C’è chi sostiene che l’aumento dei prezzi di beni essenziali come l’Amuchina sia «razionale». Ma la stessa teoria economica considera l'equità una componente essenziale della società, e il ruolo di disuguaglianze e oligopoli rende fondamentale il ruolo dello Stato.
Una delle conseguenze dell’ondata di panico generata dalla copertura mediatica del coronavirus è stata l’impennata dei prezzi di beni come l’amuchina e le mascherine. Secondo i dati riportati da Codacons, ripresi da Rainews,
i rincari sarebbero stati anche del 650 e del 1.700%, mentre Amazon
(che le pubblicizza come «ideali per il coronavirus») venderebbe le
confezioni da 5 pezzi a 189 euro – la stessa cifra necessaria per
aggiudicarsi un’inutile mascherina di seta griffata.
Alle (nemmeno troppe) reazioni scatenate da un simile aumento – può essere utile ricordare che nel mercato per eccellenza come quello azionario, per le cui sorti tutti quotidianamente siamo chiamati a preoccuparci, le vendite di un titolo vengono automaticamente sospese quando si verifica un aumento del 10 (dieci) per cento – autorevoli economisti e anche alcuni organi di stampa hanno sentito il bisogno di reagire in modo sprezzante, evocando la razionalità e desiderabilità dell’equilibrio sancito dall’incontro di domanda e offerta.
Una interpretazione, questa, che banalizza il pensiero economico, non solo quello eterodosso e radicale, ma quello liberale e mainstream – e che difficilmente, come sostenuto da Dani Rodrik parlando degli argomenti normalmente usati a favore del commercio internazionale, quegli stessi professori insegnerebbero o accetterebbero dai loro studenti. Dal momento che anche sul fronte della teoria economica non godiamo di un’informazione all’altezza delle «crisi» che fronteggiamo quotidianamente e, in occasioni come questa, il dibattito viene riportato come lo scontro tra il sapere economico e Lapo Elkann può valere la pena condividere cosa hanno ancora da dire sull’argomento alcuni dei più grandi economisti del passato. C’è chi, come Alessandro Guerani su Econopoly, ha opportunamente risposto con l’evidenza storica – particolarmente utile a ricordare che l’economia non tratta di fenomeni fisici, ma di comportamenti sociali, storicamente determinati, e che Amazon possa funzionare diversamente dalle economie pre-moderne; quello che qui però vogliamo fare è mostrare che, senza bisogno di contrapporre la storia o l’etica all’economia, basterebbe usare quest’ultima senza banalizzarla.
In primo luogo, partiamo da un fatto: nessuna persona democratica – anche se a questa qualifica non ritiene utile abbinare quella di socialista – può dismettere con sufficienza l’indignazione montata fra le persone comuni di fronte a questo fenomeno. Il senso di giustizia e di equità costituiscono il cemento di una società, il cuore del conflitto che la divide e che la unisce, la anima e fa progredire. Il motivo è semplice: non esiste un unico criterio del quale tutti i membri della società – a prescindere dalla posizione sociale che occupano, o dai desideri che coltivano – debbano prendere atto per valutare l’adeguatezza di un prezzo o di una remunerazione. Se tale criterio non esiste in linea teorica, la questione va affrontata – lo dovrebbero sapere gli economisti – come tutti i problemi di scelta sociale, ossia mettendo in campo scienza ed etica, conoscenza e giudizi di valore. Per fare un esempio, un economista come il premio Nobel John Hicks, nel suo libretto del 1974 sulla «crisi nell’economia keynesiana» descriveva il dissolversi di un implicito patto collettivo in base al quale i differenziali salariali fra categorie produttive, fasce di età e via dicendo, venivano un po’ da tutti considerati sostanzialmente giusti e quindi rispettati – un assetto socialmente condiviso, insomma. Secondo Hicks, a tutti gli effetti uno dei padri nobili della sintesi neoclassica oggi dominante, la giustizia e l’equità di un sistema di salari non discenderebbe dunque da principi generali teorici. Tale sistema comporta differenze ritenute eque se conformi ad abitudini interiorizzate, a un senso di giustizia condiviso.
Per avvicinarci piano piano al caso dei prezzi dell’Amuchina, senza però allontanarci dal gotha dell’accademia più rispettabile, è utile l’articolo di Kahneman, Knetsch e Thaler (un trio che comprende due futuri Nobel per l’economia), pubblicato nel 1986 sull’American Economic Review – la rivista più top cui un economista dovrebbe aspirare. L’articolo esplora empiricamente il ruolo del senso di fairness, cioè di giustizia ed equità, come vincolo alla ricerca dei profitti: non stupisce che l’82 per cento del campione intervistato ritenesse ingiusto il forte aumento del prezzo delle pale praticato da un ipotetico ferramenta all’indomani di una tempesta di neve. Sia le questioni di fairness sollevate da Hicks che quelle studiate da Kahneman e coautori mettono in evidenza, con obiettivi e in ambiti diversi, modelli di comportamento reali dai quali gli scienziati sociali, a qualsiasi parrocchia appartengano, non possono prescindere per formulare giudizi e nel prescrivere misure di politica sociale. L’indignazione, direbbero gli economisti, rappresenta un «contenuto informativo» che andrebbe considerato.
