venerdì 24 gennaio 2020

Ambiente. Abbiamo spento i mostri di Colleferro.


Dopo 26 anni chiude la discarica più grande del Lazio. Un movimento durato 15 anni ha affrontato la crisi dei rifiuti come una complessiva battaglia ecologista, veicolando l'immaginario di un nuovo mondo possibile.


Il 16 gennaio scorso la discarica più grande del Lazio dopo Malagrotta ha chiuso i cancelli al conferimento dei rifiuti. 
È la discarica di Colleferro, cittadina che si trova cinquanta chilometri a sud del Colosseo.
Dopo 26 anni di attività, segnati da miasmi e impatti ambientali per il territorio, finisce il viaggio dei Tir carichi di immondizia, e iniziano le operazioni di post-mortem per chiudere il sito in sicurezza. 
Chiudono così i cancelli di uno dei principali sbocchi per l’immondizia della Capitale: parliamo di 1.400 tonnellate giornaliere di rifiuti romani che continueranno a girare in cerca di una buca o di un inceneritore – probabilmente fuori dal Grande raccordo anulare, fuori dal Lazio se non all’estero. 
Colleferro e la Ciociaria – l’area del Lazio meridionale identificabile con la provincia di Frosinone – compongono uno dei più estesi siti d’interesse nazionale da bonificare, nonché uno dei più problematici, dove terra, acqua e persone sono contaminate da organoclorurati, metalli pesanti e altre sostanze tossiche. 

«A pochi passi dalla biblioteca scorreva il fiume Sacco ed emanava un tanfo che ogni respiro era come se una cannonata mi avesse trapassato il torace. Nessuno però sembrava farci caso».
In questo passaggio di Segni D’oro, romanzo di Domenico Starnone – che a metà degli anni Settanta insegnò in un istituto tecnico di Colleferro – troviamo la sensazione che si prova ad avvicinarsi alle sponde del Sacco, uno dei corsi d’acqua più inquinati d’Italia, affluente del fiume Liri che dai Monti Prenestini scorre verso sud per settanta chilometri.
Quella puzza è parte del lascito dell’industrializzazione della Valle del Sacco, ossia di una serie di investimenti per lo sviluppo promossi dalla cassa per il mezzogiorno che oggi restano solo come aree interdette, fabbriche dismesse e discariche di rifiuti.
Tra queste troviamo l’ex polveriera di Anagni, l’ex Snia a Colleferro, l’Ex Europress a Ceprano e la discarica delle Lame a Frosinone.
Oltre la puzza e la comparsa periodica di schiuma bianca, il fiume Sacco porta con sé la storia di un biocidio silenzioso provocato da una molecola dal nome difficile da pronunciare.
Il Beta-esaclorocicloesano, un derivato della lavorazione del Lindano – insetticida usato dagli anni Quaranta soprattutto in agricoltura: oltre a essere stato prodotto per cinquant’anni nelle industrie chimiche di Colleferro, è stato poi smaltito in modo illecito vicino le sponde del fiume Sacco, entrando così nella catena alimentare e nel sangue di centinaia di persone – per lo più contadini e allevatori che hanno come unica colpa quella di aver mangiato i prodotti della propria terra, a ricordarci che anche nel «primo mondo» i costi della distruzione dell’ambiente non li paghiamo tutti alla stessa maniera.
A Colleferro, anche se chiude una discarica, rimane un’eredità tossica bio-accumulata, ettari e ettari da bonificare, mentre vicino i terreni della discarica è in arrivo un nuovo, enorme centro logistico; il tutto all’interno di una situazione regionale disastrosa – basti pensare che, come hanno mostrato pochi giorni fa gli economisti Massimo Baldini e Fabrizio Patriarca, si tratta della regione con la Calabria dove la disuguaglianza è cresciuta di più dal 2008 a oggi, raggiungendo livelli simile all’est Europa.
Ma nonostante una serie di questioni sociali e ambientali ancora aperte, studentesse e studenti, parrocchie e movimenti hanno deciso di festeggiare la chiusura della discarica, riempiendo uno spazio di solito occupato dai rifiuti.

