Anna Lombroso ilsimplicissimus2.com
Non hanno voluto loro, non avete voluto tutti l’opportunità di scegliere, per i vostri rampolli, per le specie del delfinario del privilegio che rappresenta il domani del liberismo progressista, le occasioni da non perdere nell’offerta di istruzione come si seleziona l’hotel o il ristorante su Tripadvisor, prendendo in considerazione stelle, forchette, presentazione dell’oste e critiche della clientela?
E invece è tutto un fervore di sdegno e disapprovazione per la rappresentazione non solo simbolica dell’apartheid organizzativa e pedagogica attuata in un Istituto comprensivo di Roma che nella home del suo sito si presenta con queste referenze: «La sede di via Trionfale e il plesso di via Taverna accolgono alunni appartenenti a famiglie del ceto medio-alto, mentre il plesso di via Assarotti, situato nel cuore del quartiere popolare di Monte Mario, accoglie alunni di estrazione sociale medio-bassa e conta, tra gli iscritti, il maggior numero di alunni con cittadinanza non italiana …….Il plesso sulla via Cortina d’Ampezzo accoglie prevalentemente alunni appartenenti a famiglie dell’alta borghesia assieme ai figli dei lavoratori dipendenti occupati presso queste famiglie (colf, badanti, autisti, e simili)».
E invece è tutto uno spendersi in biasimo e deplorazione per la scoperta non nuova che la scuola altro non è che una metafora della società e della città, delle loro divisioni in classi anche ora che si dice che le classi come le ideologie siano state orgogliosamente spazzate dalla vittoria dei ricchi sugli straccioni, della ripartizione sempre più severa dei territori e delle geografie in ghetti, quelli fortificati e difesi da organizzazioni, personale più o meno militare e leggi ad hoc, e quelli marginali per gli emarginati che premono incutendo timore e diffidenza alle porte delle case comode e calde, tirando su ai confini di centri rubati ai cittadini agglomerati velenosi di miseria e collera, bidonville e favelas.
E invece è tutto uno stupirsi per la incauta rivelazione, perché la scuola, ammettiamolo, dovrebbe anche indottrinare alla virtù nazionale dell’ipocrisia e dunque il ceto che fa opinione deve simulare fieramente di osteggiare l’esibizione esplicita di quello che ha desiderato e apprezzato nel susseguirsi di riforme bipartisan: una istruzione che favorisca la selezione innaturale dei benestanti e una pedagogia al loro servizio, che sia possibile incrementare e valorizzare anche con l’esborso economico individuale e pronta a formare una classe dirigente grazie a valori condivisi. Per gli altri, magari multicolori, che la scuola ancora pubblica, ma per poco e sempre meno, è costretta ad ammettere come in un manifesto dei Benetton di Atlantia, non resta che sperare in uno di quei miracoli che si vedono nei film di Hollywood, incarnati dall’icona demiurgica dell’insegnante capace e caparbio che si trasferisce in periferia e scopre talenti tra marginali creativi che vengono così donati al consorzio civile in veste di negri da cortile per dirla con Malcom X, di intellettuali organici, di artisti promossi dalla strada alle gallerie di Park Avenue.
Non so se sia davvero positivo questo risveglio dal letargo nel quale si crogiola una categoria sociale che si vuol convincere di essere ancora classe agiata, perché in condizione di godere di consumi e sicurezze sempre più labili, che ritiene siano meritati in virtù di una indiscussa superiorità culturale morale che le permette di esprimere deplorazione per le ingiustizie quando sono talmente appariscenti da rompere la crosta che ancorala protegge dalle brutture della povertà.
In fondo si tratta della stessa reazione che ha davanti al “fenomeno” Salvini, alla punta dell’iceberg brutale, goffa e belluina cui si guarda per non riservare la stessa attenzione a quel gelo feroce che sta sotto, al razzismo che si esercita nei confronti di tutti i sommersi neri o bianchi, alla trascuratezza volontaria nei confronti dei bisogni legittimi e perfino die desideri e delle aspettative, dell’indifferenza per il bene comune e l’interesse generale ostentata, si tratti di paesaggio, patrimonio artistico e culturale, ambiente, istruzione, o dei diritti, in modo che il conseguimento del minimo sindacale per quel che riguarda inclinazioni, scelte personali e affettive collochi in un cono d’ombra la cancellazione di quelli fondamentali ormai alienati.
