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Il
mondo ricorda oggi il 75° anniversario della liberazione di Auschwitz.
Il campo di sterminio venne liberato dai soldati del 472° reggimento
della 100° divisione della 60° Armata del 1° Fronte Ucraino, nel corso
dell’operazione “Vistola-Oder”, iniziata nell’autunno 1944. Dopo la
sosta forzata a dicembre, necessaria alle truppe sovietiche per
riorganizzare le linee ormai troppo allungate, la ripresa delle
operazioni era fissata per fine gennaio.
Ancora
una volta, però – era già successo nell’estate ’44, allorché a ovest
gli anglo-americani rischiavano di esser ributtati in mare e Mosca aveva
lanciato l’offensiva “Bagration” su Bielorussia, Polonia orientale e
Paesi baltici – viste le preghiere di Churchill di alleggerire la
pressione sugli alleati inchiodati nelle Ardenne, Stalin anticipò
l’inizio dell’offensiva al 12 gennaio.
Già
il 17 gennaio fu liberata Varsavia; il 24-25 gennaio venne liberato il
campo di lavoro di Monowitz (Auschwitz III), il 26-27 gennaio la
cittadina di Oświęcim (in tedesco Auschwitz) e il 26 la cittadina di
Brzezinka, o Birkenau (Auschwitz II) e infine, il 27 gennaio, fu la
volta di Auschwitz I.
Dal
2005, con risoluzione ONU, la Giornata della memoria del 27 gennaio è
chiamata a ricordare le vittime dell’Olocausto. Auschwitz-Birkenau è il
simbolo della bestialità nazista; il simbolo dello sterminio pianificato
di tutti i “nemici del Reich”: ebrei, comunisti, rom, oppositori del
nazismo.
Nel
1942, abbandonata l’idea hitleriana, cara alla leadership polacca di
allora, di deportare tutti gli ebrei europei in Palestina, per non
inimicarsi il Mufti di Gerusalemme, o in Madagascar, perché praticamente
non più accessibile, nel corso della riunione a Wannsee (vi
parteciparono una quindicina di gerarchi nazisti di RSHA, RuSHA, SD,
Gestapo: da Heydrich a Eichmann, Freisler, Müller e altri) furono
programmati metodi, mezzi, modi e tempi della eliminazione totale degli 11 milioni di ebrei europei, 5 milioni dei quali nella sola Unione Sovietica.
Sembra
abbastanza palese il nesso tra moderne alleanze geopolitiche, la
riscrittura della Storia e la scelta di celebrare la liberazione proprio
di Auschwitz, facendone il lager simbolo della Shoah – e quindi
dell’Olocausto del popolo ebraico, anche se nei suoi crematori finirono
persone delle più diverse nazionalità, ideologie politiche, religioni.
Così
come è manifesto che le urla odierne più sguaiate, volte a coprire la
voce di chi ricorda il colore delle bandiere che liberarono quei lager,
provengano proprio dalle regioni che più diedero man forte ai nazisti
nello sterminio non solo degli ebrei, ma anche della popolazione civile
residente in aree multietniche, quando questa era di nazionalità diversa
da quella degli aguzzini.
Troppo
spesso si dimentica, o si passa volutamente sotto silenzio, che la
popolazione di religione ebraica finita nei lager proveniva non solo da
Paesi oggi autodefinitisi “modello di democrazia liberale”, ma in
grandissima maggioranza da Stati in cui Wehrmacht, SS tedesche,
volontari SS da quasi tutti i Paesi europei-occidentali, polizei reclutati tra i nazisti locali, divisioni SS ucraine e baltiche, condussero non una drôle de guerre, non una “strana guerra”, bensì una guerra di sterminio totale, volta a liberare a est il famigerato Lebensraum per la razza superiore, lasciando in vita solo quel minimo di Untermenschen necessari al lavoro schiavistico.
