«Nonostante la sua storia ormai trentennale, una
definizione stabile e onnicomprensiva di questa corrente di pensiero è
impossibile da dare».
Tiziano Cancelli apre così la sua piccola storia
dell’accelerazionismo, How to accelerate.
Introduzione all’accelerazionismo (
Tlon).Un pamphlet piccolo e denso, una sintesi che riesce a essere allo stesso tempo puntuale e accattivante, pensata per i profani che vogliono avvicinarsi al tema ma non se la sentono di affrontare di petto la ormai corposa, e a tratti ostica, bibliografia completa.
Perché di accelerazionismo si sente parlare da diverso tempo anche in Italia, ormai, ma un libro che spiegasse chiaramente che cos’è l’accelerazionismo forse ancora non c’era.
Cancelli comincia tracciandone la genealogia. A dare il nome alla corrente è un passo di Deleuze e Guattari, tratto da L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, sul flusso desiderante che starebbe alla base di ogni processo produttivo. Un elemento che il marxismo ortodosso, tacciato di moralismo, non sembra aver compreso nelle sue analisi economiciste, e che secondo i due filosofi domina invece la produzione capitalistica: il capitalismo è infatti in grado di liberare il desiderio dalle catene valoriali che lo reprimono, e di incanalarlo per soddisfare i suoi propri scopi. Dall’osservazione che ne consegue, e cioè che la soluzione potrebbe essere proprio quella di accelerare il processo di liberazione di questo flusso per distruggere il capitalismo stesso, nasce l’accelerazionismo: la convinzione che l’unica via possibile per superare il disastro in cui siamo finiti è una via attraverso.
La bruta cronologia, che Cancelli ricostruisce nelle prime pagine del libro, lega la corrente alle contingenze storico-sociali degli anni Novanta. All’alba della fine della Storia, assediata dalla retorica del no future, la Ccru (Cybernetic Culture Research Unit), messa su da Nick Land e Sadie Plant nella desolante campagna inglese di Warkwick, sembra più una risposta auto-medicale alla depressione endemica del tardo capitalismo che un gruppo di studio. Se dopo il crollo del Muro l’umanità è sprofondata in un «sentimento di disillusione e di accettazione [che] ha progressivamente sostituito la speranza e la fiducia riposte nelle promesse di redenzione del marxismo, lasciando in eredità unicamente il compito di una ritirata ingloriosa che costringe a fare i conti con una quotidianità sempre più simile alla distopia», l’accelerazionismo è la botta di speed che serve per tornare a ballare.
Ma la terminologia scelta dai suoi accoliti inquadra la corrente in una storia molto più antica. Plant e Land mescolano gli strumenti accademici dell’analisi sociologica e filosofica all’immaginario pop e fantascientifico, a sua volta pesantemente influenzato dell’abuso di sostanze psicotrope e da un mai sopito interesse per le filosofie orientali. Fin da subito, è «un mix letale fra tecnica e mistica», che traspare inequivocabilmente dal lessico: il viandante, il viaggio, la via, il desiderio e il flusso sono tutti termini propri dell’ascesi e dell’estasi.
Tra magia e iatropolitica
Di tutto l’armamentario mistico sono soprattutto i due grandi temi dell’Altro e del Caos a farla da padrone, nella rinnovata scoperta del paradigma immunologico applicato alla politica: la convinzione che nel tentativo di proteggersi da un Altro, proveniente dall’outsideness situato al di là dell’umano, le politiche securitarie degli ultimi decenni si siano configurate tutte come immunopolitiche.Il paradigma medico è stato applicato con successo alla filosofia politica occidentale da Platone in poi, e tra umanesimo e rinascimento ha conosciuto un significativo revival con la nascita della iatropolitica – la politica intesa come prassi di cura del corpo sociale. È interessante dunque rilevare come uno dei capisaldi dell’accelerazionismo sia rappresentato proprio dalla rottura con quello stesso umanesimo da cui attinge i suoi temi, visto come ultimo baluardo che tiene l’umanità ostaggio della difesa immunitaria di un Sé sempre più enfiato e costrittivo. Tutto ciò che ha anche solo lontanamente a che fare con l’identità è percepito come ostacolo, comprese politica e morale. E per distruggere ciò che l’Umano vuole tenere insieme con la forza l’unico modo è accelerare il processo di disgregazione messo in atto dal capitale, impedendo quel ritorno all’ordine necessario al capitale stesso per mantenere il suo dominio.