Che fare allora? Come dobbiamo comportarci quando i prezzi di beni importanti per la salute si impennano improvvisamente? Come dicevamo, la risposta fornita dai presunti difensori della scienza economica poggia su un argomento molto semplice, un meccanismo che si studia sui banchi di scuola: la legge della domanda e dell’offerta. Semplice, no? Lasciamo che i prezzi crescano: Hayek tanto tempo fa ci ha spiegato il ruolo informativo e segnaletico dei prezzi, che aumentando stimolano la produzione dei beni considerati, mentre quando diminuiscono allontanano i produttori riducendo l’offerta. In entrambi i casi, le variazioni dei prezzi indurrebbero un riequilibrio del mercato interessato. Così, se oggi è possibile trovare una boccetta di Amuchina a prezzi diverse volte più elevati di quelli praticati prima che il contagio divenisse noto, non bisogna allarmarsi: tutto ciò che occorre è aspettare che quei prezzi più elevati facciano il loro lavoro, inducendo i produttori ad aumentare il numero di flaconi immessi sul mercato, e tutto andrà a posto. Come nel caso richiamato da Rodrik, al pubblico dei non economisti vengono omesse fastidiose complicazioni, come ad esempio la natura non esattamente concorrenziale di questi mercati o il fattore tempo: qual è la quota della Angelini Pharma nel mercato dei gel disinfettanti nel quale opera con la sua Amuchina? Quali e quanti sono i potenziali concorrenti che possono insidiare la sua posizione – contribuendo all’aumento della produzione e all’abbassamento dei costi di vendita? Che tempi di reazione possiamo attenderci per ottenere un aumento dell’offerta adeguato ai bisogni, e un corrispondente attenuarsi della tensione sui prezzi? Frattanto, possiamo accettare prezzi così elevati in attesa dell’eventuale aumento della produzione?
Nessuna di queste domande emerge nel racconto semplificato realizzato a uso del pubblico. È tutto molto più semplice – tutto automatico – quindi basta aspettare: l’anonimo «mercato» farà in modo che i beni e i servizi offerti siano acquistati da coloro che desiderano farlo al prezzo vigente, considerati i gusti personali. Eppure, le domande abbozzate non sono da ignoranti, da feroci anticapitalisti o magari da complottisti incalliti, fanno parte anzi del bagaglio culturale degli economisti che conoscono bene le imperfezioni dei mercati (gli oligopoli, i monopoli) e le conseguenze sul loro funzionamento. Questi avrebbero tutti gli strumenti per usare con saggezza i concetti che la loro scienza mette a disposizione, e superare la rappresentazione dell’economia da banco di scuola nella quale troppo spesso appaiono intellettualmente immobilizzati – un tema sul quale consigliamo il bel libro di James Kwak, Economism.
Potrebbero ad esempio far riferimento a un testo per niente disdicevole, come la prima edizione di Economics, il libro di testo di Paul Samuelson – un altro premio Nobel, tra i padri dei rispettabilissimi «neo-keynesiani» e consigliere economico di presidenti Usa come John F. Kennedy e Lyndon Johnson. Una lettura, questa, che invita a ragionamenti complessi, non appiattiti sui meccanismi di base. Il volume è del 1948, un po’ datato per il gusto dei programmi di dottorato di oggi (ma sicuramente meno delle lezioni di economia di don Lisander, condensate nel capitolo XII dei Promessi Sposi, quello dell’assalto al «forno delle grucce», molto citato in questi giorni a sostegno della tesi della razionalità di lasciar fare al mercato). Forse proprio per questo suo essere antico ma non troppo, Economics contiene spunti importanti per acquisire consapevolezza sull’utilità del ragionamento economico per chi voglia pensare con profondità i problemi sociali.
Osservava Samuelson che «il cane di John D. Rockefeller può ricevere il latte di cui un bambino povero ha bisogno per evitare il rachitismo. Perché? Perché il meccanismo domanda-offerta non funziona? No. Perché quel meccanismo sta facendo ciò per cui è stato progettato: mettere beni nelle mani di coloro che possono pagare di più» (p. 38; nostra traduzione libera). Si noti che nella frase di Samuelson non vi è alcuna ombra di moralismo – quello di cui oggi viene invece accusato chi denuncia gli eccessivi aumenti dei prezzi di quei beni così importanti, reo di attaccare il capitalismo! Retoricamente, quella che si vorrebbe una «accusa infamante» è soltanto un pallone tirato malamente in tribuna. Se si riflette con calma, non è assolutamente necessario prendersela col sistema sociale in cui viviamo se vogliamo riflettere sul serio sull’affermazione di Samuelson: una semplice, seppur colorita, osservazione analitica, molto liberale, ma forse oramai troppo di sinistra per gli animi più sensibili dei nostri contemporanei.