Troppo
spesso si dimentica che, ad esempio un terzo della popolazione
bielorussa morì o fu sterminato durante l’occupazione nazista; che
milioni di cittadini sovietici (le sole vittime civili sovietiche sono
stimate tra i 12 e i 15 milioni) non arrivarono nemmeno ai campi di
sterminio, ma furono uccisi direttamente nei villaggi: spesso radunati a
centinaia e rinchiusi nei granai o nelle stalle date alle fiamme. T
roppo
spesso si tace che le truppe hitleriane avessero l’ordine di eliminare,
non appena fatti prigionieri, non solo i militari sovietici di
religione ebraica, ma in primo luogo i commissari politici e chiunque
nelle cui tasche venisse trovata la tessera del partito comunista
dell’Urss – VKP(b).
In
generale, quel che da anni si tende a tacere e a far dimenticare, è
ovviamente il ruolo dell’Armata Rossa nella liberazione, in primo luogo
proprio di Auschwitz, ma anche dei tanti altri campi di concentramento e
di sterminio allestiti dai nazisti non solo in Polonia, ma anche nei
Paesi baltici e nella stessa Germania.
Maksim
Maksimov ricordava nei giorni scorsi come molti dei Paesi che oggi
celebrano la Giornata della memoria, avessero a suo tempo respinto gli
ebrei in fuga dalla Germania nazista; ricordava come nel 1940, dopo
l’uscita nelle sale americane de Il grande dittatore, Charlie Chaplin fosse stato messo sotto stretto controllo dal Comitato per le attività anti-americane.
Si ha l’impressione, scriveva Maksimov, che fino al Processo di Norimberga, nel 1946, “l’Occidente
non sapesse nulla della tragedia degli ebrei europei. Nessuno sapeva
nulla di Babi jar, della Conferenza di Wannsee, della ‘decisione
finale’. Ma nemmeno nel 1943”, dopo la Conferenza delle Bermuda, i
paesi coinvolti, USA in testa, non aumentarono le quote di immigrazione
per i rifugiati”.
D’altra
parte, nelle camere a gas di Auschwitz e Birkenau, i nazisti usavano il
“Zyklon B”, della Degussa, filiale della IG Farben, del trust IG
Chemical, di proprietà di General Motors e della banca J.P.Morgan. Ma, oggi come 80 anni fa, nelle questioni di soldi, “non c’è ebreo che tenga”.
Aleksandr Djukov, della Fondazione russa “Memoria storica”, ricorda su rubaltic.ru
come proprio Polonia e Lettonia, che strepitano per esser “compensate”
per la presunta “occupazione sovietica”, non abbiano sino a oggi
risolto, se non in minima parte, la questione della restituzione dei
beni, individuali e collettivi, agli ebrei; in Lituania, dove la
questione è stata risolta, in compenso si glorificano i polizei
che presero parte al loro sterminio e si programma l’approvazione di una
legge, simile a quella già esistente in Polonia, per punire chiunque
accusi cittadini lituani di aver preso parte a pogròm anti-ebrei.
In prima fila, come sempre, la Polonia, primo Paese europeo, il 26 gennaio 1934,
a concludere un Patto di non aggressione (e quasi sicuramente un
accordo militare segreto) con il Terzo Reich. In un’intervista alla
tedesca Bild, il leader del partito governativo “Diritto e Giustizia”, Jaroslav Kaczynski, pretende che “Mosca ammetta la responsabilità” per lo scoppio della Seconda guerra mondiale e “paghi le riparazioni”
a Varsavia. Kaczynski parla anche del massacro di Katyn e, quasi
istruito dalla lezione del “Giorno del ricordo”, che ogni anno
moltiplica per decine di migliaia gli “infoibati sol perché itagliani”,
addossa ovviamente al NKVD l’uccisione di “centinaia di migliaia di
ufficiali polacchi”. Dunque, dato che la “Polonia è stata una vittima” e
“i russi dei criminali”, non solo Berlino, ma anche Mosca devono
secondo lui pagare le riparazioni sia per la Prima, che per la Seconda
guerra mondiale.
Gli ha risposto indirettamente il Presidente della Commissione informazione del Senato russo, Aleksej Puškov: “Quali
riparazioni e per quali danni?! Ammesso che qualcuno debba pagare, è
semmai la Polonia, al nostro paese: per la liberazione da Hitler, che ci
è costata 600.000 vite. E per il ripristino dell’economia polacca,
distrutta dai tedeschi“.