Se nel Cinque-Seicento la iatropolitica prescriveva cure per evitare il contagio della stasis – della rivolta, della ribellione – nell’accelerazionismo il contagio viene invocato come cura definitiva. L’obiettivo è anzi quello di generare «disordine e contagio, innestando un processo di destabilizzazione continuo di ogni struttura di controllo». Di riproporre, cioè, il paradigma immunologico, ma permettendo il dilagare dell’infezione, l’espandersi dell’epidemia, l’arrivo al punto di non ritorno di una viralità sentita non come una minaccia, o come il necessario polo negativo di un processo dialettico, ma come entità solo apparentemente patologica, in realtà alienazione salvifica, endemica e vitale: «un agente patogeno altamente contagioso in grado di trasmettersi velocemente attraverso svariati vettori e di occupare […] quella zona straniante situata fra scienza e superstizione».
Per questo la macchina diventa un elemento fondamentale dell’accellerazionismo, «l’unico modo per guadagnarsi una via di fuga e garantirsi la possibilità di esplorare finalmente l’universo del ‘postumano’ disvelatosi grazie alla potenza della mediazione tecnologica». Oltre l’uomo sta il cyborg, «un ibrido fra uomo e macchina [che incarna] il punto di fusione tra tecnologia e natura [capace di far] collassare l’identità su sé stessa». In pratica una versione contemporanea e circuitata dell’homonculus degli alchimisti cinque-secenteschi, la prometeica aspirazione faustiana della creazione del totalmente nuovo come in mente Dei.
Ed è proprio questa interpretazione attiva, prometeica e visionaria che contraddistingue l’accelerazionismo e ne fa la marca unica presente in tutte le sue varie e future diramazioni.
Ma una volta entrati nella bottega dell’alchimista, è molto difficile non rimanere affascinati dalla ricerca della pietra filosofale. Cosa che infatti succede, quasi subito, a Nick Land, che dà un nuovo nome a un vecchio concetto, quello di iperstizione, che non ha nulla da invidiare alla facoltà immaginativa teorizzata di Paracelso.
L’iperstizione rappresenta il recupero più interessante dell’accelerazionismo. Cancelli la definisce «una delle visioni più ispirate del filosofo inglese», ed è il motivo per cui subito dopo accosta giustamente l’accelerazionismo alla magia.
La pratica magica, infatti, si fonda sul potere immaginativo dell’uomo che, grazie alla potenza poietica della parola, verbalizzando una visione a futuro la trasforma in realtà del presente. Nel rinascimento la magia, accuratamente epurata dalle sue diramazioni necromantiche e favolistiche tipiche del medioevo, viene riconfigurata come tecnica e aggregata alla razionalità umana dai filosofi della natura. Fondata sulla capacità degli elementi immaginativi della predizione di trasformarsi in azioni concrete, la magia è lo strumento con cui l’uomo, in un’opera retorica di persuasione delle forze naturali, impone il proprio dominio sul creato.
Land riprende questa concezione, ma come per la iatropolitica ne inverte la gerarchia, degradando l’uomo a ultimo scalino, fardello ormai insostenibile e da scartare, e innalza i calcoli matematici e la tecnologia – per i maghi rinascimentali elemento meramente servile – a signori incontrastati dell’evoluzione della specie umana, il cui compito non è più quello di dominare il mondo ma di annichilirsi in esso. Una pietra filosofale al contrario, che non ricerca la purezza assoluta ma l’impurità assoluta.
Il legame con la magia rimane nel potere di predizione sugli enti mutevoli, quella capacità diagnostica – per tornare al paradigma medico – di sovvertire la temporalità lineare per astrarne momenti qualitativamente significativi sulla base dei quali conoscere il futuro e, di conseguenza, modificarlo.
In questo senso l’iperstizione è «un loop temporale grazie al quale il futuro può operare concretamente sul presente, creando le condizioni per la sua manifestazione nella realtà». Secondo questa interpretazione, appunto in linea con il pensiero magico, nel presente sono già in essere elementi di futuro, veri e propri signa da individuare nel tessuto semiotico del reale e da coltivare per far andare le cose in un modo anziché in un altro: sono gli elementi di futurabilità, per dirla con il lessico di Franco Berardi Bifo e degli accelerazionisti. Per questo l’iperstizione «è una sorta di profezia autoavverante, un’idea sul futuro che prende forza e concretezza grazie alla propria capacità di operare sul presente».