È così che si è potuto persino sostenere, un po’ sbrigativamente, che l’aumento dei prezzi delle mascherine farà sì che solo coloro che ne hanno veramente bisogno le acquisteranno, mentre gli alti prezzi porranno una barriera all’acquisto di chi compra mascherine solo perché in preda all’ansia. In questo quadro, non è prevista l’esistenza di ansiosi benestanti che si accaparrano l’Amuchina, sottraendola al povero che ne ha bisogno ma non può permettersela. È chiara la logica: il prezzo è accettato dal consumatore se proporzionato al suo bisogno effettivo di quel bene (meglio, nel linguaggio economico, se è proporzionato all’utilità marginale che il consumatore trae dalla quantità di bene acquistata); e chi non sente quel bisogno in misura autenticamente intensa, messo davanti al prezzo elevato, desisterà, confermando l’efficienza del mercato. Il prezzo e i bisogni quindi. E basta. Null’altro determina le scelte di consumo. La distribuzione del reddito disponibile (volgarmente detta «disuguaglianza») e il suo impatto sulle scelte dei consumatori viene anch’essa espunta dal ragionamento. Il problema non viene preso in considerazione.
In una lettera a Luigi Einaudi, scritta nel 1942 da Ventotene, Ernesto Rossi, un economista liberale di sinistra, criticava il suo interlocutore in quanto sostenitore dell’esistenza di un’effettiva «democrazia dei consumatori». Di quest’ultima, secondo Rossi, Einaudi aveva riconosciuto solo parzialmente il «vizio»”. Vale la pena leggere alcune righe della lettera:
I clienti non pagano quel che vogliono, ma quel che possono pagare, in rapporto all’altezza del loro reddito e agli altri bisogni che reclamano una soddisfazione. Dire: «Ciascuno faccia quel che gli pare», quando ci son tanti che non hanno quattrini sufficienti per comprare i beni di prima necessità può sembrare uno scherno. L’eguagliamento delle valutazioni marginali sul mercato non significa affatto eguagliamento delle importanze vitali dei resultati conseguibili con i vari consumi. Che della gente allevi canini pechinesi invece di maiali, o coltivi orchidee invece di patate, non dipende solo dai gusti dei consumatori, ma anche dalla diseguale distribuzione del reddito sociale. E se questo non si tiene ben presente invece di emendare il più possibile «il vizio della democrazia dei consumatori», si contribuisce a consolidarlo, e si dà un certo fondamento a chi accusa gli economisti di essere gli avvocati delle classi possidenti (Einaudi, Luigi e Rossi, Ernesto, 1988, Carteggio (1925-1961), Fondazione Luigi Einaudi, Torino; a cura di Giovanni Busino e Stefania Martinotti Dorigo).Mentre chiudiamo queste righe, la Angelini Pharma ha comunicato di voler incrementare la produzione di Amuchina, mantenendo però invariato il prezzo del prodotto. Un produttore rema contro il salutare aumento dei prezzi? Siamo forse usciti a nostra insaputa dal capitalismo – e a portarci qui è stato un imprenditore? Probabilmente no. Siamo semplicemente di fronte a un oligopolista che difende il proprio marchio, senza farsi influenzare in questo da Lapo Elkann. Così come gli interventi della Guardia di Finanza non ci stanno portando in una distopia totalitaria.
Occorre andare oltre il primo capitolo del libro di testo di economia per capirlo – come del resto, una volta interpellato da Michela Murgia a Radio Capital, ci sembra si sia trovato costretto a fare anche uno degli interessati. Alla fine la critica agli «indignati» si riduce all’assurdità di fissare per decreto i prezzi; mentre, incalzato dalla conduttrice, l’economista ammette che è giusto prendersela con gli speculatori, e anzi suggerisce che siano i farmacisti, magari in base a direttive pubbliche, a stabilire quali clienti abbiano veramente bisogno di Amuchina. Sarebbero dunque i farmacisti a dover realizzare ciò che nella versione inizialmente fornita era automaticamente e razionalmente realizzato dall’aumento dei prezzi. Il panico da coronavirus ci ricorda così che i mercati, lungi dall’essere luoghi dove domanda e offerta si incontrano spontaneamente e senza distorsioni, sono istituzioni piene di imperfezioni, in cui lo Stato (che rispetto al Seicento dispone di mezzi un po’ più sofisticati) ha non solo il diritto, ma il dovere di attrezzarsi, anche culturalmente, per intervenire.
Riportare nel dibattito pubblico e nella divulgazione la complessità del pensiero economico ci sembra necessario non solo a passare dal battibecco social a un sano e necessario conflitto di idee, di cui si nutre la democrazia, ma anche per fare in modo che non continui a valere ancora oggi la battuta che secondo un altro famosissimo economista neoclassico come Irving Fisher girava agli albori della scienza economica: «prendi un pappagallo e insegnagli a dire ‘domanda e offerta’, otterrai un eccellente economista».
*Alberto Baffigi è economista, si occupa di storia economica e di storia del pensiero economico. Ha pubblicato Il Pil per la storia d’Italia, per Marsilio. È responsabile dell’Archivio storico della Banca d’Italia. Tiene a precisare che le idee espresse in questo articolo non coinvolgono l’Istituzione presso la quale lavora. Giacomo Gabbuti è dottorando di storia economica all’Università di Oxford.
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