giovedì 27 febbraio 2020

Libro. “Biscotti della fortuna”: un libro politico (ma non nel senso che credete voi).

È ora di smettere di fare film che parlano di politica. È ora di fare film in modo politico, affermava Jean-Luc Godard. 

micromega ELETTRA SANTORI

Non è distante da questa prospettiva, Gabriele Pedullà, quando definisce “Biscotti della Fortuna” il suo libro più politico: affermazione impegnativa, di cui si rischierebbe di smarrire la pertinenza se non inquadrassimo questa raccolta di racconti - la seconda dopo “Lo spagnolo senza sforzo”, che segnò l’esordio di Pedullà in narrativa - in un’atmosfera da Nouvelle vague, dove il “come” del narrare conta più del “cosa”, e lo “stile” sbaraglia la devozione al messaggio.

elettrasantoriIn un periodo in cui le produzioni della narrativa, del cinema e persino del pop si fanno sempre più testimonial di buone intenzioni e, come navi Ong, si caricano di messaggi morali di inclusione e liberazione, colpisce questo libro in cui manca ogni esplicito accenno alle dominanti del dibattito pubblico attuale - migranti, tematiche Lgbt, condizione della donna - e che purtuttavia il suo autore definisce “politico”.
Sull’accezione da dare al termine, è bene intendersi. Viviamo in un’epoca in cui è il politico di professione (nelle sue punte salviniane, per capirci) ad aver assunto il ruolo che un tempo era della rockstar: rottura dei codici di comunicazione, strappi alle convenzioni, sfregi istituzionali, provocazione, trasgressione di assunti morali consolidati nell’élite intellettuale.
Ma quando è il politico di professione a sfasciare metaforicamente la chitarra sul palco come Kurt Cobain, c’è il rischio che l’arte assuma il ruolo-contraltare di moralizzatrice, divenendo, per reazione, una brava ragazza dai sani principi e dal parlare pulito.
Nasce da qui quell’eccesso pedagogico, a volte stucchevole e controproducente, che si nota in alcune delle penne ufficiali della cultura letteraria italiana.

Sfugge, deo gratias, a questa tentazione iper-didattica il libro di Pedullà, senza peraltro cadere nell’intrattenimento. I temi più politici della sua raccolta - la sconfitta della sinistra, la paranoia del terrorismo post 11 settembre, gli inesorabili formalismi gerarchici che operano all’interno delle multinazionali  - non sono mai affrontati di petto, ma quasi, potremmo dire, presi per la tangente, occasionati da episodi laterali e secondari, ed esitano a volte nell’increspatura di un sorriso ironico: «Ci hanno sconfitti - ci hanno sconfitti loro. E un po’, diciamolo, ci siamo sconfitti anche da soli», scrive in Rouge ’89 l’io narrante in morte di un amico con un passato marxista, poi asceso ai vertici della BCE, «Volevamo l’internazionalismo, e ci siamo limitati a sposare un’americana e una svedese; dicevamo che ci si salva solo tutti assieme, e abbiamo imparato a convivere serenamente con i nostri successi professionali».
La scrittura di Pedullà non è mai quella diretta di chi vuole andare al dunque: ama girare intorno al focus del racconto, lasciandosi andare alla flânerie di ricordi e digressioni, srotolando una miccia lunga che si accende spesso solo verso la fine della storia. Passeggia nelle esili trame dei racconti quasi senza meta, come Jean Seberg e Jean-Paul Belmondo nella Parigi di Fino all’ultimo respiro; sosta tra le tombe del cimitero di Père-Lachaise, si inoltra tra i localini newyorkesi del Village e nei cineclub parigini del Quartiere Latino (questa cinefilia da Cahiers du Cinéma, altra conferma dell’esprit da Nouvelle Vague che permea la raccolta). In questo bighellonare libero da mode e temi imposti, non mancano alcune pagine toccanti, in cui la scrittura di Pedullà si abbandona a un pathos che sembra richiamare nobili ascendenti: tra gli esempi, una puerpera descritta con un cromatismo che ricorda una Natività rinascimentale (Rouge ’89), un lutto ostinato che si esprime con una ruvidezza e un parlato dialettale da letteratura neorealista (La morte dura a lungo), un volo notturno intercontinentale in cui due sconosciuti prossimi ad innamorarsi si addormentano castamente affiancati (Quando la città dorme), come Tristano e Isotta che, nel poema di Goffredo di Strasburgo, pudicamente dormivano insieme separati da una spada nuda.
Elettra Santori
(26 febbraio 2020)

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