venerdì 28 febbraio 2020

Il circolo vizioso tra bassa istruzione e povertà.


In questo nuovo articolo della rubrica di Equilibrio Precario vogliamo occuparci della connessione tra disuguaglianze sociali ed istruzione andando a decostruire una narrazione dominante che presenta il mondo della formazione come fondato su una brillante meritocrazia che premia sempre i più bravi e “giustamente” lascia indietro chi non ha le “skills” per affrontare un mondo del lavoro flessibile che richiede giovani lavoratori sempre più smart e competitivi.
Riferendoci, al di là dell’ideologia, alla realtà vediamo una situazione ben diversa: chi non ha le competenze adatte non è un incapace ma viene da una condizione economica svantaggiata che non gli permette di frequentare scuole di qualità e la meritocrazia diventa un modo per giustificare le enormi disuguaglianze economiche e sociali.
Da sempre sottolineiamo come il modello economico capitalistico genera uno sviluppo ineguale di diverse aree geopolitiche, il quale a sua volta viene rafforzato dalla “controrivoluzione” neoliberale, iniziata negli anni ‘80, che ha visto l’introduzione di una serie di leggi in materia di lavoro, di istruzione, di previdenza sociale, sanitaria ecc., aventi l’obiettivo di piegare i diritti sociali al profitto e promuovere l’interesse privato a discapito di quello pubblico.

Questo sviluppo ineguale, imposto dall’Unione Europea soprattutto per la gestione, con l’austerity, della crisi economica, emerge ormai chiaramente dai dati e dall’analisi del quadro generale, tant’è che ormai anche i giornali mainstream non riescono più a nasconderla, nonostante il goffo tentativo di mostrare il fenomeno come marginale.
In Italia, nello specifico, sono usciti una serie di articoli sul tema che sottolineano come la disuguaglianza e la povertà siano molto più sentite al Centro-Sud, ma che al tempo stesso l’impatto è diverso all’interno degli stessi territori a seconda della classe di appartenenza e dell’età, risultando ancora più feroce nei confronti dei giovani, della classe dei salariati e dei subalterni, nonché per le fasce sociali più deboli.
Con lo scopo di avere una fotografia più chiara del fenomeno, smascherando gli effetti di un modello economico e sociale insostenibile, ne presentiamo una descrizione per cercare di cogliere i trend più rilevanti e soprattutto per mostrare l’assenza totale di mobilità sociale, le relazioni centro-periferia che si stanno sempre più rafforzando e l’attacco fortissimo perpetrato nei confronti delle nuove generazioni che, tra le fasce di popolazione, sono tra quelle che soffrono di più questo modello.
I dati Istat sulla povertà in Italia[1] indicano un aumento del numero di poveri assoluti, persone che non possono permettersi le spese essenziali per condurre uno standard di vita minimamente accettabile. Nel 2017 e nel 2018, il dato si attesta su 5 milioni di persone, ovvero l’8,4% dei residenti in Italia. In particolare, il dato è tragico per le bambine e i bambini: un povero assoluto su 4 ha meno di 18 anni.
Con la crisi, infatti, i minori sono la fascia demografica che ha visto peggiorare di più la propria condizione: se nel 2005 si trovava in povertà assoluta il 3,9% dei giovani con meno di 18 anni, nell’ultimo decennio questa percentuale è più che triplicata (12,6% nel 2018). La situazione più grave riguarda i bambini tra 7 e 13 anni: il 13,4% è povero.
Questi dati allarmanti mostrano anche un circolo vizioso tra bassa istruzione e povertà: nelle famiglie senza diploma la povertà assoluta è quasi 3 volte più frequente di quelle dove la persona di riferimento è diplomata o laureata. La tendenza è aggravata da una scarsissima mobilità sociale. Nel nostro paese i figli di chi non è diplomato, tendono a loro volta a non diplomarsi, instaurando così un circolo vizioso tra condizione economica ed educativa: chi nasce in una famiglia povera ha a disposizione meno strumenti per sottrarsi a questa condizione. Un problema sociale, perché rende la povertà ereditaria e finisce con l’aggravare la situazione dei territori già deprivati.
Questo legame è visibile anche a livello territoriale. Il Mezzogiorno ad esempio si caratterizza per livelli di povertà assoluta più elevati (11,4% di persone povere, contro il 6,9% del nord e il 6,6% del centro Italia), ed è anche l’area del paese con i livelli d’istruzione più bassi. Infatti, agli ultimi posti per percentuale di adulti diplomati figurano tutte le regioni meridionali più popolose: Puglia, Sicilia, Sardegna, Campania e Calabria.