Pur non risolvendo tutti i problemi di Colleferro, infatti, la chiusura è una vittoria, un evento, da guardare in prospettiva per trarre qualche riflessione e ragione di speranza di fronte alle sfide ancor più grandi che abbiamo di fronte. «Io ne farei cinque di discariche!», gridava infatti dieci anni fa un consigliere comunale, oggi sovranista e «ambientalista ragionevole», mentre sputava sui volantini dell’associazione Ugi – Unione giovani indipendenti – di Colleferro. L’Ugi, che quest’anno celebra quindici anni di vita, era una giovane realtà, nata nel 2005 dopo un corteo studentesco che nel silenzio della politica, osava chiedere giustizia ambientale per una terra avvelenata.
Parlate solo di monnezza e di ambiente, mai di lavoro!
Non volete gli inceneritori, non volete la discarica, dite sempre No!
La discarica non chiuderà mai!
Da qualche parte i rifiuti devono andare! 
Tornate a scuola!  Ma che ve state a inventa?
Questo era il tono delle reazioni più comuni, da parte di una città di provincia, nata attorno a una fabbrica di armi – la Bombrini Parodi Delfino, anch’essa ovviamente coinvolta dalla passione per la chimica – e ipnotizzata da un’idea di sviluppo che non lasciava spazio alle parole dei volantini distribuiti dall’Ugi.
A renderle pronunciabili – e anzi, a imporre un certo greenwashing anche alla più becera destra della provincia laziale (nota alla cronaca nazionale per personaggi del calibro di Franco “Batman” Fiorito), non è stata soltanto un’improvvisa bolla mediatica arrivata da fuori, come viene spesso raccontato il successo dei Fridays For Future (che non a caso da queste parti, da Sora a Frosinone, trovano terreno fertile e portano in piazza tantissimi studenti). È stato il risultato, parziale ma tangibile, di una lotta lunga quindici anni. Per affermare la nocività e gli impatti del «business dei rifiuti» non bastava conoscere i funzionamenti di un Tmb (Trattamento meccanico biologico), nemmeno spiegarne in modo tecnico e competente le operazioni, ma occorreva farlo diventare parte di un conflitto ambientale generale.
Ecco perché Colleferro il 16 gennaio è scesa in strada a festeggiare.
Dieci anni fa pochi credevano che fosse possibile far chiudere una discarica, come pochi credevano alla chiusura delle due ciminiere di Colleferro Scalo, che per vent’anni hanno bruciato la spazzatura di Roma.
«Abbiamo spento i mostri!» – così chiama infatti gli inceneritori Tiziano, attivista del movimento Rifiutiamoli, e anima di un presidio permanente durato due anni.
C’erano soldi stanziati, autorizzazioni firmate, e anche un pezzo di caldaia, in arrivo a Colleferro poco più di due anni fa, pronto a far rivivere gli impianti per altri vent’anni.
Eppure questo scenario, costituito, delineato, inevitabile, non si è verificato: a fermarlo, fisicamente, nel 2017 è stata una comunità formatasi proprio attorno a delle mancanze.
Darsi appuntamento per bloccare i camion diretti agli inceneritori è stata un’occasione per fare esperienza di un quartiere, attraversandolo con iniziative sul cambiamento climatico, concerti, spettacoli di teatro, incontri sulla conversione ecologica e sulle migrazioni ambientali.
Mentre qualcuno ci accusava di fare «giardinaggio», il conflitto ambientale nato da un’emergenza reale e pratica del territorio è diventata la leva con cui far emergere gli altri problemi della zona, il collante con cui aggregare un territorio dove, dal crollo della Prima Repubblica, la politica sembra essere diventata, ancor più che nel resto d’Italia, mera spartizione di potere e clientele.