Senza
contare, si potrebbe aggiungere, per le decine di vittime nelle
retrovie sovietiche, i feriti negli ospedali da campo dell’Armata Rossa,
caduti sotto i colpi dell’Armia Krajowa dopo la liberazione della
Polonia, anche nel 1945 e 1946.
Per inciso, nel 75° anniversario della liberazione di Auschwitz, sembra il caso di rendere il dovuto merito
alle uscite cabarettistiche dell’Ucraina golpista e dei suoi difensori
(quando non si accoltellano su questioni storico-territoriali) polacchi,
secondo cui l’URSS non avrebbe avuto parte alcuna nella liberazione
della Polonia e in particolare di Auschwitz, dato che, dicono loro, i
soldati che aprirono i cancelli del lager facevano parte del 1° Fronte
ucraino: dunque, erano ucraini!
Ora,
non solo nei manuali di storia, ma persino nella pubblicistica più
elementare, è spiegato che i “Fronti”, nella guerra anti-nazista
condotta dall’Unione Sovietica, rappresentavano raggruppamenti
strategici organizzati in una o più aree operative.
Ad esempio, quello che nel 1943 diverrà il 1° Fronte ucraino, era fino
ad allora denominato Fronte di Voronež; ma ogni bambino delle elementari
sorriderebbe a dirgli che quel fronte era composto da abitanti di
Voronež. Così, per tutti gli altri vari Fronti, costituiti,
riorganizzati, trasformati, ridenominati nel corso della guerra: i
Fronti di Leningrado, Stalingrado, Kalinin, Sud, Ovest, del Caucaso,
della Steppa, ecc.
Tra l’altro, come ricorda addirittura la stessa Wikipedia,
dal punto di vista delle truppe, un Fronte non ebbe mai una
composizione permanente per un periodo più o meno lungo, a differenza
dei comandi. Se all’inizio della guerra, i 5 Fronti furono
sostanzialmente costituiti sulla forza dei distretti militari, i
successivi 13 e poi fino a più di 40 Fronti (nuove riaggregazioni e
ridenominazioni) vennero formati in base ai teatri operativi, con le
truppe ritirate e trasferite dall’uno all’altro fronte o inviate alla
riserva, ecc.
In
ogni caso, nello specifico del 1° Fronte ucraino, di cui faceva parte,
per dire, anche la 2° Armia Wojska Polskiego, i comandi a vari livelli,
da marescialli – dopo l’uccisione di Nikolaj Vatutin da parte dei
banderisti ucraini, il comando passò per pochi mesi a Georgij Žukhov e
poi a Ivan Konev – a generali, colonnelli ecc., non vide mai una
preminenza di ufficiali di origine ucraina; così, anche per le truppe.
Non
un fantomatico “esercito ucraino”, dunque: fu l’Esercito Rosso che
liberò il campo della morte di Auschwitz; liberò dall’occupazione
nazista Cecoslovacchia, Balcani, Austria; liberò Berlino, Praga, e
liberò persino Ucraina, Polonia, Paesi Baltici, per quanto molti di essi oggi se ne dolgano.
Esattamente
un anno prima della liberazione di Auschwitz, il 27 gennaio 1944,
l’Esercito Rosso era riuscito a rompere completamente l’assedio portato a
Leningrado dalle truppe tedesche, italiane e finlandesi che, per 872
giorni, aveva causato tante vittime quante quelle di Amburgo, Dresda,
Tokyo, Hiroshima e Nagasaki prese insieme: gli storici valutano tra
650.000 e 1,3 milioni di morti, il 90% dei quali per fame e freddo. Il
27 gennaio è dunque celebrato in Russia quale Giornata della gloria
militare.
Gloria
di quell’Esercito Rosso – Raboče-krestjanskaja Krasnaja Armija – di cui
facevano parte anche le armate del 1° Fronte ucraino: ed esso era
composto da soldati e ufficiali sovietici. Il resto è cabaret.
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