I dati Almalaurea, elaborati dal Sole24Ore, confermano chiaramente che chi parte svantaggiato in termini economici, ci resta. Abbiamo bassissimi tassi di giovani laureati rispetto al resto d’Europa (la quota di 25-64enni che posseggono un titolo di studio secondario superiore è stimato al 61,7% nel 2018, ben al di sotto della media europea che è pari al 78,1%[2]), soprattutto fra le fasce meno abbienti, anche perché nel nostro paese si aggiunge il gap della scelta della scuola superiore.
Nell’anno scolastico in corso il 55% dei ragazzi frequenta il primo anno di un liceo, il 30% un istituto tecnico e il 15% un istituto professionale, ma già questa prima scelta produce un divario di classe importante: solo un iscritto a un liceo classico o scientifico su 10 è figlio di operai o impiegati, il 17% dei diplomati professionali sceglie di andare all’università, e solo uno su tre di coloro che prima del diploma intendeva iscriversi all’università, l’ha effettivamente fatto.
Chi proviene da famiglie più svantaggiate, non solo in termini economici, ma anche di titolo di studio dei genitori, di fatto studia di meno e quando anche arriva a iscriversi all’università, sceglie corsi di laurea più brevi. Anche nel tasso di abbandono scolastico incide la provenienza sociale e quella territoriale[3]. In media, in Italia, poco meno di 15 giovani su 100 hanno abbandonato gli studi prima di arrivare al diploma o a una qualifica professionale di almeno 2 anni. In 3 regioni meridionali, Sardegna, Sicilia e Calabria, la percentuale supera il 20%. In Campania e Puglia oscilla tra il 18 e il 19%. Ma i divari, nel nostro paese, non emergono solo dal confronto tra le regioni, ma dentro le stesse regioni possono coesistere divari molto ampi. La Liguria è quella con i divari interni più ampi: al dato di La Spezia (4,8% di abbandoni nel 2017) si contrappone quello di Imperia (22,2%). Un gap interno che quindi è pari a 17,4 punti percentuali.
I divari risultano particolarmente ampi anche in Toscana e Sardegna. Nella prima, la quota di abbandoni di Arezzo (22%) supera di quasi 16 punti quella di Firenze (6,4%). L’analisi per province, del resto, mostra che anche nelle regioni del Nord ci sono realtà dove l’abbandono è diffuso ai livelli del Mezzogiorno. È il caso ad esempio di Liguria e Piemonte, dove si trovano le 2 province con il maggior abbandono scolastico dell’Italia settentrionale: Imperia e Novara. Due casi interessanti, visto che in entrambe le regioni la quota di abbandoni è inferiore alla media nazionale, sebbene si collochi al di sopra della soglia europea del 10%.
Tali disuguaglianze perpetuano nel mondo del lavoro o meglio del “non lavoro”.  Infatti, spostandoci nel settore occupazionale i dati ci confermano che queste tendenze si riverberano nell’occupabilità, dove vediamo un Sud sempre più arretrato in cui negli ultimi due trimestri del 2018 e nel primo del 2019 gli occupati sono calati di 107 mila unità (-1,7%), mentre nel centro Nord sono cresciuti di 48 mila unità (+0,3%) nello stesso periodo[4].
Per di più, l’Italia si aggiudica il primato rispetto agli altri paesi europei riguardo ai Neet: nel 2018 i Neet (Not in Education, Employment or Training) sono 2.189.000, confermando il problema strutturale dell’inclusione e della partecipazione dei giovani all’interno del mercato del lavoro e dei percorsi formativi. Nel Mezzogiorno, però, l’incidenza dei Neet è più che doppia (33,8%) rispetto al Nord (15,6%), mentre al Centro è del 19,6%[5].
Gli effetti delle disuguaglianze che si riflettono quindi sulle scelte dei giovani non sono solo legate all’istruzione bensì anche al lavoro e questo comporterà un inasprimento in termini di migrazioni interne in primo luogo e verso i paesi core dell’UE in secondo luogo. Il rapporto Svimez[6] ci offre un quadro entro il quale l’Italia si muoverà, tenendo a mente un progressivo rallentamento dell’economia italiana.
Chi verrà leso maggiormente da questa situazione è ancora una volta il Sud. Continuando a citare la fonte Svimez, gli emigrati dal Sud tra il 2002 e il 2017 sono stati già oltre 2 milioni, di cui 132.187 solo nel 2017. Di questi ultimi 66.557 sono giovani (50,04%, di cui il 33% laureati). Il saldo migratorio interno al netto è negativo per 852 mila unità. Nel 2017 sono emigrati dal Meridione 132 mila persone, con un saldo negativo di circa 70 mila unità.
