Viviamo
in un paese di ciechi, e i media ne sono i primi responsabili. Come
nelle peggiori dittature fasciste, le notizie che smentiscono la
“narrazione” dominante non esistono. E quando pure sono costretti a darle, devono essere sminuite e depotenziate nelle loro implicazioni destabilizzanti.
Questo fenomeno è facile da vedere nel caso dei movimenti sociali e politici, ma è ancora più ferreo – se possibile – con i fenomeni economi, politici e internazionali che svuotano ciò che resta del “pensiero unico della globalizzazione”, incrinato definitivamente dalla crisi iniziata nel 2007-2008.
La Brexit, per esempio, è stata affrontata ridicolizzando uno dopo l’altro i leader britannici fautori dell’uscita dalla Ue.
Compito facile, in effetti, con gente come Farage e Boris Johnson, un po’ meno con Theresa May; ma comunque molto al di sotto della semplice necessità di capire le implicazioni della Brexit.
Il solo fatto che dopo 70 anni un paese di prima fila rompa il patto originario, cui aveva aderito sempre con molte riserve, avrebbe dovuto far capire che un’era volge al tramonto. Si è preferito negarlo e minacciare – in forma di “previsioni autorevoli” sui giornali, molto più direttamente nelle sedi istituzionali – sfracelli economici dopo questa dolorosa “rottura”.
Ciò che sta morendo, lo diciamo da qualche anno ormai, è la fase storica della cosiddetta “globalizzazione”. Quella situazione per cui le “dinamiche di mercato” prevalgono e si impongono a tutte le altre formazioni istituzionali (Stati, governi, alleanze regionali, ecc), il che implicava anche un rovesciamento forte di dominanza della sfera economica – costitutivamente internazionale, perché globali, sulla sfera politica.
Ma questa prevalenza sempre più ferrea – come spiega perfettamente l’editoriale di Guido Salerno Aletta, sabato scorso, su Milano Finanza – ha fortemente destabilizzato la coesione sociale interna di tuti i Paesi più avanzati, o a “capitalismo maturo”, man mano che la manifattura per le merci di massa (inevitabilmente quella meno innovativa) veniva delocalizzata in Paesi di nuova industrializzazione (e con salari infinitamente più bassi).
Creando con ciò malessere sociale e squilibri finanziari, nei conti correnti e nel debito pubblico. La necessità di “frenare” la spesa pubblica, di conseguenza, impediva e impedisce agli Stati di prendere misure efficaci per ridurre il malessere sociale, migliorando in vari modi le condizioni di vita di grandi masse di popolazione che vanno impoverendosi.
Una tenaglia da cui, capitalisticamente, si esce nel solito modo: riportando il pendolo verso la prevalenza del nazionalismo – impropriamente e carognescamente chiamato “sovranismo” – che punta a costruire una maggiore coesione sociale da un lato concedendo misure di “sollievo” per la condizione popolare, dall’altro indicando “falsi nemici” per stornare l’attenzione da quelli veri: multinazionali, finanza, banche, classi dirigenti arraffatutto.
Johnson come Trump, Salvini come Orbàn, sono le risposte – per ora – a questa “esigenza capitalistica non più globalizzante”.
Non ci sembra casuale che tra le prime azioni dopo il sugello finale alla procedura per la Brexit, i conservatori britannici abbiano messo in cantiere due “riforme” che erano da qualche anno nel programma del nuovo Labour targato Jeremy Corbyn: la nazionalizzazione delle ferrovie (privatizzate dalla loro principale icona, Margareth Thatcher!) e l’aumento del salario minimo di oltre il 6%.
Non si tratta solo di “misure politiche populiste” utili a consolidare il consenso verso i “nuovi conservatori sovranisti”. Sono misure necessarie a dare stabilità al sistema, ricostruendo un ambito “corporativo” in cui il rafforzamento della produzione capitalistica va di (impari) passo con una maggiore disponibilità di spesa in mano ai lavoratori.
E’ già successo, quasi cento anni fa. Il nazismo, per esempio, dopo che il capitale tedesco aveva spezzato la resistenza del movimento operaio, sviluppò il mercato interno in modo da garantire che la produzione avesse un “mercato” in grado di assorbirla. Per questo aumentò in modo sensibile i salari interni, chiamando addirittura altra manodopera dai paesi fascisti alleati (i gastarbeiter).
