giovedì 23 gennaio 2020

Libro. "Ricostruiamo la nostra parte. Quella che oggi chiamiamo ancora sinistra è di fatto destra".

Pubblichiamo la premessa al nuovo libro di Tomaso Montanari, “Dalla parte del torto. Per la sinistra che non c’è”, per l’editore Chiarelettere.

Anticipiamo la premessa dell’ultimo libro di Tomaso Montanari: “Dalla parte del
torto. Per la sinistra che non c’è”, in libreria per l’editore Chiarelettere.


Questo libro.
Una mattina di settembre, fresca e assolata. A Pescia, nella campagna toscana: sulla scalinata di una splendida villa patrizia ottocentesca. Il simbolo di una ricchezza antica, che affonda le radici nei privilegi feudali del medioevo: fondata su uno sfruttamento secolare, e poi aumentata col duro lavoro degli operai nelle cartiere e nelle altre fabbriche della famiglia. Finché, nel 1904, quella villa diventa di proprietà pubblica, e diventa una scuola. Un esemplare istituto tecnico agrario, con dieci ettari di tenuta in cui imparare. Una ricchezza pubblica, aperta: che prende il posto di un dominio chiuso, privato.
Uno straordinario sentimento di felicità e di giustizia: il significato più profondo di un luogo bello e giusto insieme. Inclusivo: non esclusivo. Capace di mettere in comunione passato e futuro.
Un’isola: nel mare nero e minaccioso che la contraddice e la assedia. Il mare di un senso comune fondato sull’«ossessione per la creazione di ricchezza, [sul] culto della privatizzazione e del settore privato, [sulle] disparità crescenti tra ricchi e poveri».