L’operatività sul presente accomuna tecnologia, magia, scienza e politica. La capacità di indirizzare il corso delle cose a partire da enti mutevoli basandosi su calcoli che oggi definiremmo probabilistici era stato anche il tentativo, in parte riuscito, di Machiavelli, cioè della fondazione della filosofia politica moderna.
Ma se Machiavelli, e con lui i logici dello studio di Padova che per primi abbozzarono il metodo scientifico, aveva tenuto questi elementi nello stretto dominio della causalità aristotelica e della razionalità umana, Land e gli accelerazionisti di questa prima ondata, come la definisce Cancelli, si lasciano trasportare dalle potenzialità che il discorso magico e predittivo schiude sul reale, prendendo in un certo senso per vere le visioni della fantascienza di cui è fatta la theory fiction, e arrivando a pensare – come fa Land – che il capitalismo stesso è una potenza aliena (non figurativamente, non allegoricamente, ma letteralmente aliena) che ha dato vita a «una nuova razionalità tecnologica [che] sta assemblando sé stessa nel presente direttamente dal futuro, fagocitando il reale nella sua interezza». Una sorta di Skynet ultra-libertario e anarco-capitalista più realista del re, cioè più neoliberista dei neoliberisti.
«In breve», riassume efficacemente Cancelli, «l’aspetto evocativo e apocalittico prenderà completamente il posto della chiarezza e della ragione teorica, l’elaborazione landiana diverrà confusa, iperbolica, cercando un’improbabile quanto difficile fusione con la dimensione delirante del discorso». Non sorprende che Land finisca la sua carriera in un esilio dorato in Cina, dopo la dissoluzione del nucleo originario della Ccru, e approdi sulle rive teoriche dell’alt-right americana e mondiale: un epilogo da necromante che mira a scatenare le forze dell’annichilimento su scala mondiale per ricreare un vuoto parcellizzato da cui ricostruire l’oltreuomo.
Come il Dioniso delle Baccanti, che porta alla rovina il positivista Penteo, così Land e soci vogliono mettere l’umanità di fronte agli errori commessi da una cieca fiducia nella razionalità. Un presupposto anche giusto, se vogliamo, e che tuttavia ha conseguenze disastrose: Land non è Dioniso, e si brucia al fuoco della sua stessa fiamma. Immerso nella sua personale opera al nero, Nick Land finirà col passare al lato oscuro della forza e fondare l’accelerazionismo di destra.
Gli strumenti del padrone
L’accelerazionismo non è fatto solo di vette mistiche con tendenze destrorse. Il pensiero di Mark Fisher, su cui sono stati già spesi fiumi d’inchiostro, rappresenta una diramazione alternativa dell’accelerazionismo della prima ondata. Senza dilungarci in un’analisi del pensiero di Fisher, vale la pena sottolinearne un elemento segnalato anche da Cancelli nella pagine dedicate all’intellettuale inglese: con Fisher il paradigma immunologico cambia di segno. Il capitalismo non è letto più come un virus da sguinzagliare: è un parassita. Questo fa sì che la viralità a cui l’accelerazionismo aspira, l’epidemia da far dilagare, non sia ancora in essere, ma soltanto in nuce: il capitalismo non ha davvero schiuso le porte del futuro, ma anzi ne impedisce l’avanzata. Il pharmakon è ancora tutto da costruire.Da questa considerazione di fondo, e dal recupero che Fisher fa del pensiero marxista, nasce l’accelerazionismo di sinistra, i cui massimi rappresentati sono Alex Williams e Nick Srnicek. Di tutte le cose uscite fuori da questa inesausta fucina, oltre al recupero della stretta connessione tra sistema economico-sociale e disagio psichico individuale – che nell’occidente degli ultimi trent’anni prende forme perlopiù depressive – l’aspetto più interessante del dibattito accelerazionista a sinistra è la critica alle cosiddette folk politics. Darne una definizione precisa è difficile, ma intuitivamente potremmo etichettare come folk politics un range di pratiche che vanno dall’associazionismo di base all’occupazione di spazi, e più in generale «una politica della gente», cioè tutto ciò che tende a costruire piccole comunità resistenti – settore su cui la sinistra, in particolare in Italia, ha in effetti investito molto. Va detto che Srnicek e Williams quando parlano di folk politics hanno in mente soprattutto il limitato e peculiare esempio di Occupy Wall Street, sicuramente non rappresentativo del vasto panorama globale di esperienze mutualistiche in senso proprio, certo non riducibili alle pratiche di democrazia diretta di cui spesso sono fatte e si nutrono, nel mirino delle polemiche dei due studiosi.