Per scrupolo archivistico sono andata a recuperare un mio post di due anni, Fedeli vigente, quella che non sarebbe stata meglio se avesse conseguito una laurea alla Sapienza o alla Luiss, che ormai pari sono, quando la stessa deplorazione diffusa venne sollevata in analoga occasione, quando cioè un ingenuo dirigente scolastico, ben compreso della mission di manager prevista per lui dalla riforma renziana, rese pubblico quello che il partito alle redini del paese esigeva ma preferiva non venisse esibito con palese orgoglio.
E infatti la ministra ebbe parole di fuoco quando si seppe che alcuni licei avevano talmente fatte proprie le raccomandazioni a investirsi delle funzioni di marketing previste dalla Buona Scuola, da farne pubblica ostensione in qualità di referenza, invece di farne uso riservato nei negoziati con la clientela selezionata delle famiglie propense a contribuire con investimenti personalizzati e finalizzati non solo all’acquisto della carta igienica come ormai si fa diffusamente, ma proprio della valorizzazioni dei principi dello sviluppo di ambizioni e arrivismi più che di talenti e personalità.
Quando il liceo genovese D’Oria di Genova si compiacque di essere la scuola di elezione di un’alta borghesia che non deve essere molestata o rallentata nella sua ascesa al successo da «poveri e disagiati che costituiscono un problema didattico», mentre l’omogeneità delle caratteristiche sociali in assenza di gruppi di studenti “particolari” (ad esempio, nomadi o studenti di zone particolarmente svantaggiate) costituisce «un background favorevole alla collaborazione e al dialogo tra scuola e famiglia». O quando si seppe che al classico parificato Giuliana Falconieri di Roma Parioli gli studenti dell’istituto appartevano prevalentemente «alla medio-alta borghesia romana» così la spiccata omogeneità socio-economica e territoriale dell’utenza facilitava l’interazione sociale, proprio come al Visconti di Roma che può vantarsi di essere il liceo classico più antico di Roma “che gode di fama e prestigio anche grazie alla presenza di molti personaggi illustri tra i suoi alunni”, che si felicitava per lo status sociale delle famiglie che lo scelgono per i loro discendenti dinastici, tutti di nazionalità italiana e nessuno diversamente abile, aggiungendo che la percentuale di alunni svantaggiati «per condizione familiare è pressoché inesistente», ecco anche allora ci fu un’alzata di scudi a cominciare da quelli della ministra.
Fu lei a dire: “Descrivere come un vantaggio l’assenza di stranieri o di studenti provenienti da zone svantaggiate o di condizione socio-economica e culturale non elevata, viola i principi della Costituzione e travisa completamente il ruolo della scuola”.
Dimenticando di essere stata in prima linea nell’appoggio a un referendum che di quella Carta voleva fare carta straccia, ma soprattutto di essersi aggiudicata il ruolo di testimonial di un format di istruzione finalizzata alla distruzione definitiva della scuola pubblica, esautorata dalla missione di formare esseri umani consapevoli della loro storia e del loro futuro grazie a un provvedimento che incaricava la scuola di esaltare la promozione della “competenza” in sostituzione della conoscenza, dell’insegnamento di nozioni sempre più specialistiche immediatamente spendibili in un mercato del lavoro servile e precario.
Eppure nulla è cambiato, se siamo il paese OCSE che ha colpito più duramente i finanziamenti di Scuola, Università e Ricerca, se tuttora molto del tempo dei dirigenti scolastici che pensavano di essere stati oggetto di una “valorizzazione” manageriale, è destinato a assolvere mansioni ragionieristiche di rendicontazione e a obblighi burocratici: dalla redazione di report, autovalutazioni, curricula, prospetti e resoconti in formato “europeo”, indagini statistiche per la verifica dell’efficacia come in una perpetua “ammuina”, alla predisposizione di progetti attrattivi per i consumatori in modo da portare qualche profitto, compresi quei Rav, Rapporti di autovalutazione, che devono “fornire una rappresentazione dell’istituto”, attraverso un’analisi del suo funzionamento e costituire inoltre la base “per individuare le priorità di sviluppo verso cui orientare il piano di miglioramento”.
Così l’attività didattica diventa marginale rispetto a quella aziendale.
E poco interessa sapere se l’articolazione di censo e ceto preveda anche che risorse umane, merchandising, docenti e programmi vengano altrettanto opportunamente declinati.
Che tanto si sa che alla pari offerta non corrisponderebbe un pari godimento delle opportunità, se dai muri meno cadenti, dalle attrezzature informatiche, all’appagamento delle legittime rivendicazioni del personale insegnante, alla possibilità di accedere alle attività ricreative e formative aggiuntive tutto contribuisce a fare la differenza…. e l’ingiustizia.
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