Ingroia è un magistrato serio. Ma per far intuire a che punto le istituzioni centrali dello Stato abbiano interferito con l'azione di altre, come la magistratura, deve ricorrere a giri tortuosi di parole.
Le sue sortite però non sono mai banali e restituiscono con grande realismo la "solitudine" in cui si muove chi, per convinzione propria oltre per generico obbligo istituzionale, "cerca la verità", facendo ballare sulle poltrone molti altri poteri dello stesso Stato.
Sulle stragi mafiose del '92 «abbiamo finalmente varcato l'anticamera della verità, ora siamo entrati nella stanza della verità. Pensavamo, però, di trovare una stanza illuminata, invece era buia. Qualcuno aveva sbarrato le finestre e qualcuno aveva fulminato le lampadine. Siamo da soli e con le candele».
Le sue sortite però non sono mai banali e restituiscono con grande realismo la "solitudine" in cui si muove chi, per convinzione propria oltre per generico obbligo istituzionale, "cerca la verità", facendo ballare sulle poltrone molti altri poteri dello stesso Stato.
Sulle stragi mafiose del '92 «abbiamo finalmente varcato l'anticamera della verità, ora siamo entrati nella stanza della verità. Pensavamo, però, di trovare una stanza illuminata, invece era buia. Qualcuno aveva sbarrato le finestre e qualcuno aveva fulminato le lampadine. Siamo da soli e con le candele».
Lo ha detto ieri sera intervenendo ieri sera a Palermo alla commemorazione di Paolo Borsellino nel ventennale della strage di via D'Amelio. «Leggendo in questi giorni i giornali - ha aggiunto - con commenti illustri di giuristi, giornalisti e politici, ho notato che nessuno purtroppo vuole illuminare quella stanza buia della verità». Men che meno il Quirinale, dovrebbe pensare il letore dei giornali.
Sempre durante il suo intervento, più volte interrotto dagli applausi, Ingroia ha ribadito: «c'è il perpetuarsi dell'allergia alla verità. Da parte della politica non è mai stato fatto un passo avanti per l'accertamento della verità». E ancora: «Vogliamo che nessuno dica alla magistratura di fare passi indietro sull'accertamento della verità».
«Per accertare la verità sulla strage di Borsellino, prima ancora che domandarci chi uccise Paolo, dobbiamo interrogarci sul perchè Paolo è stato ucciso, ha detto ancora. Era questa la stessa domanda che Borsellino si poneva a pochi giorni dalla morte dell'amico e collega Giovanni Falcone. In tutti noi che al tempo eravamo lì in via d'Amelio c'era la consapevolezza che c'era qualcosa di anomalo in quella strage, di quasi unico che non si spiega solo con il fatto che Paolo era un nemico giurato di Cosa Nostra».
A noi il suo discorso sembra abbastanza chiaro.
Un tantino più esplicito il suo collega Di Matteo. «Andando avanti nelle indagini abbiamo percepito sempre più crescere la diffidenza e il fastidio verso le stesse. Molti erano convinti che queste non avrebbero portato a nulla o al massimo ad una richiesta di archiviazione».
Lo ha detto il pubblico ministero della Dda di Palermo Nino Di Matteo, intervenendo ieri sera a Palermo nella stessa cerimonia. «Quando poi è stato chiaro che si sarebbe arrivati ad una contestazione di reato e forse anche ad un processo ecco che si è fatto evidente il cambiamento. E quel malcelato fastidio è diventato un manifesto attacco per delegittimare in partenza le inchieste ed i magistrati che le conducono. Un attacco continuo ha aggiunto Di Matteo quando autorevoli esponenti politici che hanno definito i magistrati di Palermo come schegge eversive della magistratura con obiettivi intimidatori, e che è poi continuato anche su certa stampa che ha chiesto provvedimenti disciplinari a nostro riguardo. Nessuno ha ritenuto di dover intervenire per difendere e proteggere l'autonomia e la dignità personale dei magistrati, nè il ministro della Giustizia nè il Csm, nè l'Anm nei suoi organismi centrali, che danno voce ad un assordante silenzio. Mi auguro che assieme all'isolamento non tornino i rischi che questo porta. Certo forse rispetto al passato la forza militare di Cosa nostra è più debole ma non è sufficiente questa speranza per accettare il rischio della delegittimazione e dell'attacco continuo. Noi continueremo a fare il nostro dovere, a cercare le verità senza paure, anche quelle verità troppo scomode, senza cedere allo scoramento e alla tentazione della polemica e della rassegnazione. A chiedercelo è la sete di verità e giustizia della parte migliore di questo Paese, oltre a tutti i nostri morti, come Falcone e Borsellino, e l'amore per il nostro Paese», ha concluso.
La domanda è: di che tipo di Stato stiamo parlando, se almeno una parte della magistratura è costretta a prendere atto che lo Stato che serve rifiuta i risultati del suo lavoro? Quant'è fetida la fogna su cui il potere politico ha regnato nel dopoguerra?
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