Ai lavoratori indeboliti dal liberismo è stato detto che era «colpa loro» e poi che era «colpa degli altri», spingendo la rabbia verso il basso per evitare andasse in alto. Ora va cambiato l'immaginario working class senza appiattirlo su bei tempi mai esistiti.
È appena uscito in traduzione italiana un libro importante, un’antologia di scritti «politici» di Mark Fisher, Il nostro desiderio è senza nome.
Scritti politici. K-Punk / 1
(Minimum Fax, traduzione di Vincenzo Perna).
Uso le virgolette per
l’aggettivo politico perché tutta l’opera di Fisher è politica, anche
quando si occupa di musica, di cinema o di letteratura.
La considero una
delle uscite più interessanti di questo autore dopo Realismo capitalista,
tradotto in italiano da Valerio Mattioli per Nero nel 2018.
Quelle che
propongo di seguito sono righe che costituiscono al tempo stesso degli
appunti di lettura del saggio di Fisher e una parafrasi del suo
pensiero. Una parafrasi che spinge le riflessioni dell’autore su ambiti
di mio interesse, forse oltre l’intenzionalità dell’autore stesso.
Con
questo non voglio circoscrivere le suggestioni che si possono trarre da
questa raccolta. Sono molti gli ambiti di cui scrive Fisher.
Io ho
provato a riflettere su cose che mi stavano a cuore, utilizzando alcuni
spunti più «operaisti» della sua opera.
Si tratta di un giacimento
prezioso di sapere militante che si può interrogare e carotare in tanti
modi diversi, a partire dalle esigenze con cui ci si avvicina alla sua
opera.
Gli operai sono ancora il gruppo sociale più consistente, anche se lavorano meno nella meccanica e nell’industria pesante e molto di più nei servizi e nella logistica.
Quel che si può dire degli operai, è che non riescono a ricostruire le reti di solidarietà di classe d’un tempo (sindacati, cooperative, organizzazioni di mutuo soccorso).
Di certo sta anche cambiando l’immaginario attorno agli operai.
Un tempo descritti come solidali, generosi e forti, oggi sono raccontati come gretti, razzisti e ignoranti, gente che vota contro i propri interessi.
Ma è davvero così? Cos’è cambiato nella classe operaia?
Provo a ragionarci sopra usando gli scritti politici di Mark Fisher come bussola.
Dopo la shock therapy delle trasformazioni imposte da Thatcher e Reagan molti lavoratori sono in trance. La frustrazione, la depressione e la rabbia covano ma non individuano spazi pubblici in cui esprimersi.
Le energie che non trovano la strada del conflitto diventano veleno che inquina i rapporti tra gli oppressi.
I lavoratori sono stati spronati dal fantasma di Margaret Thatcher a convertire la solidarietà di classe (attiva, coinvolgente, internazionalista) in competizione interna e solidarietà negativa.
Come funziona la solidarietà negativa?
Ce lo spiega Fisher: bisogna «mitigare la sofferenza per la propria mancanza di potere mediante un moralismo vendicativo, una distribuzione ad ampio raggio della sofferenza».
Per farla breve: gli altri devono soffrire quel che ho sofferto io. Mal comune, mezzo gaudio. L’opposto della solidarietà del passato.
Tossine di individualismo middleclass iniettate nel corpo della classe operaia.
Le élite neoliberali hanno provato in passato a sedurre la working class col mito dell’edonismo e delle «aspirazioni», «cetomedizzando la classe operaia». Questo è il significato più vero del «we are all middle class» di Tony Blair.
Che non poteva garantire privilegi a tutti. Il capitalismo non può dare ricchezza a chiunque, altrimenti sarebbe un socialismo dell’abbondanza.
La ricchezza è come il gioco della corda, è una coperta che se copre alcuni scopre altri.
Quelli rimasti senza coperta in passato erano definiti «feccia» o «parassiti». Era la demonizzazione della classe operaia, al centro di un importante saggio del giornalista del Guardian Owen Jones (Chav, the demonization of the working class): secondo le retoriche neoliberiste, se sei povero, te lo meriti; non ce la fai, sei un parassita che vive solo di welfare.
