liberal progressista, abbia
preso le distanze con tanta eleganza, ma con tanta fermezza, nel suo
editoriale su Repubblica del 15 luglio. Che abbia più fortuna di
Stiglitz e di Krugman ?
www.amigi.org.
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