Alcune critiche di ampio respiro sono più che condivisibili, e anzi colgono nel segno i diversi limiti, soprattutto in termini di efficacia, che i tentativi di politica dal basso hanno in questi anni dimostrato di avere. Ma nel Manifesto prima, e in Inventare il futuro poi, Srnicek e Williams mancano ancora di indicare esattamente come sia possibile una riappropriazione a sinistra degli strumenti tecnologici, finanziari e logistici («gli strumenti del padrone» paradossalmente necessari a «distruggere la casa del padrone», conquistare l’egemonia e ribaltare le sorti dell’umanità, abolendo finalmente la schiavitù del lavoro) per portare il conflitto su scala globale. Un’indicazione che sarebbe certamente importante e che si spera emerga prima o poi con maggior precisione all’interno di una così vasta e prolifica produzione saggistica, in tempi se non rapidi quantomeno utili alla sopravvivenza della specie umana.
E così, se il discorso prometeico sulla tecnologia portato avanti dall’accelerazionismo di sinistra (che in questo si rifà direttamente ed esplicitamente a Marx, «il primo accelerazionista») è chiaro da un punto di vista teorico, ed è sicuramente dotato di fascino (come tutte le narrative che hanno al loro centro un eroe-viandante, qual è nei fatti il redivivo e precarizzato proletariato globale, magari impegnato in una discesa agli inferi, la famosa via attraverso l’orrore tecnocratico capitalistico), è meno chiaro e soprattutto meno ricco sul piano degli esempi concreti.
Una scorciatoia per il futuro
L’accelerazionismo è una filosofia delle scorciatoie, dei passaggi attraverso, appunto, della costruzione di alternative non mediate da step intermedi, e di folgoranti intuizioni di un futuro altro non sempre sustanziate da una strategia precisa e da visioni puntuali, e spesso più vicine alla letteratura fantascientifica che alla teoria politica.Ma è anche una corrente di pensiero che è stata in grado di dare uno scossone ad alcune categorie asfittiche e stantìe, a cercare – forse per semplice reazione – di dare uno scossone al baratro di melanconia in cui l’umanità è sprofondata con la vittoria del neoliberismo, a riaprire vecchi dibattiti, vecchi addirittura di secoli, a sondare le strade alternative che la storia ha fatto essiccare ed etichettato come perdenti, ma che a fronte della sconfitta del positivo e della progettazione efficientista non sembrano più tanto peregrine, a mettere in discussione lo spirito scientista dei nostri tempi, ricollocando la tecnologia nella categoria interpretativa da cui era nata, la magia.
Anche l’unconditional accelerationism e il suo non-fare ricorda fin troppo i dettami della mistica orientale, nella fattispecie del wu-wei taoista, o al limite dello gnosticismo tardo-antico – per restare nei paraggi del Mediterraneo. L’accelerazionismo, insomma, malgrado la mole imponente di immaginario sci-fi e pop di cui si nutre, e l’ambizione netta a proiettare la riflessione filosofica nel post-umanesimo e nell’oltre-umano, a un’analisi più attenta dei temi e delle questioni di fondo sembra ben ancorato nella filosofia e nella mistica del Medioevo e del Rinascimento. Il suo fascino risiede nel ripescare a piene mani concetti che la tradizione occidentale aveva lasciato da parte, strade che aveva smesso di percorrere dal Settecento in poi – e che la crisi di senso tanto profonda che stiamo attraversando, in un momento in cui il reale non sembra affatto essere razionale, ha riportato alla ribalta. La domanda, il tarlo che soggiace al suo discorso è: e se la strada giusta fosse stata un’altra?
In questo senso il libro di Cancelli, puntellato di coordinate bibliografiche e cronologiche precise, fornisce degli strumenti utili a costruire su questi temi un dibattito che non sia più fatto di codici e allusioni indecifrabili tra iniziati, ma di confronti pratici ed effettivi. Alla base di tutto c’è un’evidenza difficile da negare: le cose così come stanno non vanno più bene. E bisogna tornare a immaginare la fine del capitalismo prima che arrivi la fine del mondo.
*Gaia Benzi è attivista e ricercatrice di letteratura italiana. Ha scritto per Micromega, Dinamopress, CheFare e Nazione Indiana.
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