Un meccanismo che, come sappiamo, implica delle conseguenze inevitabili: la sovrapproduzione che comunque si crea va scaricata “conquistando mercati” per le proprie merci. Dunque con guerre commerciali, con la manovra sui dazi, i limiti all’immigrazione o ai diritti degli immigrati, fino alla conquista vera e propria di altri territori da controllare in via esclusiva.
Un qualcosa che può avvenire inizialmente anche per via pacifica – come con i trattati dell’Unione Europea, che hanno ridisegnato le filiere produttive europee in funzione di quelle tedesche – ma a lungo andare è generatore di guerre vere e proprie. Il neocolonialismo francese nell’ex France Afrique ne è un corollario altrettanto evidente.
Se questa è la dinamica per “nuovo presente” post-Brexit, in cui le cose diventano più chiare e confliggenti, che speranza ha chi pensa di “fermare il fascismo” schierandosi – elettoralmente e non solo – con quella frazione del grande capitale (i Benetton, per dirne uno) che insiste a difesa delle dinamiche della “globalizzazione” contro le esigenze dei popoli? Come i leader liberali europei degli anni ’30, anche oggi lentamente si vanno avvicinando ai fascisti, proponendo politiche di fatto identiche (l’autonomia differenziata, i “decreti sicurezza”, ecc) e indicando nemici “stranieri” di ogni genere (allora l’Unione Sovietica, oggi Cina, Russia, Iran, Venezuela, altri che possono entrare in classifica in qualsiasi momento).
Rompere con questo schema bipolare della paura e affermare un punto di vista che mette insieme, obbligatoriamente, una visione di classe e gli interessi dell’umanità in quanto tale, è il tremendo compito che abbiamo davanti. Ma l’alternativa è fare gli schiavi ciechi in un sistema agonizzante, che preferisce “morire con tutti i filistei” piuttosto che rinunciare al dio Profitto.
Buona lettura. Ma soprattutto, buone riflessioni. Tutto questo ci riguarda, anzi, ci costringe a prendere posizione e non essere “indifferenti”…
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Cambia il mondo, dopo la Brexit
Guido Salerno Aletta – Milano Finanza (01 febbraio)Il 2020 è cominciato con un filotto, messo a segno dai “sovranisti”: il 15 gennaio è stato firmato l’Accordo tra Usa e Cina sulla fase 1 delle trattative commerciali su base bilaterale; il 29 gennaio, sempre a Washington, il Presidente Donald Trump ha firmato l’USMCA, il nuovo Trattato con Messico e Canada che sostituisce il Nafta; lo stesso giorno, a Bruxelles, il Parlamento europeo ha approvato le modifiche proposte dal Premier britannico Boris Johnson al Withdrawal Agreement, spianando definitivamente la strada alla Brexit, dopo l’approvazione da parte del Parlamento britannico resa definitiva il 23 gennaio con il Royal Assent.
Da ieri 31 gennaio alle 23, ora di Greenwich, la Gran Bretagna non fa più parte della Unione europea. Niente sarà come prima.
Finisce un’era, dunque, in Occidente: sulla base di precisi verdetti elettorali, la Gran Bretagna da una parte e gli Usa dall’altra hanno risolto a favore dei rispettivi Stati il trilemma in base a cui la globalizzazione è incompatibile con la democrazia e con la sovranità nazionale.
Secondo i fautori del globalismo, gli Stati sarebbero un intralcio e la Democrazia va tollerata come un inutile orpello, perché entrambi interferiscono con la metrica del mercato, sinonimo di equilibrio: le decisioni vanno dunque assunte a livelli sovranazionali, da parte di tecnocrazie apolidi, in modo tale da rendere irrilevanti ad un tempo sia i confini tra gli Stati che le volontà popolari.
L’Ordoliberismo (la variante teorico-pratica del neoliberismo nata in Germania e imposta come imprinting ai trattati dell’Unione Europea, ndr) è una sorta di religione laica, secondo cui il ruolo degli Stati è soltanto quello di rendere quanto più efficiente possibile il mercato, costi quel che costi.