La miseria non sarebbe una questione sociale, per i neoliberisti è una malattia o una colpa.
Mentre il neoliberismo distruggeva le reti di protezione di partiti e sindacati operai, rimaneva una rabbia che non doveva esplodere socialmente.
Andava interiorizzata e medicalizzata con farmaci, alcol e droghe, diventati ubiqui nei quartieri operai, a Nottingham come nel Rustbelt o nelle periferie del triangolo industriale italiano.
Ma negli ultimi anni qualcosa è cambiato.
Quella rabbia operaia che rovinava in silenzio il fegato dei lavoratori poteva tornare utile politicamente. Andava solo depistata.
Si è cominciato a investire energie retoriche nell’impotenza dei lavoratori e nell’esasperazione degli abitanti delle grandi periferie, che vengono vittimizzati e gettati sul palco mediatico.
A quel punto la responsabilità della loro situazione viene indirizzata sull’alterità.
«Non è colpa vostra» (mentre prima si diceva: «se sei povero è colpa tua»).
«La colpa è degli altri». «Non di noi, attenzione», avvertono gli spin doctor di Salvini, Trump e Johson, «Guardate quelli di sinistra, non si curano più di voi». «Si preoccupano dei migranti, dei rifugiati, che vengono qui a rubarvi il welfare» («non siamo stati noi con i tagli e le privatizzazioni, giurin giurello»). «Hanno tutti i privilegi, hanno anche il cellulare» (che non è un lusso, ma una cosa che sta a metà tra un attrezzo di lavoro e un guinzaglio, ma tant’è). Insomma, «vogliono sostituire voi con loro».
«È un complotto!». I complotti non si spiegano né si smontano, si lanciano e si fanno girare, si ripetono all’infinito col metodo della reiterazione enfatica: se l’atmosfera è propizia, si diffondono.
Dosi massicce di nostalgia canaglia e nazionalismo.
Alziamo i muri, torniamo al carbone, riportiamo indietro le lancette ai bei vecchi tempi. No, non quelli degli anni delle lotte per i diritti, quando con l’antagonismo di classe avevate strappato alti salari.
Che avete capito? I nostri «bei vecchi tempi», quelli dei fascismi e dei nazionalismi.
Trump e Brexit sono riusciti a intercettare l’insoddisfazione della classe operaia. Salvini ci prova, nel suo piccolo. Vendendo non certo l’idea di un’emancipazione sociale di classe, ma di una vendetta sotto il cappello di fantasie nazionaliste.
Hanno alimentato il mito nostalgico e coloniale di un passato mai esistito – i bei vecchi tempi in realtà non ci sono mai stati – negando la complessità del presente.
A lavoratori vulnerabili e depressi, si è detto che sotto il cemento della nazione si sarebbero rimessi in piedi.
Let’s make America Great Again. Britain First. Prima gli italiani. Tutti a presidiare i sacri confini.
A una classe operaia intorpidita Trump si è spacciato abilmente come un goffo outsider pieno di eccessi, smodato, incline – per la propria «genuinità» – a battute razziste e misogine.
Al contrario Hillary Clinton sarebbe una professionista di buone maniere, una insider, nemica dei lavoratori. Vero, probabilmente, ma tanto quanto Trump.
Lui, Trump, invece si presenta come «uno di voi», «una persona comune che ce l’ha fatta».
Non importa che non abbia mai lavorato sotto un padrone perché il padrone era lui, che abbia ereditato la propria ricchezza per linea ereditaria.
Lui dice io vi assomiglio, sono come voi, sono sguaiato, sono maleducato, non so tenere la lingua a posto.
Non sono uno dell’élite, come Clinton, con le sue buone maniere moraliste.
Lo stesso, sui palchi minori delle province italiane, fa Salvini mentre scatta selfie alla sagra della polenta o va in giro con la pancia che gli esce dalla cinghia dei pantaloni.