La lotta contro la discarica ha fatto emergere la mancanza di spazi dove discutere e aggregarsi, di servizi, di giustizia sociale, oltre ovviamente alla mancanza di una visione politica ed ecologista attorno all’emergenza rifiuti e a quella della mobilità.
Tutti questi ingredienti sono comuni alla cosiddetta questione romana, oggetto di studio da parte delle associazioni, affrontata dai comitati di cittadini e discussa nelle esperienze di occupazione, in quelle di riappropriazione di luoghi abbandonati e nei centri sociali.
Nelle iniziative della «città fai da te», come la chiama nel suo libro Carlo Cellammare, c’è la possibilità di andare oltre il racconto dominante, di immaginare alternative a ciò che è identico ormai da danni: topi e gabbiani, i rifiuti in strada che l’estate marciscono e puzzano, i cassonetti che si riempiono fino a strabordare durante il periodo di Natale.
Per affrontare la crisi dei rifiuti come battaglia ecologista, e non solo come singola vertenza, c’è quindi un evidente bisogno di politica, come spiegava qualche mese Christian Raimo sul Manifesto.
In questi anni, i dati epidemiologici sugli impatti sanitari del ciclo dei rifiuti del Lazio, raccolti nello studio dell’Eras – il programma di epidemiologia ambientale della Regione Lazio – sono stati citati più dagli attivisti, che dal Campidoglio e dalla stessa Regione che ne è stata promotrice. Mentre tonnellate di rifiuti trasformavano il Tmb Salario in una discarica, il Partito democratico era in strada con le sue ramazze gialle, mentre i Cinque Stelle romani stampavano opuscoli contro l’abbandono in strada dei rifiuti ingombranti.
Sono stati gli abitanti e le istituzioni locali del terzo municipio a far capire che «l’emergenza rifiuti non sta nei cassonetti ma negli ospedali e nelle farmacie», nelle parole di un attivista durante uno degli innumerevoli incontri dell’Osservatorio permanente contro il Tmb.
Guardare la catastrofe dei rifiuti romani senza connettere le lotte ambientali, e senza pensare alla catastrofe climatica, può far sparire qualche sacchetto da terra ma difficilmente farà germogliare una cultura ecologista capace di intraprendere la strada dell’economia circolare. 
Su questo punto forse la piccola grande vittoria di Colleferro può suggerire una pratica da tenere in considerazione.
Gli stessi che hanno lottato per la chiusura degli inceneritori e della discarica, hanno contemporaneamente aperto delle biblioteche.
Proprio l’Ugi cura oggi lo Scaffale ambientalista: un’aula studio e una biblioteca ambientale in cui, mentre si risolve in parte il problema degli spazi di aggregazione in città, si può leggere Alexander Langer, Naomi Klein, Olga Tokarczuk, Toni Morrison.
Alcuni attivisti di Rifiutiamoli hanno fondato Oltre il Ponte, un’associazione che ha costruito una biblioteca con più di tremila libri all’interno della scuola elementare del quartiere Scalo.
«Ma che ve state a inventà?», ci dicevano dieci anni fa.
Ci siamo inventati qualcosa di diverso da quei mostri che Tiziano e gli altri hanno combattuto.
L’antropologo e scrittore Matteo Meschiari, in una conversazione con la scrittrice Giulia Caminito, parla del suo ultimo libro, L’Ora del Mondo, e del ruolo delle leggende, dei miti nelle narrazioni contemporanee, del rapporto uomo-natura e dell’urgenza, in questa crisi climatica di «fondare un immaginario completamente diverso».
Lottare è necessario perché sull’immaginario qualcuno è sempre pronto a sputarci sopra. 

*Alessandro Coltré, giornalista e attivista della Valle del Sacco, collabora con A Sud e il Centro di Documentazione sui Conflitti ambientali.

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