Ecco, in quel luogo incantato ho pensato che, se ce l’abbiamo fatta una volta, possiamo farcela ancora. Le straordinarie conquiste sociali di un passato recente ci devono scuotere: «non possiamo continuare a vivere così». Non possiamo: perché il nostro «sistema sociale ed economico è ingiusto alla radice».
È il paradosso della nostra epoca: non si può non essere ‘contro’ se si ama davvero la vita. Quanto più grande è il nostro amore per gli uomini e per le cose belle di questo mondo, tanto più grande è il desiderio di cambiarlo, il mondo. Perché questo «sistema sociale ed economico» – il capitalismo – non è più compatibile con i diritti umani. Con l’esistenza stessa dell’uomo su questo pianeta.
Ci vuole il coraggio di vederlo, e di dirlo. Un coraggio che avevamo, e che abbiamo perduto quando ci siamo fatti convincere che diventare adulti significhi accettare il mondo così com’è. Il piccolo libro che state per leggere è l’invito ad una ribellione intellettuale ed emotiva: un invito a liberare la parte di noi che è rimasta fedele alle aspirazioni, alle convinzioni, all’etica di quando eravamo bambini. Prima del compromesso con lo stato delle cose. George Orwell, forse il maggiore scrittore politico del Novecento, ha riflettuto con straordinaria profondità sulla necessità di «non abbandonare completamente la visione del mondo acquisita nell’infanzia»: e cioè «la capacità di desiderare follemente cose che da grandi non si sognano più».
Ebbene, possiamo – dobbiamo – tornare a desiderare follemente, con implacabile determinazione e insieme con intatta allegria, un mondo giusto. Un mondo in cui «il fine della società è la felicità comune».
Reimparare a ‘parlarlo’, quel mondo. A rimetterlo nel senso comune delle persone del nostro tempo. Ricominciare a lottare per questo.
La condizione per riuscirci è partire da una critica radicale alla mentalità corrente, e allo stato delle cose: smettere di credere che «tutto ciò che esiste, è naturale che esista così». Perché, no: non è naturale. Si può e si deve cambiare. E se questo mondo non ci piace, se vogliamo cambiarlo davvero, allora dobbiamo smetterla di accontentarci del meno peggio, del voto utile, del compromesso necessario, della ‘sinistra di destra’.
Al contrario: ripartire dalla comprensione, dalla condanna e dal ripudio dei tradimenti che ci hanno condotto fino a questo punto. E soprattutto ricominciare a dirci come lo vogliamo, il mondo. Come cento anni fa dicevano i fratelli Rosselli, fondando a Firenze il loro ‘circolo di cultura’ contro il primo fascismo: «prima di agire, bisogna capire».
Oggi bisogna capire che quella che stancamente chiamiamo ancora sinistra, è di fatto una destra. Una delle tante destre attuali. Dopo trent’anni di resa, quella sinistra (‘di governo’, ‘istituzionale’, ‘a vocazione maggioritaria’ …) ormai non solo agisce, ma pensa come una destra: ed è proprio così che siamo arrivati all’egemonia culturale di destra, e quindi alla presa del potere da parte della destra neofascista (fascista in un modo nuovo).
In Italia questo pericolo fatale è stato per ora arginato. Ma, credetemi, la resa dei conti è solo rinviata: se non si inverte la rotta, se non si ricomincia a pensare e ad operare secondo giustizia, cioè dalla parte dei più poveri, allora quella destra nera tornerà al potere, più forte di prima. E, lo sappiamo: le democrazie possono morire.
Non possiamo aspettare ancora: è questo il tempo per ricostruire dalla ‘parte nostra’
Non abbiamo ancora una parola migliore di ‘sinistra’ per indicarla, questa nostra ‘parte’. Quella per cui parteggiare, per cui essere partigiani. La parte nostra: quella della giustizia.
E se vogliamo che questa sinistra che non c’è possa rinascere – se vogliamo trovare la forza per ricostruirla – è urgente dirci cosa deve essere. Cosa vogliamo, e cosa non vogliamo. Bisogna capire fino in fondo che una sinistra è tale solo se contesta alla radice – cioè appunto in modo radicale – la dittatura del mercato, l’abisso delle diseguaglianze, lo svuotamento della democrazia. Se invece continua a ripetere che a tutto questo There Is No Alternative, allora non è una sinistra. Dobbiamo riconoscere che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel nostro modo di vivere, oggi. Per trent’anni abbiamo trasformato in virtù il perseguimento dell’interesse materiale personale: anzi, ormai questo è l’unico scopo collettivo che ancora ci rimane. Sappiamo quanto costano le cose, ma non quanto valgono. Non ci chiediamo più, di una sentenza di tribunale o di una legge, se sia buona, se sia equa, se sia corretta, se contribuirà a rendere migliore la società, o il mondo. Erano queste un tempo le domande politiche per eccellenza, anche se non era facile dare una risposta: dobbiamo reimparare a porci queste domande. Dobbiamo sottoporre a critica radicale l’ammirazione per mercati liberi da lacci e laccioli, il disprezzo per il settore pubblico, l’illusione di una crescita senza fine. Non possiamo continuare a vivere così.

