Come tutti i reazionari, il presidente del consiglio Monti ha affermato che la rovina dell’Italia sono i sindacati. Naturalmente lo ha affermato nel suo linguaggio bocconiano, parlando di concertazione, ma il significato sociale delle sue parole è chiaro, così come quello democratico. Monti è interprete di un potere borghese multinazionale che considera ogni vincolo sociale un ostacolo allo sviluppo degli affari. Marchionne, che non deve accontentare l’ipocrisia del Partito democratico, dice le stesse cose con ben più aspro tono. La risposta sindacale, in particolare della Cgil, a queste affermazioni è stata penosa. Voi non vedete i meriti di una concertazione che ha salvato l’Italia, siete irriconoscenti! E’ vero, ma proprio questo dato di fatto dovrebbe richiedere risposte meno subalterne.
La concertazione in Italia comincia con la cosiddetta svolta dell’Eur nel 1977/78. Allora Cgil, Cisl e Uil scelsero la linea dei sacrifici, della moderazione salariale e della flessibilità normativa e da allora non hanno abbandonato più quell’impostazione. Naturalmente non tutte le forme della concertazione furono eguali. Esse si sono spesso intrecciate con i passaggi della politica. Craxi e Berlusconi hanno cercato di forzare il quadro per escludere la Cgil e prima il Pci e poi il Pd, trovando sostegno in Cisl e Uil. I governi di unità nazionale e quelli di centrosinistra hanno invece perseguito, per ovvie ragioni, una concertazione bipartizan e inclusiva di tutto il sindacalismo confederale. Ma un punto di fondo è stato comune a tutto il percorso della concertazione. Essa proponeva uno scambio garantito dal potere dello Stato e accettato dalsistema delle imprese.
Lo scambio era tra la riduzione dei diritti e del salario dei lavoratori e la crescita del potere istituzionale del sindacalismo confederale. Ci sono stati alti e bassi, accordi peggiori e migliori, ma questa è stata la tendenza e la caratteristica di fondo della concertazione italiana. I sindacati finora si sono salvati, i lavoratori no. Oggi Monti rifiuta questo scambio. Egli infatti non solo deve peggiorare le condizioni del lavoro, ma deve dimostrare che lo fa in fretta e senza condizionamenti, così come esigono i padroni dello spread. Non può più rispettare quanto affermato dallo scomparso Padoa Schioppa, che in una intervista al “Corriere” del 2006 spiegava che il suo obiettivo era lo stesso della signora Thatcher, ma che aveva bisogno di più tempo per realizzarlo, con la concertazione.
Oggi la finanza, le banche e la loro Europa non aspettano e Monti, così come Fornero e Marchionne, deve scontare in Borsa l’umiliazione sindacale. Cosa che ha puntualmente fatto. Per questo la concertazione è morta e ogni volontà di riaffermarla potrà servire alla campagna elettorale del centrosinistra, ma non porterà da nessuna parte. Al sindacato italiano sono oramai riservate solo due strade. La prima è quella di ritirarsi nel corporativismo aziendalista, naturalmente con le aziende che ci stanno. Camusso e Squinzi insieme contro Monti, per capirci. A me pare questa una ritirata ulteriore, della quale i lavoratori pagherebbero tutti i prezzi e che peraltro si presenta anche priva di reale concretezza. L’altra via è quella di ricostruire il sindacalismo del conflitto e del cambiamento sociale, con un nuovo programma e una nuova pratica, abbandonando una strategia che dopo trent’anni è giunta al capolinea. E che ha portato i lavoratori italiani in una delle peggiori condizioni del mondo industriale, senza risolvere uno solo dei problemi del Paese.
(Giorgio Cremaschi, “La concertazione è fallita, viva il conflitto”, da “Micromega” del 13 luglio 2012).
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