Ma davvero avete creduto che in virtù dell’emergenza sanitaria sareste stati esentati dalla quotidiana somministrazione di menzogne e baggianate?
Anna Lombroso
Ieri ne circolava una in forma di buona novella: pare che ci siano possibilità concrete che si inneschi un processo di liberazione della donna e che il suo profeta sia Giorgio Armani.
Lo stilista, celebrato per la sua eleganza sobria e refrattaria a certe esuberanze ordinarie e pacchiane, si è infatti espresso al termine della sfilata dei suoi modelli della collezione Emporio, con un anatema indirizzato alla corporazione cui appartiene in qualità di monarca indiscusso e con una amara autocritica. “Le donne, ha dichiarato, continuano ad essere stuprate dagli stilisti e mi ci metto anche io. .. la signora che vede un manifesto con seni e sedere fuori su di una pubblicità gigantesca, pensa “anche io voglio mostrarmi così”…. Questo significa violentare le donne ad essere quello che non vogliono o che non gli si addice”.
La moda e il fashion si sarebbero macchiati insomma di un abuso reiterato, né più né meno di uno stupro, imponendo alle donne di adeguarsi ai trend resi obbligatori dal mercato cool e rischiando il “ridicolo”, mentre “compito degli stilisti”, continua l’invettiva del creativo cui si deve eterna riconoscenza per aver inventato i coprispalla destrutturati e quel delicato e raffinato color greige caro a donne che hanno spaccato con carriere folgoranti il soffitto di cristallo, “dovrebbe essere quello di migliorare la donna di oggi”.
Ofelè fa el to mesté! nella sua Milano direbbero così di uno che depone forbici e spilli per impartire lezioni di varia umanità.
Invece tocca leggere garrule e fervide voci femminili esprimere il loro ammirato consenso, che meriterebbe uno sconto in boutique come si favoleggia succeda da sempre alle croniste della moda, combinando il plauso per lo ieratico sacerdote del look con l’approvazione per le originali denunce del guru emancipazionista.
Mi pareva si sottraesse al servo encomio un articolo sul Fatto che concludeva “grazie anche per averci insegnato cos’è la classe”.
A una prima lettura affrettata mi sono detta, ma vedi che forse qualche opinionista ha avuto un ravvedimento e si è ricordata che se la liberazione della donna non può avvenire meccanicamente con la sostituzione nei posti chiave, sfilate comprese, di femmine al posto dei maschi, meno che mai può essere raggiunta senza riscatto della classe sfruttata.
Macché, mi era sbagliata, la maitresse à penser rivolge un estatico ringraziamento per l’assist all’autorevole “Re Giorgio (l’ultima e unica icona di eleganza, sinonimo di buon gusto, la bandiera più raffinata del made in Italy), perché, scrive, “con queste affermazioni “rivoluzionarie” sul corpo femminile, ci sono possibilità che si inneschi un processo di liberazione della donna. Che forse, per essere autenticamente efficace, può iniziare solo nel mondo della moda dove l’aspetto esteriore è molto (anche se non tutto). ….Perciò ringraziamo Giorgio Armani, per la sua intelligenza e per la forza con cui ha comunicato questo messaggio”.
Per usare una delle formule più abusate nei social, è tutto un guardare il dito invece della luna, legittimando così tutta la possibile paccottiglia e il repertorio di scemenze messe sul mercato delle opinioni un tanto al metro.
Perché è vero che l’ideologia imperante ha dettato i canoni di una somatica di regime che vuole il popolo eternamente giovane, tonico, dinamico, scattante soprattutto sull’attenti! di maschi ambiziosi ma sottomessi all’imperativo di conquistare l’approvazione di chi sta più su e femmine investite dell’eterno ruolo della seduzione, dell’incarico di piacere che poi si sa tira più di un carro di buoi.
Ma è altrettanto vero che esiste anche una estetica di censo e padronale, che vuole i suoi appartenenti magri, discreti, anodini, asettici e quasi asessuati, quelli che possono permettersi di vestire Armani. Perché nessun seno prosperoso e populista potrebbe costringersi nella sue giacche e nessun sedere sovranista troverebbe spazio acconcio nelle sue gonne pareo, come dimostrano i divini stitici e i protervi schifiltosi che affacciati dagli spot e dai telefilm di Netflix guardano con riprovazione l’affannarsi dei sensi e deplorano i criteri grossolani e triviali, adottati dalla marmaglia dei consumatori di affetti e passioni a poco prezzo, per selezionare gli oggetti del desiderio amoroso, che si sa loro invece si incontrano in ambienti esclusivi, nelle torri di cristallo di banche e multinazionali, negli atelier di creativi, Pr, artisti minimalisti, nei resort uguali a tutte le latitudini e le pratiche di avvicinamento sono regolate negli studi legali.
E infatti non c’è da credere a quelli che raccontano che la moda nasce dalla strada, che gli stilisti fanno scouting di idee copiando le invenzioni delle ragazze che vedono camminare a Napoli, Bangkok, Seattle, o che, come racconta qualche professore innamorato di fermenti coltivati in vitro per farli circolare in appoggio all’establishment, la cultura e la creatività che una volta avevano un moto discendente adesso salgono generosamente e liberamente dalle piazze, dalle vie delle città e minacciano gli stereotipi del pensiero, delle correnti e delle convenzioni mainstream.
È sempre il mercato al servizio del sistema a decidere che divisa dobbiamo indossare. Tanto che incarica i suoi persuasori anche di indicarci le forme delle scarse ribellioni che ci sono concesse, emanciparsi sdoganando i capelli bianchi o la calvizie come segni del riscatto, disubbidendo alle imposizioni formali e superficiali del “patriarcato” accettando quelle del sistema totalitario economico e finanziario che per reprimere, sfruttare, condizionare donne e uomini, usa tradizioni e imperativi sociali e culturali mettendo o togliendo arbitrariamente per darci l’impressione di aver conquistato spazi di libertà e diritti aggiuntivi, mentre ci espropriavano di quelli primari e fondamentali che abbiamo creduto inalienabili.
Non se ne può proprio più del bon ton, dell’eleganza, dello stile che dovrebbero contrastare la violenza di pochi contro tanti, quando c’è una violenza di uno, il sistema di sfruttamento, accumulazione, dissipazione delle risorse, privazione di diritti, uno contro tutti, che trasforma forza lavoro, talento, vocazioni, desideri, aspirazioni, conoscenza, ordine sociale, cura, relazioni, corpi, benvestiti o malvestiti, in merce.
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