E’ dunque perfettamente inutile votare, come diceva Wolfang Schaeuble, l’allora Ministro delle finanze tedesco ed ora Presidente del Bundestag, al suo collega greco Janis Varufakis durante le trattative per definire le misure di salvataggio e le contropartite di austerità: anche se si cambiano i Governi, le regole rimangono immodificabili. L’Unione Europea, con i Trattati di Maastricht ed il Fiscal Compact, è emblematica di questa gerarchia dei poteri.
Il vento contrario alla globalizzazione spirava forte già da anni, ma i benpensanti vi si sono opposti con sdegno, bollandolo come un atteggiamento non solo eticamente deteriore quanto intrinsecamente pericoloso: il populismo travalica comunque nel nazionalismo ed è foriero dei conflitti già visti: dapprima commerciali, quindi militari.
D’altra parte, anche l’ultimo trentennio dell’800 fu caratterizzato da una forte globalizzazione dei mercati e dall’affacciarsi di nuovi Paesi produttori di materie prime ed in agricoltura: alla violenta deflazione dei prezzi che ne derivava, si reagì con una ancor maggiore competizione produttiva che aggravò il fenomeno. Lo sfruttamento delle colonie era insufficiente a riequilibrare i conti esteri, il Gold Standard impediva la svalutazione della moneta, e la guerra mondiale fu l’esito inevitabile di un conflitto, all’inizio tutto europeo, tra blocchi imperiali.
Stavolta, dopo la crisi americana del 2008 e quella europea del 2010, ogni tentativo di contrastare gli effetti negativi della globalizzazione, al proclamato fine di proteggere l’occupazione e la produzione nazionale, è stato considerato prodromico ad un conflitto incontenibile. Senza riflettere mai sul fatto che sono stati gli squilibri strutturali sull’estero, finanziari e commerciali, degli Usa, dell’Irlanda, della Grecia, del Portogallo e della Spagna, a determinare il collasso dei mercati. La libertà dei commerci, senza equilibrio, è insostenibile.
Il Conservatore Boris Johnson portando a compimento la Brexit ed il Repubblicano Donald Trump con le sue guerre doganali hanno segnato la fine del sogno neoliberista proclamato dai loro rispettivi predecessori di partito: da Margareth Thatcher, che fu Premier del Regno Unito dal 1979 al 1990, e da Ronald Reagan che fu Presidente degli Usa dal 1981 al 1989.
Siamo di fronte al fallimento di due strategie parallele: il Big Bang finanziario propugnato dalla Thatcher e la New Economy sostenuta da Reagan non sono stati in grado di promuovere una creazione di occupazione e di reddito in grado di rimpiazzare il declino della manifattura dopo quello dell’agricoltura. Non è casuale il fatto che, nell’accordo con la Cina, gli Usa abbiano preteso un maggior export soprattutto per i prodotti agricoli e manifatturieri, inserendo quelli energetici al fine di assicurare un mercato a prezzi sostenuti dalla maggior domanda estera. Il peso dei servizi finanziari è rimasto marginale: i voti si contano, non si pesano.
In entrambi i casi, siamo di fronte ad un’onda lunga. Il Referendum sulla Brexit, tenutosi nel 2016, non fu determinato solo dalla strenua contrarietà di David Cameron alla introduzione nei Trattati europei del Fiscal Compact, dell’ESM e della Banking Union: Cameron aveva già espresso nella campagna elettorale del 2013 la volontà di rinegoziare le condizioni di partecipazione del Regno Unito nell’Unione.
Nel 2016, la campagna presidenziale di Donald Trump, che ebbe come slogan “Make America Great Again”, fu tutta impostata sulla necessità di riequilibrare i conti esteri, modificando i Trattati multilaterali che avevano penalizzato i lavoratori americani ad esclusivo vantaggio del Big Business e delle Multinazionali: Trump, appena eletto, ha messo sotto tiro l’avanzo commerciale strutturale di Cina, Messico, Canada, Giappone, Corea del Sud, Germania e Turchia. Dopo due anni di batti e ribatti, ha ottenuto dalla Cina l’impegno ad incrementare il proprio import dagli Usa per 200 miliardi di dollari in due anni; anche nei confronti dl Messico e Canada, con l’USMCA che sostituisce il Nafta che risale al 1994, ha ottenuto per gli Usa condizioni commerciali assai più favorevoli.