Tra i lavoratori alcuni ci hanno creduto. Lo stress dilaga.
Le passioni tristi pure. Da anni non si vede il sole dell’avvenire.
C’è solo il no future di un lavoro noioso e malpagato.
Ansia e rabbia non trovano spazi politici o sociali e si riflettono come energie di morte dentro al corpo del lavoratore.
Che è costretto o a colpevolizzare sé stesso – è colpa tua se non hai un lavoro – o, meglio, a colpevolizzare gli altri.
In questo progetto di appropriazione politica della working class, la rabbia non può andare verso l’alto: i canali dell’odio in quella direzione sono chiusi da sapienti rubinetti.
Bisogna prendersela con chi sta peggio di noi.
Così i nuovi leader del populismo conservatore si lanciato a vampirizzare e intercettare il voto operaio. Si rivolgono «alle classi neglette», come ha dichiarato Boris Johnson nella sua visita nelle Midlands dopo la vittoria tory alle elezioni.
Ma la classe viene appiattita sulla «razza» e sul nazionalismo.
Ogni volta che usano la parola classe, dicono in realtà «operai maschi bianchi». Perché devono indebolire il fronte di classe, adesso che la classe operaia è multietnica e composta da donne come da uomini.
Devono costruire quindi un modello di classe fittizio e vulnerabile, fatto di vecchi maschi bianchi impotenti e risentiti, diminuiti, traumatizzati.
Divide et impera.
Il colpo di genio è stato quello di occultare il ruolo che personaggi come Trump, Salvini e Johnson hanno avuto nella salvaguardia degli interessi delle élite, dalla deregulation alle delocalizzazioni, dal taglio del welfare alle privatizzazioni fino all’austerity (be’, Trump queste politiche in realtà le ha solo incassate: lui non difende i padroni, lui è il padrone).
Tutto dimenticato: tirato il sasso contro i lavoratori, hanno nascosto la mano e col dito indicano altri: che siano gli immigrati o le potenze straniere (la Cina, l’Europa nel caso della Brexit, Soros).
Finché il gioco funziona, si incassano i voti. Poi si troverà un’altra strategia.
Come scrive su Jacobin Christian Parenti, «Trump si è appropriato del populismo alla Bernie Sanders, l’ha svuotato di tutti i suoi autentici contenuti di classe riducendolo a un mucchio di associazioni affettive, e l’ha utilizzato per dare addosso ai vanitosi liberal della classe manageriale di professione», come Hilary Clinton.
In definitiva, sulla pelle della classe operaia si stanno scontrando due modelli di gestione del capitalismo, due élite distinte, due fazioni dell’un percento: la vecchia guardia liberal-capitalista, che crede nella globalizzazione del capitale, e la nuova guardia nazional-capitalista, che prova a resistere alla crisi rinazionalizzando le masse.
I più furbi son passati da uno schieramento all’altro, pur di non farsi disarcionare.
La classe operaia intanto, davvero come ai vecchi tempi, fa da carne da cannone.
I partiti d’un tempo sono partiti borghesi, incapaci di incrociare le politiche dell’identità con le politiche di classe.
Molti attivisti di sinistra hanno alle spalle un consistente capitale culturale ma non hanno mai provato sulla loro pelle i traumi della classe lavoratrice.
Sono spesso classe media impoverita, che della fatica di sopravvivere ha solo una conoscenza libresca.
Tutto questo porta i lavoratori a sentirsi traditi, a non sentirsi rappresentati da chi parla a loro nome.
Bisognerà ripartire da capo. Guardando al futuro più che al passato.
Gli schemi sono saltati e la nuova chiave non potrà essere la vecchia che si è rotta nella serratura.
*Alberto Prunetti, scrittore e traduttore, è autore di 108 metri. The new working class hero (Laterza), PCSP (Alegre Quinto Tipo) e Amianto. Una storia operaia (Alegre). Per Alegre dirige la collana di narrativa Working Class.
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