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L’incredibile sproporzione tra il problema che si sta affrontando -la
scoperta e la diffusione del Coronavirus- e le misure intraprese -lo
stato d’eccezione applicato in alcune regioni e tendenzialmente
all’intero Paese- rivela qualcosa di molto profondo sulle dinamiche
sociali e di potere che stanno attraversando una società come quella
italiana, sfinita da tre decenni di cultura politica neoliberale, che,
oltre a peggiorarne pesantemente le condizioni di vita, ne ha
polverizzato ogni legame sociale.
E, sebbene questa situazione presenti anche paradossi disvelanti -il
virus è arrivato via aereo con la cravatta dell’uomo d’affari, non via
mare con gli abiti sdruciti del migrante- e qualche volta persino
divertenti -a quando il primo barcone di industriali del nordest che
cercherà di entrare in Romania e, respinto, verrà soccorso dalla prima
ong leghista con Salvini al timone?- ciò su cui occorre porre
l’attenzione sono almeno due aspetti inquietanti.
Il primo riguarda il potere e le vette di disciplinamento sociale che
sta sperimentando. Foucault diceva che le misure a suo tempo prese per
contrastare la lebbra e la peste costruivano due forme di potere
differenti e complementari con un unico scopo: quello di controllare la
società.
E se le misure prese per contrastare la lebbra si basavano sul
rigetto, l’esclusione sociale e l’abbandono degli ammalati al loro
destino, con l’obiettivo di salvaguardare la società dagli stessi e di
perseguire il sogno della comunità pura, le misure prese per contrastare
la peste si basavano sul rigidissimo controllo e sulla ripartizione
ossessiva degli individui, che venivano differenziati, incasellati e
normati, con l’obiettivo di governare meticolosamente la società e di
perseguire il sogno della comunità disciplinata.
Scriveva Foucault al proposito “Questo spazio chiuso, tagliato con
esattezza, sorvegliato in ogni suo punto, in cui gli individui sono
inseriti in un posto fisso, in cui i minimi movimenti sono controllati e
tutti gli avvenimenti registrati, in cui un ininterrotto lavoro di
scritturazione collega il centro alla periferia, in cui il potere si
esercita senza interruzioni, secondo una figura gerarchica continua, in
cui ogni individuo è costantemente reperito, esaminato e distribuito fra
i vivi, gli ammalati, i morti, tutto ciò costituisce un modello
compatto di dispositivo disciplinare”.
L’analogia con quanto sta accadendo in questi giorni è
impressionante, ma diventa inquietante se lo si paragona con la
“minaccia” che incombe: non siamo in presenza della lebbra, né della
peste, bensì di un virus del raffreddore, ovviamente da non
sottovalutare in quanto nuovo e per il quale nessuno ha di conseguenza
sviluppato gli anticorpi, ma che per virulenza e mortalità, ha una
pericolosità estremamente limitata.
Sembra evidente come le misure intraprese per contrastarlo non
rispondano ad un’esigenza di salute pubblica, ma ad una lezione di
pedagogia disciplinare di massa. Da diversi punti di vista.
Il primo dei quali riguarda i soggetti: mentre è chiaro come la
categoria veramente a rischio sia quella degli anziani con patologie
pregresse, tutte le misure sono principalmente rivolte ai bambini, ai
giovani e agli adulti.
Il secondo riguarda gli spazi: nelle zone prive di focolai sono
salvaguardati i luoghi della produttività di bambini e adulti, che
devono andare in classe e sul luogo di lavoro, ma non possono fare
nient’altro, essendo vietati tutti gli spazi della curiosità,
dell’incontro, dell’arricchimento culturale e spirituale, della
socialità.
Il terzo riguarda i tempi: la chiusura alle 18 dei locali a Milano, a
meno di immaginare ascendenze vampiresche del Coronavirus, sembra un
plateale invito all’autoisolamento nel panico individuale, dopo aver
comunque dato il proprio contributo al Pil della nazione.
L’apogeo è stato raggiunto dalla Regione Marche che, pur in assenza
di qualsiasi focolaio, nonché di qualsiasi persona ammalata, ha chiuso
tutte le scuole e proibito tutte le attività di incontro, fino a farsi
impugnare il provvedimento dal governo, che ora dovrà spiegare al
solerte governatore come, affinché la pedagogia disciplinare funzioni,
serve almeno una parvenza di shock (che so, un malato), altrimenti il re
viene visto nudo da tutti.
Questo ci porta al secondo aspetto inquietante di tutta questa
vicenda. E riguarda la società e la sua passività. Com’è infatti
possibile che tutto questo avvenga senza alcun sussulto sociale, che non
siano le battute ironiche che viaggiano via social? Come mai, da un
lato all’altro della penisola, si fa incetta di amuchina
indipendentemente dal rischio reale? Perché abbiamo accettato di
trasformare le maschere di carnevale, allegre, variopinte e
reciprocamente comunicanti, con mascherine tristi e monocolore con le
quali transitiamo su autobus e metropolitane, comunicando tensione ed
ostilità?
C’è qualcosa di molto profondo che sta emergendo in questi giorni, al
punto da aver quasi ammutolito personaggi come Salvini di fronte allo
stupore di un sogno, per quanto a sua insaputa, realizzato: un popolo
che vive di paura e che si fa disciplinare. Addirittura grato al potere
di aver finalmente identificato un nemico reale e di aver dato un nome
ad un’angoscia da insicurezza che era divenuta insopportabile.
Non si tratta di proporre eccentriche violazioni ai divieti imposti o
velleitarie chiamate all’esodo da questa situazione paradossale: si
tratta di iniziare a interrogarci tutte e tutti assieme se e per quanto
tempo continueremo a consegnare le nostre esistenze e la loro dignità a
chi, una volta utilizzando la trappola del debito per respingere ogni
rivendicazione di diritti e l’altra utilizzando un’epidemia per
disciplinare l’intera società, ci chiede di interiorizzare la solitudine
competitiva come unico orizzonte esistenziale.
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