Non è casuale il fatto che ad abbandonare il tradizionale multilateralismo commerciale ed istituzionale siano due Paesi, Gran Bretagna e Stati Uniti, che hanno un rilevante passivo strutturale della bilancia dei pagamenti correnti, determinato soprattutto dalla componente merci che non viene compensata dai servizi finanziari, e che non è risolvibile a monte attraverso la svalutazione della moneta.
Gli squilibri socioeconomici e territoriali interni a questi due Paesi sono stati determinanti: l’occupazione prevalente nel settore dei servizi non ha compensato dal punto di vista reddituale i precedenti impieghi nel comparto manifatturiero mentre i redditi agricoli devono essere comunque sussidiati, più o meno direttamente. Se, ormai da lungo tempo, non è più il surplus della produzione delle campagne che consente l’urbanizzazione e l’industrializzazione, ma sono queste ultime a sostenere l’agricoltura, l’apertura progressiva ai mercati internazionali di prodotti agricoli e manifatturieri più convenienti in termini di prezzo ha reso sempre meno praticabile questa compensazione fiscale. Lo stesso settore manifatturiero scompare, sotto la pressione della globalizzazione modellata sul dumping sociale, fiscale ed ambientale.
Non è affatto casuale, quindi, che sia stato comune anche il tema del contrasto alla immigrazione incontrollata, che comporta la concorrenza sleale del lavoro in nero: non solo Donald Trump ha fatto del completamento del muro alla frontiera con il Messico un cavallo di battaglia elettorale, ma ha preteso un salario minimo più elevato per i lavoratori che in Messico producono automobili da vendere negli USA.
Cameron, parimenti, negli Accordi presi con Bruxelles e respinti nel referendum che ha dato luogo alla Brexit, aveva contrattato limiti più stringenti per la erogazione dei sussidi sociali e di disoccupazione agli immigrati europei, sempre più numerosi dopo la crisi del 2010.
D’ora in avanti, l’immigrazione in Gran Bretagna sarà gestita preferendo le qualifiche professionali più elevate.
Dopo la Brexit, il futuro delle relazioni commerciali tra Gran Bretagna ed Unione europea si fonda su un requisito che trova posto nella Dichiarazione politica, che ha valore di indirizzo: per quanto riguarda la competizione commerciale su un piano di gioco livellato, non c’è più l’impegno ad un allineamento dinamico agli standard dell’Unione, ma solo quello a non regredire rispetto ai livelli esistenti al termine del periodo di transizione.
In ordine al commercio di beni, mentre si conferma che Uk ed Ue saranno due mercati distinti, viene meno il riferimento al “single custom territory” per via dello speciale trattamento doganale riservato all’Irlanda del Nord e della creazione di una frontiera interna, con l’impegno ad accordi ambizioni per evitare frizioni doganali e per combattere le attività illegali.
C’è una questione dirimente: l’ambito di libertà che avrà il Regno Unito nel fare trattative commerciali autonome con altri Paesi. Non facendo più parte del Mercato interno europeo e non essendo neppure membro della Unione doganale, se le relazioni commerciali tra Uk ed Ue avverranno sulla base di un “accordo di libero scambio”, ciò potrebbe essere incompatibile con un accordo simmetrico tra Uk ed Usa, magari aderendo all’USMCA, visti i dazi imposti dalle altre due parti, Usa ed Ue.
Sarebbe però inconcepibile che, una volta importate a dazio zero dagli Usa in UK, le stesse merci potessero essere riesportate nella Ue evitando i dazi. Serve un paradigma nuovo.
Siamo già di fronte allo sdoppiamento del sistema delle relazioni internazionali: accanto a quello mercatista tradizionale su cui si basano il Wto e l’Ue, indifferente agli squilibri strutturali che determinano crisi ricorrenti, se ne sta formando un altro, guidato dagli Usa, che ripropone il modello delle relazioni intrattenute dall’Antica Roma con gli Stati clienti, laddove ai benefici concessi corrispondevano vincoli ed obblighi altrettanto precisi. L’accesso al gigantesco mercato americano sarà garantito in cambio, innanzitutto, dell’equilibrio nelle transazioni commerciali.
La Brexit segna una cesura ancora più netta, che non riguarda solo il processo aggregativo europeo: disconosce in modo radicale un progetto di relazioni internazionali in cui l’istanza economica e monetaria prevale sovranamente su quella democratica e nazionale.
Di Occidente ce n’è sempre uno solo, ma la globalizzazione mercatista non è più al suo zenit.
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