La via maestra per non continuare così, è pensare il conflitto sociale. La destra che fomenta la guerra tra poveri bianchi e poveri neri si batte solo costruendo il conflitto tra poveri e ricchi. Tra sommersi e salvati. Tra schiavi e padroni. Tra oppressi e oppressori. Un conflitto incruento, quanto intenso: un conflitto locale, nazionale, europeo, globale.
Non sono un politico, né uno scienziato della politica, un sociologo o uno storico. Non sono un addetto ai lavori: nelle prossime pagine vorrei provare a prendere la parola, in prima persona e da cittadino, per dire che è ora di invertire la rotta. Le parole che userò appariranno ‘ingenue’: non tecniche, non scientifiche, non accortamente ‘politiche’. Non rivolte ai militanti, che già le conoscono: ma rivolte a tutte le persone di buona volontà che in qualche minuto della loro giornata pensano che: no, non si può andare avanti così. Perché «non serve un progetto di pochi per pochi. Di una minoranza illuminata o rappresentativa che si appropria di un significato collettivo»: serve un grande movimento popolare. E dunque le parole devono essere le più radicali possibile: quelle del Vangelo, quelle della Rivoluzione francese del 1789, quelle della Costituzione italiana del 1948. Parole vive, oggi più che mai.
Questo piccolo libro non vuole dare ricette, preparare soluzioni immediate, suggerire vie di fuga. Il suo obiettivo è contribuire alla ricostruzione di un senso comune di rivolta contro lo stato delle cose. Condividere pensieri e parole che aiutino a vedere il mondo ‘dalla parte del torto’: cioè dalla parte degli sconfitti, dei sommersi, dei poveri.
Chi leggerà le prossime pagine con in testa gli schemi della politica italiana com’è raccontata sui giornali, rimarrà deluso.
Ho imparato a mie spese che la politica di sinistra non va cercata nella sinistra politica. Nel giugno del 2017 ho provato a dare il mio contributo a quello che forse è stato l’ultimo treno che poteva congiungere i residui della sinistra parlamentare alla sinistra vera, quella che ogni giorno, per strada, costruisce la giustizia attraverso lotte e azioni di solidarietà. Ma quel percorso, partito dal Teatro Brancaccio di Roma, si è arenato sulle meschine cecità degli ultimi rappresentanti di un ceto politico desolante. D’altra parte, le tenuissime, ingenue speranze che il Movimento 5 Stelle, nato come né di destra né di sinistra, uscisse dall’ambiguità ‘a sinistra’ sono state drammaticamente frustrate dalla nascita del primo governo Conte, autore di politiche francamente fasciste. I milioni di voti ricevuti dai ‘sommersi’ (cioè i protagonisti di qualunque sinistra possibile), alcune radici nella lotta per i beni comuni (acqua e ambiente) e la partecipazione alla battaglia contro la riforma costituzionale Renzi-Boschi non sono stati sufficienti: né probabilmente potevano esserlo, vista l’assetto proprietario del Movimento, e la natura, servile e predatoria insieme, del suo ceto ‘dirigente’.
Mentre scrivo siamo dunque al grado zero: con un governo ‘di legittima difesa’, incredibilmente guidato dallo stesso presidente del consiglio che guidava il governo con la destra estrema. È possibile ­– e c’è da sperarlo – che questo esecutivo, così bisognoso di consenso, accolga alcune richieste dei sindacati (penso a quelle che riguardano il cuneo fiscale, e la rappresentanza sindacale, per esempio), ma l’identità di alcuni ministri (che rivela una perfetta continuità con le politiche del consumo di territorio) e la decisione di non abrogare il Decreto Sicurezza della Lega certificano che, nel migliore dei casi, siamo di fronte all’ennesimo governo dello stato delle cose. Certamente non è da questi partiti né da questa esperienza che ci si può aspettare una svolta a sinistra.
Questo significa che, anche alle prossime elezioni, milioni di italiani di sinistra – quelli che vorrebbero il capovolgimento dei rapporti di forza vigenti – semplicemente non voteranno. Ma per quanto ad ogni scadenza elettorale sia insopportabilmente penoso andare al seggio a depositare una scheda bianca, è evidente che non si esce da questo drammatico stallo con velleitarie e occasionali formule elettorali, né semplicemente pensando di fondare un ‘nuovo partito di sinistra’.
Stiamo attraversando una lunga notte, nella quale – prima di agire – è necessario vegliare, riunendoci intorno agli sparsi fuochi delle mille resistenze che illuminano, malgrado tutto, l’Italia.
Vegliare a pensare, a parlare: per dirci cosa vuol dire, oggi, essere a sinistra. Per capire in quale direzione, come e con chi riprendere la marcia, prima dell’alba.
Perché ci sia, un’alba.

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