Conclusione: se nasci povero e da genitori senza titoli di studio morirai povero e senza titoli di studio. Fin dalla scuola superiore inizia la selezione di classe soprattutto con la maggiore polarizzazione tra scuole di serie A e di serie B che negli ultimi anni è ancora aumentata con l’introduzione dell’Alternanza Scuola Lavoro (Legge 107) che sarà “buona alternanza” nelle scuole di alto livello dove le famiglie ricche possono addirittura spendere soldi per un’alternanza scuola lavoro all’estero, e significherà friggere patatine al McDonald’s nelle scuole dequalificate di fasce periferiche.
Come abbiamo visto, all’università neanche ci arrivano i figli di genitori poveri e senza titoli di studio tanto che il sistema universitario italiano sta avendo una regressione da università di massa ad università d’élite a causa delle tasse altissime e dei finanziamenti statali che non vengono utilizzati per il diritto allo studio o distribuiti in maniera equa tra gli atenei per evitare disuguaglianze, ma per creare poli d’eccellenza e favorire l’ingresso di aziende private nella ricerca.
Le disuguaglianze economiche e sociali imposte dal modello di produzione capitalistico soprattutto a partire dalla gestione della crisi da parte dell’Unione Europea vengono ancora accentuate dal sistema formativo che al posto di essere una possibilità di emancipazione diventa vera e proprio scuola di classe. Per capire fino in fondo le differenze di classe fomentate dal sistema scolastico e per fare chiarezza sugli interessi che stanno dietro, occorre far riferimento al piano europeo.
La costruzione dell’Unione Europea come polo competitivo a livello globale è fondata su uno sviluppo ineguale ossia su un’Europa a due velocità: da un lato i paesi del centro e del nord con economie forti ed industrializzate, dall’altro i paesi del sud e dell’est che hanno la funzione di essere mercati di sbocco e di fornire materie prime per le merci prodotte nel centro e soprattutto procurano manodopera a basso costo ai paesi del centro.
In questo contesto, il nostro paese, con le poche università ad alto livello formativo che ha (per esempio poli di serie A quali l’Università di Bologna, il Politecnico di Milano e alcuni atenei privati) forma una ristretta élite di giovani (provenienti di solito da famiglie già economicamente avvantaggiate, come abbiamo mostrato sopra) che, non trovando lavoro in Italia, emigrano nei paesi del centro e, molto probabilmente, andranno a far parte dall’alta classe dirigente dell’Unione Europea.
Per tutti gli altri giovani studenti con una condizione di partenza più svantaggiata le strade sono due: o rimanere in Italia ad ingrossare le file dei disoccupati o dei precari (seppur siano riusciti ad ottenere anche un’alta preparazione formativa), oppure tentare la via dell’emigrazione in Germania, Francia ed Inghilterra finendo spesso a fare i lavapiatti o altri lavori estremamente dequalificati e comunque pagati pochissimo.
Quindi, allargando lo sguardo, le disuguaglianze che notiamo a livello della scuola e dell’università italiana derivano in realtà da un assetto europeo fondato su uno sviluppo diseguale in cui il nostro paese ha il ruolo di fornire manodopera qualificata ai paesi del centro e del nord.
Per riuscire a primeggiare nella competizione globale è fondamentale, per la dirigenza dell’Unione Europea, avere un cosiddetto “capitale umano” molto qualificato capace di lavorare in ambiti come quello dello sviluppo e dell’innovazione tecnologica e industriale. Nei documenti riguardanti gli obiettivi strategici dell’Unione Europea viene spesso scritto che l’Unione Europea punta a diventare una delle economie della conoscenza più forti al mondo. Così diventa chiara l’importanza della formazione e dell’alta ricerca tanto che l’ultimo Programma Quadro sulla formazione a livello europeo è il più alto finanziamento mai stato stanziato dell’UE dalla sua nascita all’inizio degli anni ’90.
Dietro alla costruzione di una formazione classista sia a livello nazionale sia a livello europeo stanno gli interessi dei grandi gruppi industriali e dirigenti dell’Unione Europea che, attraverso lo sfruttamento dei risultati dell’alta ricerca, cercano di competere con le altre potenze globali. Pensiamo che il primo passo per ribaltare questo sistema sia quello di individuare i responsabili e creare strumenti d’analisi che ci aiutino a distinguere tra narrazione ideologica e realtà e tra interessi di pochi e interessi di molti.

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